30 aprile 2010 17:48

Per molti di noi la paura di volare si traduce in un’immagine molto concreta: siamo ossessionati dal pensiero di quante parti di una macchina immensamente complicata devono funzionare alla perfezione perché l’aereo rimanga in aria. Una levetta che si rompe da qualche parte e l’aereo può avvitarsi su se stesso e precipitare…

Quando cominciamo a pensare a quante cose potrebbero andare storte, proviamo una sensazione di panico totale e soffocante. Qualcosa di simile l’abbiamo vissuto qui in Europa nelle ultime settimane. Il fatto che la nuvola creata da una modesta eruzione vulcanica in Islanda – un disturbo minore nel complesso meccanismo della vita sulla Terra – possa paralizzare il traffico aereo di un intero continente serve a ricordarci che, con tutta la sua spaventosa attività per trasformare la natura, il genere umano rimane solo una delle tante specie viventi sul pianeta Terra.

Il catastrofico impatto socioeconomico di un’eruzione di scarso rilievo è dovuto al nostro sviluppo tecnologico (i viaggi aerei): un secolo fa non se ne sarebbe accorto quasi nessuno. Lo sviluppo tecnologico ci rende più indipendenti dalla natura e allo stesso tempo, a un livello diverso, più condizionati dai suoi capricci. Quarant’anni fa, quando l’uomo fece il primo passo sulla superficie della Luna, le sue prime parole furono: “Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un grande balzo per l’umanità”. Ora, a proposito dell’eruzione vulcanica in Islanda e delle sue conseguenze, possiamo dire: “Un piccolo passo indietro per la natura, ma un grande balzo indietro per l’umanità”.

Alcune lezioni

E qui sta la prima lezione da trarre dall’ultima eruzione vulcanica: la nostra maggiore libertà, il nostro controllo sempre maggiore sulla natura e la nostra stessa sopravvivenza dipendono dalla stabilità di una serie di parametri naturali che noi diamo per scontati (temperatura, composizione dell’aria, sufficienti riserve di acqua ed energia eccetera). Possiamo “fare quello che vogliamo” ma solo nella misura in cui rimaniamo abbastanza marginali, in modo da non turbare seriamente i parametri della vita sulla Terra. La limitazione della libertà che diventa palpabile con i problemi ecologici è l’esito paradossale della stessa crescita esponenziale della nostra libertà e del nostro potere: la sempre maggiore capacità di trasformare la natura intorno a noi può destabilizzare i parametri geologici fondamentali della vita sulla Terra.

Il fatto che l’umanità stia diventando un agente geologico della Terra indica che è cominciata una nuova era geologica, ribattezzata da alcuni scienziati “Antropocene”. Con gli ultimi, devastanti terremoti nelle zone interne della Cina, questo concetto di Antropocene è diventato più attuale: ci sono buone ragioni per supporre che la causa principale della violenza quanto meno inattesa del sisma sia stata la costruzione della gigantesca diga delle Tre Gole con la conseguente creazione di grandi laghi artificiali. L’aumento della pressione sulla superficie terrestre sembra influenzare l’equilibrio della faglia sotterranea e contribuire alle ondate sismiche. Anche un fenomeno elementare come il terremoto, quindi, andrebbe annoverato tra quelli influenzati dall’attività umana.

Ma c’è qualcosa di ingannevolmente rassicurante in questa volontà di prendersi la colpa di quanto succede al nostro ambiente: ci piace essere colpevoli perché, in questo caso, tutto dipende da noi, siamo noi a tenere le fila della catastrofe, perciò siamo noi che possiamo salvare il genere umano semplicemente cambiando la nostra vita. L’eruzione vulcanica in corso serve a ricordarci che i problemi ecologici non possono essere ridotti alla nostra hubris, all’aver turbato l’equilibrio di Madre Terra. La natura è di per sé caotica, incline ai disastri più violenti, a catastrofi imprevedibili e senza senso. Siamo impietosamente esposti ai capricci crudeli della natura, non c’è nessuna Madre Terra a vegliare su di noi. Noi non turbiamo l’equilibrio della natura, ne facciamo semplicemente parte. Un altro sviluppo imprevisto è costituito dal fatto che, con i vulcani, il pericolo viene dall’interno della Terra, da sotto i nostri piedi, non dallo spazio esterno. Non abbiamo un posto dove fuggire.

Natura e cultura

Un’altra cosa che balza agli occhi nelle notizie sulla cenere del vulcano islandese è il complesso intreccio di natura e cultura. La stessa collocazione delle notizie sulla nuvola di polvere è significativa: a volte è trattata come una catastrofe naturale, altre volte come un fenomeno meteorologico, a volte riguarda l’economia – cioè le perdite finanziarie delle compagnie aeree o di chi dipende dal trasporto aereo, come i coltivatori di fiori in Kenya – altre volte è un fattore di disturbo della vita sociale (i passeggeri costretti ad attese di giorni e giorni). La stessa polemica sulla necessità di vietare o meno i voli sull’Europa mette in luce questo intreccio di natura e cultura (economia): se l’argomento principale a favore della chiusura dello spazio aereo era il pericolo di polvere vulcanica nei motori degli aerei, il più forte argomento contrario era la perdita finanziaria che questa chiusura comportava per le compagnie aeree e per l’intera economia.

Un’argomentazione davvero molto strana, che mette sullo stesso piano problemi molto diversi. Anche se ci sono buone ragioni per ritenere giustificata la graduale apertura dei cieli europei, ci resta un amaro retrogusto di sospetto: com’è possibile che le prove scientifiche abbiano cominciato a dimostrare che era possibile volare su gran parte dell’Europa proprio quando la pressione esercitata dalle compagnie aeree stava diventando insopportabile? Non è una nuova prova del fatto che il capitale è l’unica realtà della nostra vita? Perfino le considerazioni scientifiche sui pericoli naturali devono inchinarsi alle sue pressioni.

Un’altra lezione riguarda la dimensione temporale: a generare ansia è la prospettiva che il vulcano possa continuare a eruttare polvere per mesi, forse addirittura anni. Da noi, nell’occidente sviluppato, il trauma di regola è vissuto come un’intrusione momentanea che disturba violentemente la normale vita quotidiana (un attacco terroristico, una rapina o uno stupro, un terremoto o un uragano). Ma cosa dire delle persone per cui il trauma è uno stato permanente, un modo di vivere, come chi vive in paesi lacerati dalla guerra come il Sudan e la Repubblica Democratica del Congo? Non hanno nessun luogo dove fuggire per sottrarsi alla loro esperienza traumatica, tanto che non possono neppure sostenere di essere ossessionati dal suo spettro anche a distanza di tempo: quello che rimane non è lo spettro del trauma, ma il trauma stesso. Definirli soggetti “post-traumatici” è quasi un ossimoro, perché ciò che rende così traumatica la loro situazione è proprio la persistenza del trauma.

Il futuro fa paura

I rischi quindi esplodono ovunque, e noi contiamo sugli scienziati per affrontarli. E qui sta il problema: gli scienziati/esperti sono soggetti che dovrebbero sapere, ma non sanno. Il peso della scienza nelle nostre società ha due risvolti inattesi: ci affidiamo sempre più agli esperti perfino nelle sfere più intime della nostra esperienza (sessualità e religione), ma questa universalizzazione trasforma il campo della conoscenza scientifica in un “non tutto” inconsistente e antagonistico. La vecchia scissione platonica tra il pluralismo di opinioni (doxa) e un’unica verità scientifica universale si trasforma in un’arena di antitetiche “opinioni di esperti”. E, come sempre succede, questa universalizzazione implica una riflessione su di sé: le minacce di oggi non sono per lo più esterne (naturali), ma autogenerate dall’attività umana permeata dalla scienza (le ricadute ambientali della nostra industria, le conseguenze psicologiche della biogenetica incontrollata e così via).

Tanto che le scienze sono contemporaneamente una delle fonti di rischio, l’unico mezzo che abbiamo per capire e definire le minacce e uno degli strumenti per affrontare la minaccia, per trovare una via d’uscita. Anche se diamo alla civiltà scientifico-tecnologica la colpa del riscaldamento globale, abbiamo bisogno della stessa scienza non solo per definire la portata della minaccia, ma spesso addirittura per percepirla: “il buco nell’ozono” può essere “visto” nel cielo solo dagli scienziati. Il wagneriano “Die Wunde schliest der Speer nur, der Sie schlug”, la ferita può essere guarita solo dalla lancia che l’ha inflitta, acquista un nuovo significato.

La categoria paradigmatica che rivela questa impotenza della scienza e allo stesso tempo la nasconde dietro l’ingannevole cortina della sicurezza degli esperti è il “valore di limite”: quanto possiamo ancora inquinare l’ambiente senza correre rischi, quanti combustibili fossili possiamo bruciare, quale quantità di una sostanza velenosa non minaccia la nostra salute e così via (oppure, in una versione razzista, quanti stranieri possono essere integrati nella nostra comunità senza mettere in pericolo la nostra identità). Il problema evidente è che a causa della non trasparenza della situazione, ogni “valore di limite” ha l’aspetto di una finzione, di un intervento simbolico e arbitrario nella realtà: possiamo davvero essere certi che il livello di zucchero nel sangue prescritto dai medici è quello giusto, e che al di sopra di quel valore siamo in pericolo mentre al di sotto siamo al sicuro?

Il fatto che le nostre conoscenze siano limitate non implica certo che dovremmo sottovalutare i pericoli per l’ambiente. Al contrario, dovremmo essere ancora più cauti, perché la situazione è decisamente imprevedibile. Le recenti incertezze sul riscaldamento globale non significano che la situazione non è poi così grave, ma che è ancora più caotica di quanto pensassimo, e che i fattori naturali e sociali sono indissolubilmente legati. Le attuali minacce all’equilibrio ecologico ci pongono davanti a un dilemma: o le prendiamo sul serio e decidiamo di intervenire subito a rischio di sembrare ridicoli se la catastrofe non si verificherà, oppure non facciamo niente e nel caso di una catastrofe perdiamo tutto.

La scelta peggiore sarebbe quella di una via di mezzo, cioè di adottare solo misure limitate: in questo caso, falliremmo comunque. Non c’è una via di mezzo per quanto riguarda la catastrofe ambientale, e in questo contesto i discorsi sull’anticipazione, la precauzione e il controllo del rischio tendono a diventare insensati, perché abbiamo a che fare con quelli che, nella teoria della conoscenza rumsfeldiana, verrebbero definiti “fatti ignoti sconosciuti”: non solo non sappiamo qual è il punto di non ritorno, non sappiamo neppure esattamente che cosa non sappiamo.

Si può davvero imparare molto dalla teoria della conoscenza rumsfeldiana. L’espressione si riferisce, ovviamente, al famoso episodio del marzo 2003, quando Donald Rumsfeld si mise a filosofeggiare da dilettante sul rapporto tra noto e ignoto: “Ci sono fatti noti conosciuti. Ci sono cose che sappiamo di sapere. Ci sono fatti ignoti conosciuti. Vale a dire, ci sono cose che sappiamo di non sapere. Ma ci sono anche fatti ignoti sconosciuti. Ci sono cose che non sappiamo di non sapere”. Ma dimenticò di aggiungere il quarto assunto fondamentale, “i fatti noti sconosciuti”, le cose che non sappiamo di sapere – vale a dire l’inconscio freudiano, “la conoscenza che non conosce se stessa”, come diceva Lacan.

Se Rumsfeld pensava che nello scontro con l’Iraq il pericolo maggiore fosse rappresentato dai “fatti ignoti sconosciuti” , le minacce di Saddam di cui non sospettavamo neppure l’esistenza, noi dovremmo replicare che il pericolo principale sono, al contrario, “i fatti noti sconosciuti”, le convinzioni e le ipotesi rimosse a cui non siamo neppure consapevoli di aderire. Nel caso dell’ecologia, sono queste convinzioni e ipotesi rimosse a impedirci di credere davvero nella possibilità della catastrofe, e s’intrecciano con “i fatti ignoti sconosciuti”.

L’insegnamento principale da trarre, quindi, è che l’umanità dovrebbe prepararsi a vivere in un modo più “plastico” e nomade: cambiamenti locali o globali nell’ambiente possono imporre la necessità di trasformazioni sociali di dimensioni senza precedenti. Supponiamo che una gigantesca eruzione vulcanica renda inabitabile l’intera Islanda: dove potrà trasferirsi il popolo islandese? In quali condizioni? Dovrebbe aver diritto a un pezzo di terra o essere disperso in giro per il mondo? Cosa succederà se la Siberia del nord diventerà più abitabile e adatta all’agricoltura mentre vaste regioni subsahariane si trasformeranno in territori troppo aridi per ospitare la vita umana? Come si organizzerà lo scambio di popolazioni?

Quando in passato ci furono fenomeni analoghi, i cambiamenti sociali avvennero in modo selvaggio e spontaneo, e furono accompagnati da violenza e distruzione: una prospettiva catastrofica nella realtà di oggi, quando tutti i paesi hanno accesso ad armi di distruzione di massa. Una cosa è chiara: la sovranità nazionale dovrà essere radicalmente ridefinita e bisognerà inventare nuovi livelli di cooperazione globale. E che dire degli immensi cambiamenti nell’economia e nei consumi dovuti alle nuove condizioni meteorologiche o alla penuria di acqua e di risorse energetiche? Attraverso quali processi decisionali saranno governati questi cambiamenti? È qui che dovremmo tornare ai quattro momenti di quella che Alain Badiou chiama “l’Idea eterna” della giustizia rivoluzionaria-egualitaria. Ecco cosa serve.

• Una rigorosa giustizia egualitaria: tutti dovrebbero pagare lo stesso prezzo in termini di rinunce, cioè bisognerebbe imporre in tutto il mondo le stesse norme di consumo energetico pro capite, emissioni di CO2 eccetera. Non si dovrebbe consentire ai paesi sviluppati di avvelenare l’ambiente al ritmo attuale, accusando i pae­si in via di sviluppo, dal Brasile alla Cina, di rovinare il nostro ambiente condiviso con la loro rapida crescita.

• Il terrore: punire senza pietà tutti coloro che violano le misure protettive imposte a tutti, anche con severe limitazioni delle “libertà” liberali e attraverso il controllo tecnologico dei potenziali trasgressori.

• Il volontarismo: l’unico modo per affrontare la minaccia di catastrofe ecologica è ricorrere a decisioni collettive su larga scala che contrastino la “spontanea” logica immanente dello sviluppo capitalistico. Fu già Walter Benjamin a sottolineare, nelle sue Tesi sul concetto di storia, che oggi il compito di una rivoluzione non è di aiutare la tendenza o la necessità storica a realizzare se stessa, ma di “fermare il treno” della storia che corre verso il precipizio della catastrofe globale: un’intuizione che acquista nuovo rilievo nella prospettiva di una catastrofe ecologica.

• E infine, last but not least, a tutto questo bisogna aggiungere la fiducia nelle persone: la scommessa che in grande maggioranza appoggeranno queste misure severe, le faranno proprie e saranno pronte a farle rispettare. Non bisognerebbe aver paura di sostenere, fondendo terrore e fiducia nelle persone, la riattivazione di una delle figure di ogni terrore rivoluzionario-egualitario, “l’informatore” che denuncia i colpevoli alle autorità (già nel caso dello scandalo Enron, la rivista Time fece bene a celebrare come veri eroi gli insider che hanno smascherato le autorità finanziarie).

Un tempo, lo chiamavamo comunismo.

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