27 maggio 2016 11:20

Le mie figlie hanno appena votato per la prima volta alle elezioni per il sindaco di Londra. Ho insistito perché si registrassero appena hanno compiuto 18 anni, dopodiché mi sono data da fare per procurarmi le schede elettorali e il giorno delle elezioni le ho pressate per assicurarmi che andassero a votare. Niente adolescenti ciniche che snobbano le elezioni, in casa mia. Potrei perfino avere pronunciato la frase: “Ci sono persone che sono morte perché voi poteste votare”, tanto per rendere l’idea.

Arrivato il gran giorno, erano entrambe piuttosto eccitate. Sono andate a scuola, poi è cominciato un pomeriggio di sms.

“Dov’è il seggio elettorale?”.

“Alla scuola elementare”.

“Ma c’è un cartello che ne indica un altro”.

“Sì, ce ne sono diversi”.

“Io ho dimenticato la mia scheda elettorale!”.

“Non ce n’è bisogno”.

“Allora devo portare un documento d’identità, giusto?”.

“No, non ti serve nessun documento. Devi solo dare nome e indirizzo”.

“Aspetta un attimo: ci vuole un documento per comprare da bere ma non per votare? Ma potrei essere chiunque”.

“Be’… sì”.

“Devo portare una penna?”.

“No, c’è una matita attaccata a una cordicella”.

“Cosa? Voto con una matita?”

“Be’… sì”.

A quel punto erano ormai riuscite a mettermi in agitazione. Sembrava tutto un po’ improvvisato, un po’ alla buona. Ma quando sono tornate a casa la sera si sentivano importanti e adulte. Un’altra tappa fondamentale superata.

Lo scoramento, da Margaret Thatcher in poi

Le prime elezioni politiche che ricordo sono quelle del 1979: avevo 16 anni. Siccome ci sentivamo ingabbiate in una famiglia conservatrice di una cittadina conservatrice, io e mia sorella avevamo deciso che eravamo laburiste: un gesto di ribellione che aveva più a che fare con il comprare dischi punk e portare i jeans stretti che con la politica. Laburisti contro conservatori mi sembrava la naturale estensione di punk contro conformisti. Una ragazza che il giorno delle elezioni era venuta a scuola con una spilla con la scritta “Vota laburista” dovvette togliersela. Pensate un po’, era stata punita perché sapeva che c’erano le elezioni. Oggi sarebbe stata nominata capoclasse per questo.

Rimasi alzata fino all’una e mezza di notte a guardare i risultati alla tv, e il giorno dopo scrissi sul diario: “A scuola erano quasi tutti depressi. E così abbiamo il nostro primo capo del governo donna. Peccato che sia Margaret Thatcher”. Quel senso di scoramento non mi avrebbe più lasciato per parecchie elezioni.

Quando finalmente Tony Blair ha trionfato nel 1997, ormai non sapevo più come reagire o comportarmi. Le mie figlie, invece, hanno fatto centro al primo colpo

Nel 1983 vivevo con Ben a Hull. Il nostro amico Simon Booth, che suonava in una band molto politicizzata, i Working Week, venne a stare da noi e guardammo insieme la sconfitta laburista sul nostro piccolo televisore portatile in bianco e nero. Simon lanciava un urlo di sgomento ogni volta che qualcuno perdeva il suo seggio: politici famosi come Tony Benn o parlamentari che io e Ben non avevamo mai sentito nominare, come Joan Lestor. Ci scambiavamo delle occhiate e ci lamentavamo insieme a lui.

Corbyn è il punk

Nel 1987, nonostante i nostri sforzi con il Red Wedge – il collettivo musicale che sosteneva i laburisti e le lotte dei minatori – i conservatori vinsero di nuovo. E nel 1992 è andata quasi peggio, a causa di un’insolita ventata di speranza che ci aveva illuso inutilmente. Quando finalmente Tony Blair ha trionfato nel 1997, ormai non sapevo più come reagire o comportarmi. Ricordo una stranissima sensazione di stordimento: non credevo che le elezioni si potessero vincere. Le consideravo un’occasione per sfogare sentimenti di rabbia e impotenza.

Le mie figlie, invece, hanno fatto centro al primo colpo. Quando è arrivata la notizia della vittoria di Sadiq Khan non hanno fatto una piega, dando per scontato che il loro voto conti qualcosa. Temo che questo le abbia avviate verso una vita di speranze nutrite e infrante: l’inevitabile destino dell’elettore laburista. I bookmaker della William Hill hanno già scommesso che non avremo un altro governo laburista prima del 2031.

Le mie figlie non sanno niente di tutto questo, e quando mi chiedono se penso che Jeremy Corbyn possa vincere nel 2020 guardo le loro faccine trepidanti e resto per qualche attimo in silenzio. “Onestamente?”, chiedo. “Temo che potrebbe essere schiacciato”.

Di fronte alla loro espressione delusa mi verrebbe voglia di dire: “Tranquille, ragazze, andrà tutto bene”. Invece mi metto a spiegare perché quello che a loro sembra disfattismo e cinismo da persone di mezza età a me sembra solo buonsenso.

“Oddio”, penso. “Ora sono io la conformista e Corbyn è il punk”.

(Traduzione di Diana Corsini)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman.

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