11 agosto 2017 10:29

Qualche settimana fa sono stata al National theatre a vedere non una produzione completa, ma il reading di una commedia – Wig out! di Tarell Alvin McCraney – diretta e interpretata dal suo stesso autore, e ispirata alla scena della “Ball culture” afroamericana. La pubblicità descriveva la commedia come “un’ampia, audace e scandalosa incursione nell’abbagliante mondo delle drag queen e del gender”, in cui “la House of Light contende il primato alla House of Diabolique, al Ballo di Cenerentola”.

Lo spettacolo si è rivelato all’altezza di questa eccitante presentazione, superando le modeste aspettative suscitate da una semplice “lettura” e offrendoci un’esperienza teatrale esplosiva. Anche il pubblico – meno controllato, etero e bianco di quello tradizionale del West End – si è dimostrato all’altezza, urlando e saltando in piedi alla fine, in una ovazione genuinamente emozionata e commossa.

La reazione che speravo
È stato un evento straordinario, e capitato solo due settimane dopo un altro successo, quando Ben e io abbiamo portato il più piccolo dei nostri figli a vedere The ferryman di Jez Butterworth. Il ragazzo ha solo 16 anni e ha scoperto il teatro da poco, quindi temevamo che proporgli una novità fosse rischioso. Ma non avremmo dovuto preoccuparci. Quello di Butterworth è un lavoro molto fisico e viscerale: ambientato nella contea nordirlandese di Armagh nel 1981, racconta la longa manus dell’Ira, sullo sfondo degli scioperi della fame. Mio figlio ha avuto bisogno di qualche ragguaglio storico, ma quando mi sono girata verso di lui alla fine della sconvolgente scena finale, mi ha detto: “Sto tremando davvero”. Esattamente la reazione che speri di vedere in un sedicenne che ha appena cominciato ad appassionarsi al teatro.

Ma il teatro non è sempre appassionante, vero? Siamo onesti. Non so quante volte io e Ben siamo sgattaiolati via durante l’intervallo, annoiati a morte da spettacoli monotoni e “impostati”. Ecco perché credo di poter considerare queste due ultime esperienze come un piccolo trionfo.

Non avevo riconosciuto mio figlio! Chi immaginava che sapesse parlare con l’accento texano?

Non sapevo neanche che mio figlio fosse così appassionato di teatro finché non l’ho visto in scena quest’anno, in una produzione scolastica di Enron. Aveva solo una piccola parte, ma è dovuto comunque avanzare al centro del palcoscenico, da solo sotto il riflettore, e recitare un monologo con l’accento texano. Vedendolo così fuori contesto, ho avuto un sussulto così forte che ho rischiato di cadere dalla poltrona: non avevo riconosciuto mio figlio! Chi immaginava che sapesse parlare con l’accento texano? (Si era esercitato per ore in bagno, mi ha raccontato poi.)

E quand’è che era diventato così alto? E così bello? Io lo vedo tutti i giorni, eppure, guardandolo sulla scena, riuscivo solo a pensare: “Chi diavolo è questo ragazzo allampanato con un sorriso hollywoodiano, che guarda dritto in platea e comunica con il pubblico come io non sono mai riuscita a fare in vent’anni di concerti?”.

Posso solo supporre che ce l’abbia nel sangue e che gli venga dalla famiglia di Ben. Ben studiava teatro a Hull quando l’ho conosciuto: in realtà, la prima volta che l’ho visto spogliato è stato a teatro, in una produzione di Racconto d’inverno in cui il regista, un po’ sadicamente a mio parere, aveva vestito un gruppo di ragazzi da satiri danzanti, coperti solo da un’enorme brachetta. Io e Ben avevamo appena cominciato a uscire insieme, quindi quella fu una specie di prima introduzione al corpo del mio nuovo ragazzo.

Anche lui aveva il teatro nel sangue, forse ereditato dalla madre: sul palco era sempre sicuro di sé e capace di godersi la presenza e la risposta del pubblico. Ecco perché lui suona ancora dal vivo e io no. Sua madre era stata un’attrice e aveva recitato nella compagnia di John Gielgud finché la sua carriera non si era interrotta con la nascita prima di un figlio e poi di tre gemelli.

Al suo funerale, un paio d’anni fa, abbiamo ascoltato una registrazione del suo provino alla Royal academy of dramatic arts negli anni quaranta, in cui recitava uno dei monologhi di Lady Macbeth: il tono declamatorio ed enfatico del suo inglese tagliente era teatrale e appariscente come le drag queen di Wig out!, che avrebbe adorato.

Mia suocera amava il teatro e adorava la fama. E non potendo più avere la sua, gioiva della nostra, mia e di Ben, conservando ogni ritaglio di giornale, indossando ogni maglietta, partecipando a ogni festa dietro le quinte. In mancanza dei riflettori, andavano bene anche le quinte, tesoro.

(Traduzione di Diana Corsini)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it