10 ottobre 2017 16:26

Ho sempre pensato di odiare i musical. Esagerati, sgargianti e minuziosamente coreografati, sembravano l’antitesi del minimalismo della scena indie in cui sono cresciuta e in cui prevaleva l’etica del fai-da-te raffazzonato: non era trendy essere troppo professionali, troppo fighetti e troppo “teatrali”. La mia immersione in quel mondo ha coinciso con gli anni esaltanti dei trionfi di Andrew Lloyd Webber nel West End: Evita nel 1978 e Cats nel 1981, che non ho mai visto perché all’epoca disdegnavo quel genere di spettacoli.

Da allora in poi, mi sono convinta che il musical non faceva per me, dimenticando la mia passione giovanile per West side story (di cui avevo acquistato lo spartito per pianoforte e di cui suonavo I feel pretty nell’intimità della stanza da pranzo, picchiando senza sosta sui tasti del piccolo piano verticale infilato dietro la porta). E dimenticando anche Incontriamoci a Saint Louis e È nata una stella, oltre a Un americano a Parigi, che ero stata a vedere insieme a un ragazzo con cui suonavo in una band, e che in qualche modo riusciva a combinare l’amore per i Clash con quello per Gene Kelly. Facevo finta di credere che La febbre del sabato sera e Cabaret non fossero veri musical, perché non era possibile che i miei due film preferiti in assoluto fossero musical, visto che i musical non mi piacevano.

Forse quelli che non mi piacevano erano solo i musical teatrali. Sì, doveva essere così. Erano orrendi. Cioè, non Funny girl, ovviamente. Quando qualcuno mi chiede: “Se potessi tornare indietro nel tempo, a quale spettacolo ti sarebbe piaciuto assistere?”, di solito rispondo: “Judy Garland al Carnegie Hall e Barbra Streisand nella produzione originale di Funny girl a Broadway”. Naturalmente farei un’eccezione anche per Bulli e pupe, South Pacific e My fair lady e… Oddio, cos’è che stavo dicendo? Mi sono sempre piaciuti i musical, solo che me ne ero dimenticata.

Quanto mi sarebbe piaciuto poter vedere quegli spettacoli negli anni settanta, quando erano nuovi e sorprendenti

Poi, una delle nostre gemelle mi ha portato a vedere Les misérables. Era impazzita. Aveva amato lo spettacolo a tal punto da leggere il romanzo di Victor Hugo, che aveva amato a tal punto da rileggerlo nell’originale francese. Lo so! Nessuno venga a dirmi che i giovani d’oggi sono pigri e disimpegnati. Così, l’ho accompagnata a vedere la produzione teatrale, con un’espressione scettica e il sopracciglio inarcato, che si erano già sciolti in un bagno di lacrime quando Éponine canta A little fall of rain e poi muore. Mi sono convertita? Sono diventata nostalgica?

Per colpa dei pregiudizi di quegli anni ho scoperto tardi Sondheim, e ho cercato di recuperare il tempo perduto tenendo d’occhio tutte le nuove produzioni londinesi. Assassins alla Menier Chocolate Factory è stato fantastico, e Imelda Staunton in Gypsy (sì, lo so che Sondheim ha scritto solo i testi delle canzoni) è stata una rivelazione. E stasera Imelda è di nuovo in scena al National theatre in Follies, lo spettacolo che è soprattutto un omaggio all’epoca delle Ziegfeld follies, il periodo tra le due guerre che alcuni considerano l’età dell’oro del musical.

Anche se, come scrive Sondheim nel suo bellissimo Finishing the hat (una raccolta dei suoi testi accompagnata dalle sue riflessioni su quei testi e non solo): “C’è anche chi vede l’età dell’oro del musical negli anni cinquanta, ma ogni generazione è convinta che l’età dell’oro fosse quella precedente alla sua”. Quanto mi sarebbe piaciuto poter vedere quegli spettacoli negli anni settanta, quando erano nuovi e sorprendenti.

Lo sono ancora, certo, e questa produzione di Follies è una delizia dall’inizio alla fine. Oltre a essere una masterclass sulla scrittura dei testi di canzoni – nessuno è bravo come Sondheim a scrivere per le donne mature – è anche uno spettacolo sontuosamente bello, capace di passare in un attimo dall’emozione pura all’ironia corrosiva, senza il minimo sforzo apparente.

E mi rendo conto che quello che mi piace del musical è proprio la sua totale consacrazione al piacere del pubblico. Ogni secondo è pensato per piacere, tanto che alla fine ho la faccia che mi fa male a forza di sorridere, il mascara è tutto sbavato per qualcosa che avevo nell’occhio, e ho già preso i biglietti per tornare. Provateci a fermarmi, se ne avete il coraggio.

(Traduzione di Diana Corsini)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman.

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