11 dicembre 2017 16:46

Il nostro figlio più piccolo è andato in gita con la scuola, ed è la prima volta in quasi vent’anni che Ben e io abbiamo la casa tutta per noi per una settimana. Inizialmente dovevamo andare all’estero per il nostro minitour, ma poi il tour è stato cancellato e così abbiamo organizzato un itinerario di sfizi londinesi: la mostra di Jean-Michel Basquiat al Barbican, le altalene alla Tate Modern, cena con amici.

All’inizio tutto bene. Il sabato sera andiamo al London film festival per assistere alla proiezione di Here to be heard, un nuovo documentario sulle Slits. Tra il pubblico c’è un gruppetto sparso di vecchi punk incalliti: giacche di pelle colorate con vernice spray, creste, magliette sbiadite oggi leggermente più attillate. Per alcuni di noi è stata solo una fase, per altri un modo di vita.

Il film in sé è una classica biografia musicale – la prima metà è più interessante della seconda – ma merita di essere vista anche solo per i vecchi filmati di repertorio: Ari Up che fa skanking sul palco, Viv Albertine che balla il can-can in tutù e, la scena migliore di tutti, un’affollata stanza da letto in cui Viv guarda in concentrata ammirazione Chrissie Hynde che le mostra un giro di accordi alla chitarra.

Malanni e messaggi raggelanti
Dopodiché, tutti i nostri bei programmi se ne vanno in fumo per colpa di un brutto raffreddore che ci fa tossire e starnutire in un modo che sarebbe esagerato perfino in una sitcom. Un pomeriggio usciamo barcollanti e imbacuccati, e prendiamo un taxi per andare a vedere un altro film, The party. Purtroppo, parla di persone di mezz’età che hanno avventure extraconiugali e malattie terminali, e non ottiene l’effetto desiderato di tirarci su.

Nel complesso, siamo rimasti confinati in casa, e dio solo sa che silenzio c’è in casa. La sera, ogni tanto il soffitto della camera da letto scricchiola, come quando la figlia che dorme sopra di noi è a casa e cammina su e giù. Solo che lei non c’è, e quindi capisco che sono solo i rumori di assestamento della casa a fine giornata.

Il più piccolo ci manda un sms dalla gita scolastica, un messaggio di tre sole parole: “Oh mio Dio”. Proprio il tipo di sms che non vuoi ricevere da un figlio che si trova all’estero, per di più seguito da una pausa abbastanza lunga da gelarti il sangue. Qualche minuto dopo, mentre già immagino scene di orrore e disastro, arriva un altro sms: “Credo che il pezzo degli Orange Juice I can’t help myself sia la mia canzone preferita di tutti i tempi!”.

Così, mi raggomitolo sul divano con tè e fazzoletti di carta, e alterno la visione della quarta stagione di Transparent alla lettura di The Sparsholt affair di Alan Hollinghurst. Io adoro Transparent, nonostante il solipsismo melodrammatico dei suoi personaggi principali. No, aspettate, volevo dire proprio per quello. Si comportano tutti così male che in realtà l’effetto è rinfrescante come quello di un sorbetto al limone a fine pasto. In questa stagione la famiglia va in Israele, dove può comportarsi male anche con gli israeliani.

Dopo qualche episodio della serie, torno a The Sparsholt affair, che mi ricorda un po’ il ciclo di romanzi di Anthony Powell Una danza alla musica del tempo, perché abbraccia un arco temporale simile: comincia a Oxford durante la guerra, arriva ai circoli artistici e letterari bohémien della Londra degli anni sessanta e settanta, e finisce ai giorni nostri.

I personaggi sono scrittori e artisti che dipingono piccole tele a olio, e sono ritratti dai loro amanti; scrivono romanzi autobiografici sulle loro avventure sentimentali e vengono smascherati dalla stampa; si incontrano abitualmente in grandi case fatiscenti e a esposizioni private, dove in realtà “a essere esposti in privato erano solo gli ospiti”. Gli anni passano, alcuni personaggi sono ricorrenti e sbocciano, appassiscono e poi muoiono.

Il pomeriggio avanza e mi accorgo che si sta facendo buio. Un momento, però: non è un buio normale, sono solo le due di pomeriggio. Guardo fuori e il cielo è diventato giallo, le nuvole sono scure e itteriche, e gli uccelli muti come durante un’eclissi. L’uragano Ophelia lambisce le coste del paese, trasportando la polvere del Sahara e i detriti degli incendi in Portogallo. Il sole rosso e incandescente scompare dietro le nubi color seppia, e la casa sprofonda nell’oscurità.

A Londra, tutti twittano contemporaneamente l’arrivo dell’apocalisse, anche se capisci che in realtà sono elettrizzati e che il cielo è solo una buona scusa per restare incollati alla finestra a guardare fuori. Come del resto sto facendo anch’io.

(Traduzione di Diana Corsini)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman.

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