10 giugno 2018 11:05

Negli anni in cui Ben e io eravamo una band capitava spesso che nelle interviste ci chiedessero: “Come fate a essere una coppia e lavorare insieme? Qual è il segreto del vostro successo?”. Né io né Ben abbiamo mai avuto una risposta, reagivamo con arroganza o tiravamo su un muro di ostilità, per paura di sembrare monotoni, compiaciuti o autoreferenziali.

A volte ho pensato che fosse una domanda stupida, perché insinuava che ci fosse qualcosa di difficile, quando in realtà è stata una passeggiata. Abbiamo potuto avere una vita facile, piena di divertimento e varietà e ricompense. Perché mai avrebbe dovuto essere difficile viverla come una coppia felice?

Poi nel 1992 è arrivata la malattia di Ben, che ci ha traumatizzati entrambi, in modi diversi. La prospettiva si è capovolta: mi sono chiesta se quel male estremo stesse agendo come una colla, appiccicandoci l’uno all’altra, in salute e in malattia. Nella buona e nella cattiva sorte. Due facce della stessa medaglia, del tutto fuori dal nostro controllo.

Una lite furibonda
Sono passati vent’anni da quando abbiamo smesso di cantare insieme. Nel frattempo sono arrivati figli, lavori separati, vecchiaia e il peso del tempo. Ma nelle interviste continuano a chiedermi: “Qual è il segreto del vostro successo come coppia?”. Io sono ancora più riluttante di prima a rispondere, per paura di provocare il destino, di parlare come se il nostro futuro insieme sia inattaccabile.

Siamo appena stati in vacanza, solo noi due. È stato un atto deliberato. Ognuno preso dal suo lavoro, ci eravamo allontanati, con sporadici momenti di irritazione reciproca. Il recente libro di Claire Dederer, Love and trouble, racconta bene questo genere di fluttuazioni all’interno di un matrimonio: lo sforzo per tenere in vita l’amore, per non appassire in un abbraccio abitudinario, per non sparire sotto i requisiti sacrificali dell’essere padre e madre. “Voi due avete passato il test più importante”, ha scritto Claire. “Parlate ancora, scopate ancora. Ma a volte ricordate sinistramente le parole con cui il personaggio di Ethan Hawke in Before the sunset descrive il suo matrimonio: ‘Mi sembra di gestire un asilo insieme a qualcuno con cui ho avuto una storia’”.

Quelle parole mi hanno colpita, quindi ho organizzato la vacanza in una casa di pescatori a St. Ives. Era da molto che non partivamo senza i figli. È stata un’occasione per trovare pace, solitudine, riscoperta. È stato un idillio, tranne per un particolare. La prima sera abbiamo avuto una lite furibonda. Il genere di lite in cui qualcuno dice “me ne vado e ti lascio qui al ristorante”. La lite è continuata in strada, poi a casa. Si è avvelenata nel silenzio, in letti separati. Si è trascinata fino alla colazione, prima di evaporare durante una lunga passeggiata in un sentiero affacciato sul mare.

Andiamo avanti a tentoni, facciamo del nostro meglio, accettiamo le nostre differenze. Ci sono giorni buoni e giorni brutti

Abbiamo cominciato a passeggiare che eravamo ancora nervosi, senza parlare. Ma camminando l’incantesimo della vacanza ha cominciato a fare il suo effetto. Il mare onnipresente, la vista del faro di Godrevy. Il sentiero circondato da aglio selvatico, malva e aquilegia. La grande spiaggia immacolata con le piccole grotte e cascate. Gli strati di granito, il blu verdastro della covellite. Restare arrabbiati sarebbe stato controproducente, e comunque impossibile.

Quando abbiamo raggiunto Carbis Bay, dove Virginia Woolf si era stabilita per riprendersi da un tentativo di suicidio, eravamo di nuovo innamorati. Abbiamo camminato lentamente per i tre chilometri che ci hanno riportato a St. Ives, dove abbiamo comprato un gin della Cornovaglia e lo abbiamo bevuto abbracciati, pieni di comprensione e premura.

Avevamo bisogno della lite? È stata catartica? Non ne ho idea. Onestamente mettere le cose in questa luce mi sembra pericoloso. Il mio istinto mi dice che non c’è nessun “segreto”: andiamo avanti a tentoni, facciamo del nostro meglio, accettiamo le nostre differenze. Ci sono giorni buoni e giorni brutti.

Tornata a Londra, davanti alla tv che trasmetteva il royal wedding, ho sorriso di felicità davanti agli abiti e ho pianto di commozione davanti alle promesse.

Ho pensato al mio matrimonio con Ben, organizzato in fretta dopo 25 anni di fidanzamento per motivi che non ricordiamo più. Abbiamo scelto la cerimonia più breve, è finito tutto in cinque minuti ma entrambi abbiamo trovato il tempo di piangere. I nostri tre figli erano lì con noi. Quando siamo usciti fuori nel freddo di dicembre di King’s Road, una camionetta dei pompieri era bloccata nel traffico e ha acceso la sirena per noi. I pompieri ci salutavano, è stata una specie di serenata in uniforme.

Indossavo un vestito verde. Dicono che porti sfortuna. Siamo ancora sposati.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman.

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