11 gennaio 2016 19:05

Quando avevo sei anni ci trasferimmo da Caransebeș a Craiova. Non mi piaceva Craiova. I bambini erano scorbutici e i loro genitori odiavano visceralmente gli zingari. La mia fortuna fu che al quarto piano viveva una famiglia di greci. Avevano un figlio della mia età e con il mio stesso colore della pelle, perciò quasi nessuno giocava con lui. Facemmo subito amicizia. Anche se i primi mesi nella nuova città furono abbastanza difficili, imparai almeno a dire qualche parolaccia in greco. Il mio amico aveva anche degli strani giocattoli ricevuti dai parenti che vivevano dalla parte del mondo dove si fabbricava la Coca-Cola.

Il tiranno dei bambini del palazzo, Grasu, mi mise subito un soprannome: bulibașa (il capo di un clan di zingari). È vero, anche lui era un tantino nero, ma – devo ammetterlo – io ero il più scuro. Nel condominio si giocava parecchio a calcio. Io, invece, giocavo in casa con un pallone fatto di calze, finché mio zio Gogu mi regalò un pallone da pochi soldi. Anche se lo distrussi molto prima di quanto avessi immaginato, mi assicurò comunque l’ingresso nella squadra di calcio dei bambini del condominio.

Il terremoto del marzo del 1977 mi colse in piena fase di integrazione. Una delle donne più belle del palazzo, sorpresa dal terremoto mentre si stava facendo la doccia, uscì di casa completamente nuda. Il signor Popescu le offrì elegantemente il suo cappotto, suscitando così l’indignazione di gran parte dei ragazzi e degli uomini del palazzo. Dopo qualche giorno Cristi e Dan per punirlo gli tagliarono le gomme dell’auto, mentre gli altri uomini evitarono per qualche mese di bere in sua compagnia. Nonostante l’embargo a cui fu sottoposto, come ogni buon ferroviere del condominio Popescu continuò, con grande professionalità, a ubriacarsi da solo ogni giorno.

Mia zia Geta leggeva i fondi del caffè e prediceva il futuro alle donne della cittadina che non avevano accesso a psicoterapeuti o psicologi

Quell’anno passai l’estate a Caransebeș, da Geta, che mi tormentava in continuazione: voleva che le pitturassi il recinto del giardino e spesso mi svegliava nel cuore della notte per andare a rubare l’erba medica per i conigli, una specie di rito di socializzazione, visto che ogni volta incontravamo altre famiglie del quartiere.

Mio zio Karol, discendente dei tedeschi arrivati nel settecento nella regione del Banato, cucinava in modo eccezionale ed era anche un ottimo fattore, mentre mia zia Geta leggeva i fondi del caffè e prediceva il futuro alle donne della cittadina che non avevano accesso a psicoterapeuti o psicologi. Lo faceva, beninteso, dopo essere tornata dal lavoro: aveva un’energia fantastica e non riusciva a star ferma un attimo. Così guadagnava un mucchio di soldi, motivo per cui la loro casa era una meraviglia rispetto al nostro brutto appartamento di Craiova. Per strada era pieno di ragazzini e la maggior parte aveva almeno un genitore che non rientrava nella categoria del “romeno autentico”. Ma nessuno aveva problemi con nessuno: si dicevano le parolacce in quattro lingue, attività nella quale i tedeschi erano chiaramente in svantaggio.

Un giorno mio padre venne a prendermi per riportarmi a Craiova. Sul treno si mise a bere e si addormentò, così, invece di scendere a Craiova, scendemmo alla fermata successiva, da dove tornammo indietro con un treno merci. Fu un’esperienza divertente, perché viaggiammo seduti sulla rampa di una cisterna. Tornai a casa con i pantaloni sporchi di nafta. Mia madre si accorse che c’era qualcosa che non andava e prese a parolacce mio padre, il cui comportamento era piuttosto prevedibile. Umiliato, mio padre uscì di casa, si ubriacò e si addormentò, mentre mia madre continuava a lavorare.

La notte che mia madre mi comprò il primo paio di Adidas ci andai anche a dormire. Le cose sembravano andare per il meglio

La scuola cominciò male: non mi piaceva, e me ne tornai a casa alla prima ricreazione. Lo feci per qualche giorno, finché l’insegnante convocò mia madre, io mi presi un bel po’ di schiaffi e decisi che, se volevo diventare indipendente, avevo bisogno della scuola. Mi abituai velocemente e cominciai a fare i compiti anche per un compagno di classe, Sorin, che aveva il padre responsabile di un magazzino di merci. Mi pagava in stecche di cioccolato Kandia, a quei tempi introvabile nei negozi. Ma la cosa non funzionò a lungo: il padre di Sorin venne a scuola e mi mollò uno schiaffone per aver rubato la cioccolata a suo figlio. Sorin è poi diventato un piccolo politico locale.

Nella mia classe c’era anche il figlio di un colonnello, che mi picchiava ogni giorno perché facevo il furbo. Neanche la mia maestra inizialmente sembrava persuasa dai modi e dal colore della mia pelle, ma poi, fino alla quarta elementare, si è dimostrata una donna meravigliosa. Piciu, il mio compagno di banco, era il figlio di un’insegnante di matematica. Facevamo a gara a risolvere problemi di matematica, così diventammo i più bravi della classe. Col tempo, la cosa attirò l’attenzione di Claudia, la bellezza della classe, anche lei troppo scura per gli standard dell’aristocrazia di Craiova.

Poco a poco riuscii anche a fare amicizia con un gruppo di bambini del condominio e mi specializzai nel gioco del cerchio. Marius, il figlio del capostazione, aveva il cerchio più bello ma era un po’ imbranato. Alla fine riuscii a convincerlo che la mia bravura dipendeva dalla qualità del cerchio e non dall’abilità personale. Così mi offrì il suo cerchio e un’Eugenia (un biscotto amatissimo dai bambini di quegli anni) in cambio del mio, decisamente più misero. Per qualche settimana decisi di non farmi vedere in giro con il nuovo cerchio se non quando suo padre era al lavoro.

D’inverno in casa si stava parecchio bene: faceva caldo e avevamo l’acqua calda. La notte che mia madre mi comprò il primo paio di Adidas ci andai anche a dormire. Le cose sembravano andare per il meglio. A Capodanno guadagnai cento lei cantando canzoni natalizie ai parenti: Ghica, Nini e Gogu erano così ubriachi che per fare bella figura mi diedero 25 lei a testa. Gli altri, invece, erano meno ubriachi e perciò furono meno generosi. Con il ricavato mi comprai sei chili di arance e nove stecche di cioccolato, che mangiai tutte nello stesso giorno. Stavamo entrando nel 1979 e negli anni successivi le cose sarebbero peggiorate drammaticamente.

(Traduzione di Mihaela Topala)

Questo articolo è stato pubblicato sul settimanale romeno Dilema Veche.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it