01 gennaio 2017 11:00

L’elezione a sorpresa di Donald Trump ha oscurato una notizia dagli Stati Uniti che in un altro momento sarebbe stata di primo piano: la legalizzazione della cannabis per uso medico in Florida e Arkansas e di quella per uso ricreativo in Nevada, Massachusetts e California, il primo stato degli Stati Uniti per popolazione e pil. La cosiddetta “onda verde”, che appare inarrestabile anche considerando i recenti passi avanti in Messico e Australia, ha portato con sé degli effetti molto interessanti anche per il futuro della medicina.

Il nuovo movimento antiproibizionista, al di là dei discorsi specifici sulla cannabis e sul suo uso terapeutico, è riuscito a far passare un messaggio che, rispetto alle normative sulle droghe in vigore nella maggior parte del mondo, è ancora rivoluzionario: l’idea che lo status legale di una molecola dovrebbe essere stabilito in base sia al suo livello di tossicità sia, soprattutto, al suo potenziale medico.

La riorganizzazione del dibattito in tal senso fu anticipata da uno studio della rivista medica The Lancet che nel 2007 destò molto scalpore posizionando, dietro ai primi posti di eroina e cocaina, alcol e tabacco, assegnandogli un grado di pericolosità maggiore sia della canapa sia di uno psichedelico come l’lsd e di un entactogeno come l’mdma (ecstasy), sostanze fino a quel momento generalmente considerate (oltre che legalmente classificate) droghe pesanti. Nel 2010 un secondo studio di Lancet, che dava maggior peso agli effetti sociali delle varie droghe, confermava i dati del primo, limitandosi a posizionare l’alcol ancora più in alto per i suoi danni a lungo termine all’organismo e per la probabilità di essere causa di incidenti.

Nel momento in cui si è cominciato a riconsiderare le sostanze e il loro status legale in base ai possibili utilizzi in medicina, si è aperto un fronte molto ampio di riflessione su alcune di esse – psichedelici come lsd, dmt e psilocibina o entactogeni come l’mdma – che, fin dalla loro scoperta, avevano mostrato un potenziale in tal senso. Ogni ricerca si era però bloccata dopo la loro proibizione, che aveva reso molto difficile per i ricercatori avere accesso alle sostanze e alle autorizzazioni necessarie per studiarle.

In un’intervista del 1998, e ancora a Basilea nel 2006, durante il primo simposio internazionale sul tema organizzato per il suo centesimo compleanno, Albert Hofmann, scopritore dell’lsd, riteneva una mera speranza la possibilità di far tornare gli psichedelici sotto la lente della ricerca. In realtà solo due anni dopo, e proprio in Svizzera, sarebbe partito il primo studio medico, dopo quarant’anni di bando totale, volto a indagare il potenziale delle esperienze psichedeliche contro l’ansia che affligge i malati di cancro per la consapevolezza della malattia e del suo possibile esito. I risultati, positivi, dello studio sarebbero arrivati solo sei anni dopo, nel 2014, ma il passo era stato compiuto.

La ricerca medica su queste molecole psicoattive era pronta a ripartire, e lo ha fatto

Bloccata di fatto per mezzo secolo – la proibizione dell’lsd in California, che portò poi a quella federale e quindi a tutte le altre nel mondo, è del 1966 – la ricerca medica su queste molecole psicoattive era pronta a ripartire, e lo ha fatto. Presa subito in considerazione da una stampa non più così pronta a facili demonizzazioni quando c’è di mezzo la possibilità di nuove scoperte mediche, ha messo in luce così tanti promettenti filoni di ricerca da far parlare molti di “rinascimento psichedelico”.

Psilocibina. La notizia più recente a essersi guadagnata titoli sui giornali riguarda due studi – e relativi articoli pubblicati sul Journal of Psychopharmacology sul principio attivo dei “funghetti magici”. I due studi vanno nella stessa direzione di quello svizzero sull’lsd: effettuati rispettivamente dalla John Hopkins university e dalla NYU School of medicine, entrambi hanno indagato il potenziale delle esperienze spirituali indotte da psilocibina nel ridurre l’ansia e la depressione in pazienti affetti da forme di cancro potenzialmente letali. La notizia segue quella del 2011, quando un altro studio della John Hopkins aveva suggerito che le esperienze con tale sostanza avessero effetti positivi di lungo termine sulla salute mentale. In realtà la psilocibina era entrata nel radar della medicina, e dei mezzi d’informazione, già nel 2005, quando il governo inglese vietò i funghetti, fin lì venduti apertamente in smart shop e mercatini, incontrando le proteste dei malati di cefalea a grappolo. Venne così alla luce non solo il fatto che il loro principio attivo aveva un potenziale contro tale sofferenza, ma anche che esistevano gruppi semiclandestini di malati di cefalea che li utilizzavano da tempo per curarsi.

Lsd. Anche l’lsd (dietilammide dell’acido lisergico), secondo uno studio pubblicato su Neurology, mostrerebbe un potenziale interessante contro la cefalea a grappolo, nonché, per le sue similitudini con la psilocibina, contro la depressione. Nel 2012 una ricerca della Harvard medical school ha mostrato un possibile uso anche contro l’alcolismo grazie alla sua capacità di far “riconsiderare” la dipendenza tramite introspezioni indotte. Fino agli anni sessanta l’lsd era lo psichedelico più studiato, anche per il suo ampio utilizzo in psicoterapia, ma il sopravvenuto status di illegalità in ogni paese al mondo aveva bloccato ogni ricerca. Anche per questo è stato considerato un punto di svolta lo studio dell’Imperial College di Londra che per la prima volta, nel 2016, ha mappato il cervello sotto l’effetto della sostanza, mostrando come la dietilammide dell’acido lisergico metterebbe in contatto tra loro parti del cervello normalmente isolate, cosa che spiegherebbe, tra gli altri, i fenomeni sinestetici spesso riscontrati dai suoi utilizzatori.

Dmt. Una sostanza che invece, essendo arrivata relativamente di recente sulla scena pubblica, non ha patito il bias negativo dell’lsd e vive oggi una vera e propria esplosione d’uso in occidente, è il dmt, una triptamina psichedelica presente, oltre che in molte piante, anche nel cervello umano. In particolare, l’esplosione riguarda la sua forma di assunzione più antica, la bevanda amazzonica nota come ayahuasca o yagé. Negli ultimi vent’anni il preparato, prima quasi sconosciuto se non mitico – si ricorderà il carteggio di William Burroughs e Allen Ginsberg, Le lettere dello yagé – ha conosciuto un esponenziale incremento di popolarità, attirando vere e proprie orde di “turisti psichedelici” in Amazzonia e negli altri luoghi dove ancora lo usano i curanderos. Un boom che ha portato al proliferare degli “ayahuasca seminars” anche in occidente, oltre che qualche problema ai nativi, ma che ha avuto un ruolo cruciale nell’alimentare il rinnovato interesse intorno a queste sostanze, diffondendole in ambienti, come quelli delle medicine alternative, anche molto lontani da quelli in cui avevano fin lì prosperato. Se gli occidentali cercano nell’ayahuasca quello che cercavano cinquant’anni prima nell’lsd, ovvero il contatto con una possibile dimensione spirituale, la sua crescente diffusione ha portato anche a un certo interesse da parte della medicina, e uno studio dell’Università di São Paulo del 2015 ha operato un primo test dell’uso di ayahuasca contro la depressione e contro le dipendenze, in particolare da alcol.

Iboga. Nel campo della cura delle dipendenze, è da tempo sotto osservazione della comunità scientifica uno psichedelico dissociativo ancor meno noto, l’ibogaina. Usata dai popoli babongo e mitsobo del Gabon per i riti di passaggio all’età adulta, fu segnalata per la prima volta dallo psichiatra e antropologo Claudio Naranjo come avente un possibile futuro nella cura della dipendenza da oppiacei: al di là degli effetti “esistenziali”, l’ibogaina allevierebbe anche in modo diretto i sintomi dell’astinenza, facilitando la disintossicazione. Un potenziale che un recente studio svolto in Nuova Zelanda, così come i report che giungono dalle cliniche che sperimentano tale rimedio, sembra confermare, per quanto l’ibogaina presenti anche effetti collaterali assenti negli altri psichedelici.

Ketamina. Un altro psichedelico dissociativo mai uscito dalla farmacopea ufficiale in quanto usato come anestetico nella medicina d’urgenza, ma che mostra oggi un nuovo potenziale, è la ketamina. Diffusasi negli ambienti della cultura rave a partire dagli anni novanta, e famigerata sui mezzi di comunicazione per il suo essere anche anestetico veterinario, la ketamina sembra avere, stando a uno studio pubblicato su Nature nel maggio 2016, possibili utilizzi contro le forme depressive gravi, in virtù della sua capacità di bloccare i recettori cerebrali nmda, centrali nella gestione dell’umore, e probabilmente anche per l’effetto sul lungo periodo di un suo metabolita. Se confermate, queste linee di ricerca, assieme a quelle su lsd e psilocibina, potrebbero portare a innovazioni di peso nella cura della depressione, dato che si basano su singole sessioni con effetti di lungo periodo, piuttosto che sulla somministrazione costante di un farmaco.

Mdma. Anche l’mdma, la più diffusa delle club drugs, per quanto non si tratti di uno psichedelico ma di un entactogeno, mostrerebbe possibili usi medici. All’inizio della sua storia fu usata in psicoterapia e per la terapia di coppia; già scagionata rispetto ai suoi supposti danni al cervello da uno studio della Harvard Medical School del 2011 e considerata come possibile cura per l’acufene, recentemente la Food and drugs administration statunitense ha approvato il primo test sul suo utilizzo per la terapia contro il disordine da stress post traumatico.

Le associazioni. Lo studio sull’mdma contro il disordine post traumatico è stato promosso e finanziato, come altri sulla cannabis medica e sull’uso degli psichedelici in analisi, dalla Multidisciplinary association for psychedelic studies, organizzazione no profit fondata nel 1986 con l’obiettivo di promuovere la ricerca sulle applicazioni terapeutiche di tali sostanze. Una parte consistente dell’attuale risveglio di questo campo di studi si deve a essa e all’inglese Beckley Foundation, impegnata sul medesimo fronte, così come a organizzazioni come Erowid, che per prime hanno capito il potenziale di internet nel diffondere informazioni scientificamente accreditate su piante e molecole di sintesi troppo spesso messe dai mezzi d’informazione nello stesso calderone delle droghe pesanti. Questo attivismo culturale – insieme alla diffusione di tali sostanze presso generazioni che le hanno sperimentate in contesti non di abuso o marginalità, per esempio nei festival, e hanno così deciso di dedicargli i propri studi – ha portato, oltre alle prime aperture accademiche, all’uscita di un numero cospicuo di libri. Si è reso così necessario un portale che li catalogasse, nonché la nascita di una pletora di altre associazioni, come Psymposia, Volteface o Reset.me, che si muovono sulla scia delle prime.

Tanta e tanto forte è la pressione verso la “normalizzazione” degli psichedelici, che può capitare di leggerne, oltre che sui già citati New York Times, Guardian, Time e National Geographic (o sul New Yorker, per il quale si è mosso Michael Pollan), addirittura su testate come Forbes e Marie Claire, in entrambi i casi con pezzi sul fenomeno del microdosing – l’assunzione di dosi subvisionarie per potenziare le capacità di ragionamento e concentrazione. Una pratica, stando agli articoli, in crescente diffusione tra i programmatori della Silicon Valley.

Certo un utilizzo così cinicamente “pratico” farebbe rabbrividire i protagonisti della summer of love, ma ogni diffusione di massa porta con sé effetti imprevisti e non necessariamente positivi, tant’è che qualcuno già si preoccupa di storicizzare: sia rispetto al collocamento del “rinascimento psichedelico” all’interno della più ampia storia d’uso di queste sostanze – come ha fatto lo scrittore e attivista Jesse Jarnow in un editoriale per Volteface – sia rispetto alla necessità di legare eventuali “risvegli” (o tornaconti) personali a una più ampia – e di fatto politica – azione nella società.

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