Cultura Schermi
Il tempo che ci vuole
Romana Maggiora Vergano, Fabrizio Gifuni
Italia/Francia 2024, 110’. In sala
Il tempo che ci vuole (dr)

C’è una piacevole circolarità rispetto a Il tempo che ci vuole. Il primo film di Francesca Comencini, Pianoforte, proiettato al festival di Venezia nel 1984, era un dramma autobiografico sulla lotta alla tossicodipendenza vissuta dalla regista nella sua tarda adolescenza. Dopo una lunga carriera, Comencini ha presentato al festival di Venezia un altro dramma autobiografico, basato stavolta sul suo rapporto con il padre, Luigi Comencini, uno degli “inventori” della commedia all’italiana. E nel film non solo vediamo una Francesca ventitreenne che accetta un premio alla Mostra del cinema, ma è anche sottolineata l’avversione del grande regista per le opere autobiografiche. Non si tratta però di un astuto esercizio metacinematografico, al contrario: Il tempo che ci vuole è un film intimo, salvato da ogni sentimentalismo dall’evidente passione familiare per il cinema e dalle solidissime interpretazioni di Fabrizio Gifuni e di Romana Maggiora Vergano. Dopo una prima parte ambientata quando Francesca è una bambina (Anna Mangiocavallo) e Luigi sta girando la celebre serie tv Le avventure di Pinocchio, il film compie un salto in avanti, verso la fine degli anni settanta. Padre e figlia dividono una grande casa borghese, non si parlano quasi mai, lui perso e amareggiato, lei cupa e infelice. Non c’è traccia delle tre sorelle di Francesca, né di sua madre. Il lungo corridoio sottolinea in modo creativo la crescente distanza tra i due, ma è anche il luogo di riavvicinamento catartico.
Lee Marshall, Screen International

Making of
Denis Podalydès, Jonathan Cohen
Francia 2023, 119’. In sala
Making of (dr)

Cédric Kahn, nello stesso anno, ha realizzato due film molto diversi. Prima l’avvincente Il caso Goldman e ora una commedia sul cinema. O meglio una vertiginosa scatola cinese: un film su un film in un film dentro un film. Al primo giorno di riprese della “tragedia” sulla lotta (persa) di un gruppo di operai contro il trasferimento della loro fabbrica, un regista scopre che la grande casa di produzione che finanzia il suo film si è ritirata dal progetto. Due giovani rappresentanti del grande studio gli spiegano cinicamente che il pubblico può anche tollerare un film sociale, ma almeno a lieto fine. In realtà la colpa è di un altro produttore, quello con cui il regista lavora da una vita (intepretato da Xavier Beauvois, anche lui un regista). Mentre quest’ultimo finge di cercare finanziamenti, la troupe lavora senza garanzie in una vera fabbrica abbandonata dove gli ex operai fanno da comparse e da consulenti. Prima mise en abyme è la storia di un capitano che affonda con la sua nave mentre filma una nave che affonda, una storia scritta molto bene, con grande senso dei dettagli, che pone sottovoce una domanda spinosa: come può il cinema, mondo dorato e ovattato, raccontare un dramma sociale? La seconda mise en abyme è nel titolo: il regista licenzia il giovane incaricato di realizzare il making of del film e assume un pizzaiolo della zona che aspira a diventare regista, con la consegna di compiere un ritratto reale di quello che avviene sul set. Il pizzaiolo si rivela fin troppo zelante e Kahn così ha modo di rovistare tra i suoi ricordi e le sue nevrosi. Guillemette Odicino, Télérama

Never let go. A un passo dal male
Halle Berry
Stati Uniti 2024, 101’. In sala

I momenti macabri sono il sale dei film horror, ma c’è un limite a tutto. Una madre (Halle Berry) e i suoi due figli (Anthony B. Jenkins e Percy Daggs IV) abitano in una baita in una radura circondata da una foresta, intricata e buia. Quando escono di casa in cerca di cibo, madre e figli devono legarsi con delle spesse corde: secondo la donna in quei boschi c’è il Male e il rischio è di farsi infettare e riportarlo anche dentro casa. Il film gioca a nascondino con il suo concetto centrale: il “male” è reale o è la mamma a essere fuori di testa? All’inizio Never let go dispensa qualche spavento improvviso e qualche colpo di scena insensato. Dopo che uno dei ragazzi fa qualcosa di incredibilmente stupido (al netto del fatto che si tratti di un bambino), per lo spettatore diventa impossibile continuare a empatizzare con loro.
Glenn Kenny, The New York Times

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1582 - 27 settembre 2024

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