01 marzo 2015 15:22

Non erano poi tanti i leghisti e i loro compagni di strada raccolti ieri, 28 febbraio 2015, a piazza del Popolo, in un sabato romano di fine febbraio insolitamente caldo. Saranno stati venticinquemila.

Il palco è stato costruito sotto la terrazza del Pincio, ma sull’altro versante, alle spalle dell’obelisco, la piazza aveva ampie zone vuote. Insomma, l’arrivo in massa nella “Roma da incendiare”, come si poteva leggere su un cartello portato a mano, non c’è stato.

E chi ci è arrivato, in buona parte apparteneva al popolo storico della Lega. Tante bandiere della Lega nord, tantissime della Liga veneta. Gente di Gallarà, di Caronno Varesino, della valle Cerina, della provincia lombarda e veneta. Tanto che viene da pensare che il principale intento di Salvini sia stato innanzitutto quello di rinsaldare le file del suo popolo.

Quando arrivo in piazza, sono già cominciati i primi discorsi dal palco. Tutti sembrano ascoltare in silenzio.

Matteo Salvini a Roma, il 28 febbraio 2015. (Max Rossi, Reuters/Contrasto)

Tra la folla, ci sono le magliette bianche “Renzi a casa”, che riproducono la stessa scritta a caratteri cubitali alle spalle del palco. E ci sono le felpe care al nuovo leader. Molte felpe verdi, rosse, azzurre, con su scritto: Romagna, Piemonte, Liguria. Non sono invece tante le bandiere di “Noi con Salvini”, il movimento che la Lega sta provando a lanciare al sud contando, come ripetono in continuazione i suoi dirigenti, sul senso dell’autonomia di siciliani, calabresi, salentini.

Ci sono sparuti gruppi di Anzio, Nettuno, Andria, Barletta, Catania (i più numerosi). Ma per lo più, da ultimi arrivati e da meno organizzati, si tengono ai bordi della piazza.

A formare una macchia nera alla destra del palco ci sono i fascisti di Casa Pound: stretti, compatti, con i loro anfibi paramilitari e i bomber neri, i cappelli di lana e gli occhiali da sole, le celtiche e i tricolori. Il blocco nero è ben riconoscibile anche perché ai suoi lati i militanti del servizio d’ordine indossano una canotta rossa con la tartaruga, simbolo del movimento.

Accanto a loro spuntano, numerose e immacolate, le bandiere di “Sovranità-Prima gli italiani”, blu con delle spighe di grano gialle. È il nuovo contenitore politico lanciato da Casa Pound per allargare la propria base e venire incontro al nuovo leghismo nazionale. Insieme alle bandiere hanno issato una foto alta due metri del fuciliere Massimiliano Latorre, uno degli eroi indiscussi della giornata.

Ma per quanto i fascisti vadano verso la Lega (riconoscendo in Salvini l’unico leader) e per quanto Salvini non batta ciglio quando Di Stefano, numero due di Casa Pound, dice alla stampa “Noi siamo forti della nostra identità, non facciamo un passo indietro. È quello che ci lega alla Repubblica sociale”, in questa piazza non gremita che sembra mettere insieme vari segmenti della destra estrema e anti-sistema le parti non si mescolano più di tanto.

Si riconoscono nel no all’immigrazione (“Non c’è più posto per nessuno”, “Ci sono vecchi che rovistano nei cassonetti e noi ancora li accogliamo”, “Con le ruspe, i campi rom si abbattono con le ruspe”), nel no all’euro (“Ci stanno affamando”), nel solito anticomunismo (“Le zecche non volevano farci manifestare”). Ma sono davvero pochi i passaggi dei discorsi fatti dal palco dallo stesso Di Stefano, da Giorgia Meloni, da Marine Le Pen (un videomessaggio contro il multiculturalismo cavallo di Troia del gruppo Stato islamico) e dal governatore Luca Zaia che riescono ad accendere interamente la piazza.

Il boato per Graziano Stacchio

Anche quando parla Matteo Salvini, il nuovo leader supremo (e nazionale) annunciato da uno speaker esaltato e da tre minuti buoni di musiche celtiche, gli applausi esplodono fragorosi solo 5-6 volte in un’ora di anatemi lanciati a braccio.

Succede quando manda a fare in culo Matteo Renzi e Elsa Fornero, quando guida un coretto da stadio (“Chi non salta comunista è”), quando parla di rimandare indietro i barconi dei profughi perché in un paese in calo demografico è in atto un processo di “sostituzione etnica”, quando dice che bisogna riportare i marò a casa e mandare in India al loro posto Renzi e Alfano.

Tuttavia l’unico vero momento in cui la piazza esplode è quando Salvini urla i nomi di Graziano Stacchio, il benzinaio di Ponte di Nanto che il 4 febbraio ha ucciso con cinque colpi di fucile un rom, e di Antonio Monella, imprenditore di Arzago d’Adda condannato per aver ucciso un ladro nel 2006. Entrambi sono accusati di eccesso di legittima difesa, un concetto del tutto estraneo al modo di ragionare della piazza e del suo leader. Che infatti, sentendo il vento in poppa, si lancia nello slogan: “Se entri in casa mia in piedi, puoi uscire steso”.

Qui esplode il boato in un tripudio di bandiere bianche e verdi, bianche rosso e verdi, gialloblu e nere, solo nere. Tanto che si ha l’impressione che le sparate contro l’eccesso di legittima difesa e il ritornello “padroni a casa nostra/prima gli italiani” costituiscano davvero l’unica coppia di idee su cui la Lega e Casa Pound si sono aperti una breccia culturale al di là dei loro confini e hanno incontrato un sentire diffuso.

Note di colore. Ci sono anche i vecchi leghisti, quelli vestiti interamente di verde, con cappello di pelliccia di marmotta e lunga coda dell’animale annessa, nonostante i 16 gradi all’ombra. Due ragazzi distribuiscono centomila lire false col faccione di Salvini al posto di quello del Caravaggio, e davanti alla facciata di santa Maria del Popolo (la chiesa che contiene due straordinari capolavori di Caravaggio) alcuni militanti della Liga veneta contemplano il luogo dove le “zecche comuniste” il giorno prima hanno inscenato la protesta che avrebbe voluto far saltare la loro manifestazione.

In un angolo della piazza ci sono poi i militanti dei movimenti di estrema destra venuti da fuori: quelli di Bloc identitaire dalla Francia, e quelli di Pegida dalla Germania. Qua e là sventolano delle bandiere della Russia imperiale, ma dal palco nessuno dice una parola sull’omicidio del leader dell’opposizione antiputiniana Boris Nemtsov, ucciso a Mosca poche ore prima.

Girone, Latorre, Stacchio, Monella sono allora gli unici eroi che possono amalgamare la piazza fascioleghista, insieme alla retorica del Piave e del non passa lo straniero declinata in tutte le forme possibili e immaginabili.

Più fredda si dimostra invece la miscellanea nero-verde quando Salvini s’improvvisa intellettuale. E abbastanza sorprendentemente verso l’inizio del suo discorso propone i suoi consigli di lettura: i libri che i buoni militanti dovrebbero leggere.

Innanzitutto La masseria delle allodole di Antonia Arslan “per capire cosa è stato il genocidio armeno, fatto da quelli – i turchi – che a Bruxelles vogliono far entrare in Europa”. Poi i testi di Marco Paolini e Mauro Corona sul Vajont. E ovviamente Oriana Fallaci. Ma non la Fallaci di La rabbia e l’orgoglio. No, non quella, dice Salvini. Dovete leggere Un uomo, il libro in cui racconta la storia di Alekos Panagulis.

Ma qui i suoi, e ancor meno i fascisti, non sembrano seguirlo più. Non sanno che farsene di Alekos, viene da pensare istintivamente. Probabilmente in pochi lo hanno sentito nominare, e chi ne ha sentito davvero parlare (laggiù, alla destra del palco) pensa semplicemente che stava dall’altra parte e – probabilmente – che non era molto dissimile dalle “zecche” che nel frattempo stanno sfilando a qualche chilometro di distanza per una Roma democratica e antifascista.

Ma dove Salvini spiazza davvero un po’ tutti è quando, per ben tre volte, evoca L’obbedienza non è più una virtù di don Milani, “perché è giusto disobbedire”. Ma a cosa? A cosa, secondo Salvini? Alle leggi fiscali, all’Europa, all’euro, a chi ti impone gli immigrati e i rom. A chi altri, se no? Non credo di aver mai assistito prima d’ora a un tale uso perverso del testo di don Milani, a un tale ribaltamento di senso, da apparire perfino privo di ogni minimo senso logico, se perpetrato accanto a chi non ha pensato un solo secondo di smettere di inneggiare al fascismo.

Molte cose nel minestrone ideologico della nuova Lega risultano contraddittorie. Ma questi elementi tra loro incombinabili sono giustapposti l’uno sull’altro con una buona dose di ingenua incoerenza, o con un calcolo più o meno spregiudicato?

Certo, quando si vede Salvini dire che per lui fascismo e comunismo sono roba vecchia, che non esistono destra e sinistra, ma solo produttori e parassiti, dopo aver sdoganato quelli di Casa Pound e averli fatti parlare dal palco, dopo aver accarezzato tanti temi cari alla destra post e neofascista e aver guidato il coretto berlusconiano “Chi non salta comunista è”, viene da pensare che il calcolo prevalga sull’ingenua incoerenza.

Del resto è scontato che Salvini non sarebbe mai disposto a leggere in una pubblica piazza questo brano di L’obbedienza non è più una virtù:

Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri.

Tutto questo, ben al di là del mezzo flop di ieri pomeriggio, ci porta a un altro ordine di riflessioni. In che modo, in che forme, con quali alleati, toccando quali tasti ed evitando quali altri, Salvini sta tentando la calata verso Roma e il vasto meridione, tanto necessaria in termini elettorali per scalzare Forza Italia?

È sempre sembrato evidente che il leghismo al sud incontrasse un limite strutturale. Non tanto quello del pregiudizio antimeridionale, delle sparate lombrosiane, del ritornello costante sulla mafia quale fenomeno endemico o su Roma ladrona (in fondo vista come una grande Babilonia meridionale, se non addirittura nordafricana). C’è qualcosa di più politico. Il partito contro le tasse e contro la spesa pubblica (che oggi chiede una tassazione al 15 per cento, proprio come in Bulgaria o in Albania) difficilmente è riuscito a solleticare gli istinti più profondi di chi chiede più assistenzialismo, più intervento, più aiuti specifici. In una parola: più spesa pubblica.

Ogni leghismo meridionale (e in passato qualche tentativo autoctono c’è anche stato) ha sempre cercato di porsi come nuovo mediatore tra il disagio locale e lo stato centrale al posto di coloro i quali, “tutti gli altri”, finora si sono dimostrati sistematicamente “corrotti”. Per questo le esperienze localistiche sono sempre andate a sbattere contro un evidente paradosso: a spingere il tasto della demagogia si finisce per chiedere esattamente quelle cose (più soldi, piani speciali, più attenzione da parte del governo centrale…) che ogni federalismo dovrebbe rifiutare, o quanto meno arginare.

Parlare d’altro

C’è modo di evitare questo paradosso? Sì, c’è, e lo stesso Salvini lo ha intuito. È quello di parlare d’altro. Sostituire al ritornello di Roma ladrona (che al sud e al nord sarebbe inteso in modo diverso) quello di Bruxelles ladrona e Berlino imperiale, e ladrona. E, soprattutto, sparigliare le carte: indicando alle genti del sud un sud ancora più sud da stigmatizzare di comune accordo con le genti del nord: l’immaginario popolo dei barconi invasori.

Non è immaginario, ovviamente, il dramma dei viaggi dei migranti. È immaginaria la descrizione che il leghismo di Salvini ne offre. E razzista, oltre che omicida la sua soluzione: lasciamoli in mezzo al mare dopo avergli dato una bottiglia d’acqua, quando proprio non riusciamo a rimandarli sulle coste libiche da cui scappano.

Ma quelle stesse coste non sono in buona parte controllate dalle stesse truppe dello Stato islamico?

Non si tratta solo di questo, però.

Il recente successo di Salvini al sud (limitato, ma pur sempre consistente a stare a sentire i nostri maggiori sondaggisti) non deve sorprendere. Per almeno due motivi.

Il primo è che oggi ciò che accomuna un abitante di Palermo, Bari, Reggio Calabria, Napoli, così come – mettiamo – un abitante di Palermo, Napoli, Vicenza e Cuneo è, ancora una volta, solo la televisione.

Il sud non è mai stato un’entità unitaria. Men che meno lo è ora, dopo decenni di assenza di una riflessione politica meridionalista di qualche peso. E poiché l’unica koiné politica rinvenibile è quella dei talk-show, chi spopola sui loro schermi – che sia Renzi o Salvini – riesce a costituire brandelli di discorso unitario.

Salvini può farlo riproponendo un mantra semplificato, che ridotto all’osso ha due nemici buoni per tutte le regioni e tutte le stagioni, in comune accordo con l’estrema destra di molti paesi europei.

Uno rivolto verso l’alto: l’Europa, la finanza, il complotto plutocratico.

L’altro rivolto verso il basso: i rom irredimibili e irriducibili ai “nostri” costumi, i profughi da lasciare in mezzo al mare, dal momento che se arrivassero si beccherebbero tutti – indistintamente – 40 euro a testa.

Renzi, posto nel mezzo, è solo un “servo sciocco” dei primi che apre la porta ai secondi.

La relativa novità di questo discorso, nel momento in cui viene proposto al sud, è che supera a pie’ pari un secolo e mezzo di meridionalismo. Salvini non sa niente della questione meridionale, di come questa si sia dipanata storicamente, non sa nulla di nulla dei suoi testi di riferimento, delle sue polemiche, delle sue stesse involuzioni.

E anche il movimento paraleghista meridionale “Noi con Salvini”, che è comparso in piazza del Popolo in gruppi sparuti, si mostra alquanto scarso in materia. Sul loro sito non c’è una sola parola, una sola proposta, una sola analisi per il sud.

Un po’ poco, si potrebbe concludere.

In tutto questo, non solo viene saltato a pie’ pari il meridionalismo storico di Fortunato, Salvemini, Dorso, Gramsci, Rossi-Doria eccetera, la riflessione sulla Cassa del Mezzogiorno e sulla sua fine, e così via (quando Salvini di sfuggita cita Sturzo, non si capisce davvero cosa voglia dire.)

Ma viene saltata a pie’ pari anche quella sorta di neoborbonismo meridionale emerso negli ultimi anni, e riconducibile al successo editoriale dei libri di Pino Aprile. Un neoborbonismo, diametralmente opposto al meridionalismo democratico e di derivazione illuminista, che rivendica i pregi del vecchio regno di Franceschiello e vede l’unità d’Italia come processo criminale.

Anche di tutto questo Salvini se ne frega. Traccia una linea e dice: i veri nemici – per tutti – sono riconducibili a quei due poli lì. Tanto di Franceschiello quanto di Salvemini non so che farmene.

Ma queste parole suonano davvero radicalmente nuove? Per certi versi sì, per altri no.

I fantasmi dell’Uomo qualunque

E qui veniamo al secondo punto. Perché fin dai tempi dalla prima repubblica in alcune consistenti sacche della società meridionale l’intreccio tra antipolitica, destra antisistema e razzismo più o meno crudo aveva già preso piede. In varie forme e in vari modi, spesso non assimilabili.

Partiamo dalla preistoria. L’Uomo qualunque ebbe proprio in Napoli una delle sue roccaforti (e oggi tra i tanti motivi per cui andrebbe riletto L’orologio di Carlo Levi, grande affresco della nascita della nostra repubblica e dell’avvitamento su se stesse delle sue principali forze politiche, c’è anche l’acuta descrizione che fa del popolo e della piccola borghesia napoletani sedotti da Giannini).

Il vecchio Movimento sociale ebbe proprio in città come Catania i suoi maggiori successi.

E poi ci sono due fenomeni che andrebbero ricordati in queste ore: la rivolta di Reggio Calabria per il capoluogo di regione guidata dai “Boia chi molla” di Ciccio Franco negli anni settanta, e i successi elettorali del telepredicatore xenofobo e fascista di Taranto, Giancarlo Cito, negli anni novanta.

Più che a generici spazi lasciati vuoti dalla crisi di Forza Italia, è proprio a questi specifici settori di una destra meridionale tradizionalmente antisistema che il nuovo leghismo guarda.

È un territorio sostanzialmente rimasto orfano negli ultimi anni, solo con le sue pulsioni e il suo rancore. Per un breve lasso di tempo alcuni suoi settori sono stati intercettati dal Movimento 5 stelle. Ma oggi anche i cinquestelle sono in crisi; e non è un caso che, per esempio, a Canicattì tutti i dirigenti del grillismo locale siano passati nello spazio di una notte nelle file di “Noi con Salvini”.

Accanto ai fantasmi dell’Uomo qualunque e di Ciccio Franco non va però sottovalutata la capacità del leghismo di imbarcare anche altri gattopardi dell’autonomismo locale (specie in Sicilia), reduci di esperienze politiche come quelle sorte intorno all’ex governatore Raffaele Lombardo, e di farli sfilare accanto ai camerati di Casa Pound.

Tutto ciò spiega in fondo come Salvini sia riuscito a raggiungere in poche settimane il 6-8 per cento nei sondaggi elettorali nelle regioni meridionali.

Il suo blocco non è molto simile da quel blocco “preistorico” della destra meridionale antisistema, con l’aggiunta di qualche riciclato beccato qua e là.

Ma, per converso, tutto ciò indica anche la difficoltà di andare al di là di quella soglia. Se il discorso rimane quello fatto in questa piazza, la discesa meridionale rimarrà unicamente ancorata a queste sacche, tanto quanto quella romana non andrà al di là dell’intesa con l’eterno neofascismo capitolino.

Flavio Tosi è forse l’unico dirigente leghista di qualche peso ad averlo capito. Più che di una “deriva lepenista”, il vero rischio per la Lega è quello di una sorta di “contenimento lepenista”. In questo guazzabuglio di idee che vanno dalle nuove destre xenofobe europee (il Front national di Marine Le Pen) a segmenti del vecchio neofascismo italiano (romano e meridionale), Salvini sguazza come un pesce. Il problema, per lui, è che la riva del lago è solo pochi metri più in là.

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