18 gennaio 2016 18:01

Il lago Inle si trova nell’ampio altopiano che occupa la zona centrorientale della Birmania. Il modo più semplice per arrivarci è prendere un aereo da Rangoon a Heho.

Il terminal dei voli nazionali somiglia alla hall di un vecchio albergo coloniale. Entrarci vuol dire fare un salto all’indietro di almeno cinquant’anni, tra balaustre e colonne di legno di teak istoriato, file di tonde seggioline di gusto sovietico e un discreto caos di valigie, monaci, gruppi rumorosi di turisti asiatici e signore birmane con voluminose cuffie di lana colorata.

Conviene armarsi di pazienza e aspettare, dopo essersi appiccicati addosso l’adesivo della compagnia aerea che sostituisce la carta d’imbarco, augurandosi che il volo parta più o meno in orario.

L’altopiano Shan è collinoso, coltivato a riso, fresco: siamo a quasi mille metri d’altitudine. Prende nome dalla popolazione che lo abita da un passato molto remoto. Quello degli shan è il secondo gruppo etnico del paese dopo i bamar.

Nell’area si trovano numerose altre minoranze etniche: gente di montagna che vive isolata e parla centinaia di dialetti. La zona più a nord, verso il confine con la Cina, è ancora oggi agitata da un’annosa guerra civile connessa con il traffico d’oppio e andarci può essere complicato.

Palafitte sul lago Inle, Birmania, gennaio 2016. (Annamaria Testa)

La minoranza intha (letteralmente, figli del lago) parla un dialetto arcaico, viene dal sud del paese e si è insediata nell’area in epoca medievale. Si tratta di 80mila persone che vivono direttamente sull’acqua. I villaggi sono su palafitte: durante la stagione delle piogge il livello del lago può crescere di oltre un metro e mezzo.

Lago Inle, Birmania, gennaio 2016. (Annamaria Testa)

Le case tradizionali (long house) ospitano diverse famiglie. Le più semplici hanno pareti di bambù intrecciato su strutture di teak: ogni diciotto anni le pareti vanno completamente ricostruite. Le più opulente sono interamente in legno di teak. Tutti, e anche i bambini, si spostano da una casa all’altra pagaiando su snelle canoe piatte. Sotto ogni casa c’è almeno una barca ormeggiata. L’altro modo per spostarsi nel lago è costituito da più grosse, e altrettanto snelle, barche mosse da motore diesel, che viaggiano velocissime sollevando ampi schizzi. Locali e turisti si riparano aprendo un ombrello davanti a sé e usandolo come paravento: una soluzione brillante, che provo anch’io con ottimi risultati.

Lago Inle, Birmania, gennaio 2016. (Annamaria Testa)

Dalle finestre si affacciano donne e bambini piccoli. Molti salutano: la vera curiosità del luogo, me ne rendo conto, continuiamo a essere noi.

Gli uomini sono a pescare, a raccogliere alghe e a lavorare negli orti.

Si tratta di orti galleggianti: ampie, suggestive isole sull’acqua dove si coltivano pomodori e cavoli, melanzane, fagioli, aglio e cipolle. La comunità, in stagione, produce cinquanta quintali di pomodori al giorno. Gli orti sono fertilissimi, restano ancorati al fondo grazie a pali di bambù e non vengono mai sommersi dall’acqua perché, galleggiando, seguono le variazioni di livello del lago.

La raccolta delle alghe, lago Inle, Birmania, gennaio 2016. (Annamaria Testa)

Per costruire un orto galleggiante ci vogliono tre anni, e c’è da compiere un’operazione davvero ingegnosa. La base è costituita da un’isola di giacinti d’acqua, sui quali si dispone uno strato di alghe raccolte dal fondo del lago.

Orti galleggianti, lago Inle, Birmania, 2016. (Annamaria Testa)

Alghe e giacinti formano presto un intreccio inestricabile, sul quale è collocato uno strato di terra. Tutto quanto può raggiungere anche il metro e mezzo di spessore.

Pescatori sul lago Inle, Birmania, gennaio 2016. (Annamaria Testa)

I pescatori stanno a un’estremità della barca. Remano appoggiando il remo su una gamba e tenendosi in equilibrio sull’altra. Hanno sviluppato questo stile unico perché stando in piedi è possibile districarsi più agevolmente tra le canne e la vegetazione galleggiante del lago, e perché le mani restano libere per manovrare le nasse. Le donne, invece, remano sedute.

Le nasse servono per pescare soprattutto carpe. Nel lago vivono centinaia di specie di pesci: nove di queste sono endemiche e non si trovano in nessun’altra parte del pianeta.

Mercato galleggiante, lago Inle, Birmania, gennaio 2016. (Annamaria Testa)

Un mercato galleggiante si tiene ogni cinque giorni, secondo il calendario buddista, in uno dei diversi villaggi che circondano il lago. È frequentatissimo, gremito, colorato, e ci si trova di tutto: barbiere e ristorante, polli e spezie, pentole, fiori, abiti e tessuti, attrezzi di metallo per lavorare la terra o il legno.

Mercato galleggiante, lago Inle, Birmania, gennaio 2016. (Annamaria Testa)

Nella calca, spiccano i turbanti e gli asciugamani colorati con cui le donne pa-oh, la seconda maggiore etnia dell’altopiano dopo gli shan, si coprono i capelli. Vivono sulle colline. Tutte indossano corte casacche scure, bordate di blu o di viola.

Mercato galleggiante, lago Inle, Birmania, gennaio 2016. (Annamaria Testa)

Incrocio due anziane donne pa-oh in un altro dei luoghi di fascino che si trovano attorno al lago: il sito archeologico Shwe Inn Thein. Ci si arriva risalendo in barca uno stretto canale che si insinua nella boscaglia per otto chilometri e superando alcune chiuse: è una via d’acqua praticabile solo in inverno e durante la stagione delle piogge, mentre in estate il livello del canale è troppo basso per essere navigabile. Sulle rive, diverse donne lavano disinvoltamente panni, o se stesse, nell’acqua gelata e torbida.

Il sito archeologico Shwe Inn Thein, lago Inle, Birmania, gennaio 2016. (Annamaria Testa)

L’attracco è discretamente affollato. Ma non appena si entra nel sito lasciandosi alle spalle le onnipresenti bancherelle, disposte lungo uno scuro passaggio coperto e in salita, l’atmosfera cambia e ci si trova di fronte a centinaia e centinaia di stupa e templi costruiti fra il trecento e il settecento, alcuni restaurati, molti altri in rovina e invasi da cespugli e rovi.

Il sito archeologico Shwe Inn Thein, lago Inle, Birmania, gennaio 2016. (Annamaria Testa)

È un luogo vibrante di fascino e impatto scenografico, non troppo frequentato, sospeso nel silenzio e nel tempo. Specie verso sera, quando l’oro e il rosso degli stupa spicca contro il cielo che rapidamente si scurisce, si può far finta di perdercisi: e forse è questo, in fondo in fondo, il sogno di molti di noi, viaggiatori moderni alla ricerca di un’autenticità rara e ormai difficile da trovare.

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