18 giugno 2016 12:12

Il palazzo Versace ristrutturato e riconvertito a uso sociale è uno schiaffo in pieno volto alle cosche del rione Catena, quartier generale della ’ndrangheta di Polistena, una delle più antiche della Calabria. In un suo articolo, il corrispondente locale del Quotidiano del Sud, Michele Albanese, spiega che “solo vent’anni fa tutto ciò non sarebbe stato possibile”. Il giornalista è sotto scorta da quando ha raccontato sul suo giornale che i carabinieri avevano lasciato la processione della Madonna delle grazie di Oppido Mamertina dopo che il corteo si era fermato davanti all’abitazione del boss locale per il tradizionale “inchino” in segno di rispetto.

Lo scoop aveva fatto il giro del mondo, anche perché poche settimane prima papa Francesco, in visita in Calabria, aveva scomunicato gli ’ndranghetisti. Tutto ciò aveva dato fastidio e, grazie a un’intercettazione ambientale, era emersa la minaccia “concreta” e “immediata” che l’autore dell’articolo finisse vittima della vendetta mafiosa. Ciononostante, Albanese è convinto che oggi in questo pezzo di Calabria ci sia “una sensibilità diversa rispetto al passato” e chi si batte contro la mafia non è isolato come un tempo. Per questo sarà in prima fila, il 24 giugno, alla “marcia nazionale degli amministratori sotto tiro” organizzata da Avviso Pubblico, che si svolgerà proprio nelle strade di Polistena. In passato, pensare di sottrarre a un boss un bene di sua proprietà senza pagare dazio sarebbe stato “impensabile”. Il palazzo Versace ne è un esempio.

Il palazzo dei Versace è il più alto di tutti e domina le campagne di Gioia Tauro, a testimoniare la volontà di espansione dell’omonimo clan

Antonio Napoli, responsabile dei campi estivi di Libera e uno dei protagonisti del suo recupero, mi porta dentro l’edificio a vedere il laboratorio musicale e una sala con computer nuovi di zecca. Al primo piano, Alessia Mancuso snocciola le cifre del poliambulatorio aperto da Emergency proprio nell’edificio un tempo appartenuto ai boss di Polistena che lei ora coordina: due medici, quattro mediatori culturali, due infermieri più un terzo sul bus che va a prendere gli immigrati a domicilio, oltre tremila visite in tre anni, 10.543 prestazioni effettuate, seicento accessi al mese.

I locali sono nuovi e ben curati, alle pareti sono appese immagini degli ospedali messi in piedi dall’associazione fondata da Gino Strada nelle zone di guerra o di grande povertà, dall’Afghanistan al Sudan, e il testo integrale dell’articolo 11 della costituzione italiana, quello che recita “l’Italia ripudia la guerra”.

Il poliambulatorio di Emergency

A Polistena, Emergency ha portato una cultura attiva dell’assistenza: qui non si attende che il paziente venga di sua volontà, lo si va a cercare. È una filosofia necessaria, quando si ha a che fare con persone che non conoscono i loro diritti, non parlano l’italiano, non sanno a chi rivolgersi e hanno difficoltà a spostarsi.

Tre volte al giorno, una navetta con un infermiere e un mediatore culturale fa il giro delle campagne e delle baraccopoli per assistere gli immigrati e, se è il caso, portarli all’ambulatorio per una visita specialistica. I mediatori si occupano di fornire loro una tessera sanitaria dell’associazione e il codice di Straniero temporaneamente presente (Stp) che consente a chi non ha il permesso di soggiorno di accedere al servizio sanitario pubblico. “Le patologie più comuni sono la lombosciatalgia e più in generale i dolori muscolo-scheletrici, causati dal duro lavoro nei campi, nonché dermatiti e malattie gastrointestinali”, spiega Mancuso. Molti hanno bisogno dell’aiuto di uno psicologo per superare il trauma della traversata in mare o della perdita di un familiare.

Quello calabrese non è l’unico presidio medico fisso del Programma Italia di Emergency. Il primo è stato aperto nel 2007 a Palermo, il secondo a Porto Marghera. Lì, medici e volontari si sono accorti che a usufruire delle prestazioni non erano solo gli stranieri e pure per questo, dopo aver creato un’altra struttura per la “little Africa” casertana di Castelvolturno si sono insediati nella periferia est di Napoli, a Ponticelli, e ora puntano alla periferia romana di Torre Angela.

A Polistena sta accadendo lo stesso fenomeno. L’ospedale locale – costruito grazie agli aiuti umanitari arrivati dall’Ungheria dopo il terremoto del 1908 e destinato per decreto a una lenta chiusura – ha cominciato a tagliare i servizi uno dopo l’altro, arrivando a sopprimere perfino il punto nascite e non riuscendo più a garantire nemmeno i livelli essenziali di assistenza. Per questo sempre più italiani si rivolgono all’ambulatorio di Emergency, dove le visite sono gratuite.

Al pianterreno, alcuni africani giocano a biliardino nella stessa sala in cui i boss, dopo aver affittato per alcuni anni i locali a un istituto magistrale, aprirono il Bar 2001 perché pensavano che il futuro fosse loro (il locale più tardi è stato ribattezzato Petit bijoux).

Nel poliambulatorio di Polistena Emergency ha portato una cultura attiva dell’assistenza

Lungo la strada principale del quartiere Catena abita il gotha delle famiglie malavitose della cittadina calabrese. Negli anni ottanta investirono nella terra, “fonte d’onore” e collettrice di fondi comunitari, e nel mattone. Forse per questo la loro potenza è simboleggiata dalle dimensioni delle abitazioni: non ville alla Scarface come a Casal di Principe ma palazzine senza alcuna concessione al kitsch neohollywoodiano dei Casalesi, qui i metri quadrati contano più dell’estetica.

Piazza Valarioti, detta anche 2001

Il palazzo dei Versace è il più alto di tutti e domina le campagne di Gioia Tauro, a testimoniare la volontà di espansione dell’omonimo clan sull’intera piana. Un obiettivo che gli costò molto caro. Le cosche a valle infatti si coalizzarono e decisero di fermare una volta per tutte le mire espansionistiche del clan.

La sera del 17 settembre del 1991 un commando armato di sedici persone, a bordo di quattro auto, bloccò la strada da entrambi i lati per non lasciare vie di fuga e sparò 780 colpi per azzerare il vertice della famiglia Versace. A terra rimasero i fratelli Antonio e Michele, mentre un terzo, Biagio, riuscì a salvarsi buttandosi sotto un’auto e fingendosi morto. Altri due esponenti della cosca rimasero gravemente feriti.

Una partita di biliardino nel palazzo confiscato alla famiglia Versace, Polistena, 21 aprile 2016. (Mauro Pagnano, Etiket Comunicazione)

L’edificio, quattromila metri quadrati su sei piani tirati su negli anni ottanta con i soldi delle estorsioni e del traffico di droga, è stato completamente rinnovato da un architetto locale, che l’ha ridipinto di bianco con qualche tocco di colore sulle pareti interne e ha aggiunto delle ampie vetrate, a simboleggiare la trasparenza delle attività che vi si svolgono, opposta all’opacità di quelle mafiose. È stato dedicato a un preside dell’istituto magistrale, Luigi Marafioti, fondatore della sezione di Libera a Polistena e ricordato perché coraggiosamente portò la scuola fuori del palazzo, tenendo le lezioni all’aperto.

La piazza di fronte è stata intitolata invece a Peppe Valarioti, segretario del Partito comunista italiano di Rosarno, ucciso dai killer delle cosche l’11 giugno 1980, la sera stessa delle elezioni comunali vinte dai comunisti. Durante la campagna elettorale, il politico, di 30 anni appena, aveva attaccato duramente i mafiosi, sfidandoli a viso aperto e facendo nomi e cognomi. Lo freddarono all’uscita del ristorante in cui era andato a cena dopo aver guidato un corteo spontaneo che era andato a festeggiare la vittoria nel feudo del clan Pesce, il quartiere Corea.

A marzo all’ufficio del comune è stata recapitata una lettera con una cartuccia e una minaccia di morte

Per questo, Valarioti è forse la principale icona dell’antimafia calabrese. A lui, in tutta la regione, le amministrazioni progressiste intitolano scuole, edifici pubblici, vie e piazze. È così pure a Polistena, governata da un comunista del Pdci, Michele Tripodi, che è stato riconfermato un anno fa con il 57 per cento dei consensi e lo scorso marzo ha denunciato pure un’intimidazione: all’ufficio protocollo del comune è stata recapitata una lettera con una cartuccia di fucile e una minaccia di morte.

Per molti, da queste parti, piazza Valarioti è però rimasta “piazza 2001”. Antonio Napoli è sicuro: non si tratta di nostalgia o abitudine bensì di una damnatio memoriae imposta dalle cosche, che hanno voluto “reintitolarla al potere mafioso” per lasciar intendere che i padroni sono ancora loro.

La “dignitudine” mafiosa

Matteo Luzza è a palazzo Versace per raccontare la sua storia a una platea di immigrati e attivisti antimafia. La ’ndrangheta gli è entrata in casa con violenza il 15 gennaio del 1994 portandogli via suo fratello Pino, due anni più grande di lui. Pino aveva appena 22 anni e fu punito perché Antonio Gallace, esponente di una cosca del paesino di Gerocarne nel vibonese, non voleva fargli sposare la cognata, per la quale aveva già previsto un matrimonio d’interesse per rafforzare il legame con un’altra cosca. I resti del ragazzo furono ritrovati soltanto due mesi dopo, il 21 marzo, primo giorno di primavera.

Fu un omicidio organizzato nei minimi dettagli ed eseguito dalle cosche della piana di Gioia Tauro. Un commando di sette persone prelevò Pino ad Acquaro, il suo paese, lo portò tra i boschi e lo massacrò. “Buttarono mio fratello in una fossa, cospargendolo di benzina. Con il corpo in fiamme, misero una pistola in mano a uno di loro, un ragazzo di 17 anni al suo ‘battesimo di fuoco’, e gli fecero scaricare il caricatore su di lui”. Il giovane doveva scomparire nel nulla ed essere archiviato come l’ennesimo caso di lupara bianca, senonché uno dei killer si è pentito e ha fatto ritrovare i resti.

Matteo Luzza racconta che quel che ha ferito di più la famiglia è stata la reazione dei concittadini, figli di una sottocultura che giustifica e legittima il codice d’onore mafioso, assolvendo i carnefici e facendo “provare un senso di vergogna” alle vittime: “In paese dicevano che ‘non si è fatto i fatti suoi’, ‘è andato a donne’, ‘qualcosa avrà fatto’ ” .

Al processo, tre pentiti del commando che aveva sequestrato Giuseppe Luzza, tra i quali il ragazzo di 17 anni che aveva sparato, hanno raccontato che Gallace non aveva accettato il fidanzamento della sorella di sua moglie con un “ragazzo normale” e aveva deciso un’azione eclatante per dimostrare “chi comanda sulla famiglia e sul territorio”. Nella sentenza che l’ha condannato all’ergastolo come mandante dell’uccisione di Pino Luzza si parla di “visione distorta delle ragioni di onore familiare”. Nel vocabolario mafioso si chiama “dignitudine”, che non è altro che la reputazione di uomo di rispetto, dunque temuto. Gallace temeva di perderla per via di quel fidanzamento.

Il killer di 17 anni è stato invece condannato a 21 anni e dal carcere ha scritto una lettera alla famiglia invocandone il perdono. Matteo Luzza pensa che “se avesse avuto un lavoro e l’opportunità di frequentare una biblioteca”, forse non avrebbe ucciso nessuno. Davanti alle persone che riempiono il palazzo-simbolo del potere dei boss di Polistena, dice che le stesse parole usate per delegittimare il fratello oggi sono dirette contro gli africani che lavorano nella piana. “Quelle parole sono come proiettili”, avverte, e scatta l’applauso.

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