25 marzo 2021 11:19

A Lomazzo in tanti ricordano che fino agli inizi degli anni novanta nevicava spesso. Poi però aggiungono che non era neve vera, ma polvere di detersivo. A spargerla erano le ciminiere della Henkel, una multinazionale tedesca che dal 1933 in questo paese in provincia di Como produce detergenti per il bucato e per le stoviglie come Bio presto, Dixan, Nelsen, Perlana e Vernel. “Ogni mattina trovavamo le auto ricoperte di uno strato bianco”, dice uno dei rari passanti che incontro sul corso principale, svuotato dalle misure per arginare il covid-19.

Gli abitanti raccontano pure che dai rubinetti delle abitazioni attorno alla fabbrica usciva acqua con le bollicine. Dopo le denunce dei medici di base che constatavano un aumento di tumori e gli esiti delle analisi sull’inquinamento ambientale, la Henkel ha sospeso la produzione di polveri lasciando solo quella dei liquidi. Le precipitazioni di “neve” sono finite e di acqua saponata dai rubinetti non ne è più uscita.

A “mamma Henkel”, come la chiamano da queste parti, si è perdonato sempre tutto. La fabbrica ha dato lavoro e un relativo benessere a più di una generazione di lomazzesi e nessuno ha mai osato parlarne male. Solo ora che sta per andarsene, chi si sente tradito racconta dell’inquinamento e delle bonifiche da fare, di quel “muro impenetrabile” opposto dai manager tedeschi a qualsiasi domanda e delle guardie private inviate a sorvegliare la fabbrica dopo l’annuncio della chiusura, l’11 febbraio 2021.

Un fulmine a ciel sereno
È accaduto tutto all’improvviso. Quel giovedì di metà febbraio, la direzione italiana dell’azienda con sede a Düsseldorf ha convocato a sorpresa i sindacati. La sera prima avevano messo a riposo per due giorni tutti i dipendenti adducendo non precisati “motivi di sicurezza”. I rappresentanti dei lavoratori si aspettavano di “fare come ogni anno il punto della situazione” con i vertici aziendali, spiega Serena Gargiulo, sindacalista della Uiltec. Dice che nel novembre 2020 avevano chiesto delle assunzioni e, pur non avendo ottenuto risposte, “non ci siamo insospettiti”. D’altronde, in quasi novant’anni nessuno aveva mai messo in discussione l’esistenza della fabbrica, e nel 2019 i dirigenti avevano presentato al comune un piano di ampliamento. Solo la pandemia ha impedito un’iniziativa che prevedeva l’apertura al territorio, con visite guidate degli stabilimenti.

Invece, l’incontro dell’11 febbraio è durato pochissimi minuti. I dirigenti hanno fatto sapere che la fabbrica avrebbe fermato l’attività “entro il mese di giugno 2021” e che tutta la produzione sarebbe stata spostata settecento chilometri più a sud, nello stabilimento di Ferentino, vicino a Frosinone.

Lomazzo, 10 marzo 2021. Una riunione degli operai della Henkel con i rappresentanti sindacali. (Salvatore Esposito per Internazionale)

L’annuncio della chiusura è piombato come un fulmine a ciel sereno nelle case dei 160 lavoratori che dipendono dall’azienda, alcuni in maniera diretta e altri perché impiegati nell’indotto. Stefano Verga non ci voleva credere. Dopo 32 anni di lavoro alla Henkel, nel 2020 aveva deciso di comprare casa ad appena cinquecento metri dalla fabbrica. “Quando ho portato in banca la busta paga per il mutuo me lo hanno concesso senza problemi dicendomi che l’azienda era una garanzia sicura”, racconta. E invece, la mattina dell’11 febbraio “ho guardato la mia compagna e le ho detto che mi avrebbero licenziato, senza aggiungere altro”. Ora, a 53 anni, con il mutuo e gli alimenti all’ex moglie da pagare, sostiene di non riuscire a pensare ad altro.

Nei mesi precedenti, dice un gruppetto di lavoratori che intercetto a un cambio di turno, non c’erano state avvisaglie di quello che sarebbe accaduto. Durante la pandemia la fabbrica ha lavorato a pieno regime. “Non abbiamo fatto neppure un giorno di cassa integrazione, anzi molti straordinari perché in questo periodo c’è stata una grande richiesta di detergenti”, spiega Franco Balletta, nato in Perù da genitori siciliani, tornato in Italia a vent’anni per essere assunto alla Henkel.

L’imbarazzo dei rappresentanti locali e nazionali
La multinazionale ha motivato la chiusura con la necessità di “proteggere la stabilità e la competitività dell’azienda in una prospettiva di lungo periodo”. Nella scelta su quale stabilimento chiudere, ha pesato il fatto che quello di Lomazzo fosse nel centro del paese, senza grandi possibilità di espansione e con maggiori problemi logistici rispetto a quello di Ferentino, nel Lazio, costruito in una zona industriale più funzionale.

“La verità è che in un momento di crisi come questo hanno voluto riportare in Germania la produzione destinata all’estero, lasciando in Italia solo quella destinata al mercato interno”, dice Samuele Arrighi, che da segretario locale della Lega e capogruppo in consiglio comunale si trova ad affrontare in prima linea la tempesta economica e sociale che sta per abbattersi sul suo territorio. Il partito guidato da Matteo Salvini sa che su questioni come la Henkel rischia di franare il mito del buongoverno locale leghista. Da queste parti il consenso per la Lega si fonda sulla capacità di garantire sicurezza sociale e stabilità economica, e le amministrazioni comunali rappresentano una sorta di cinghia di trasmissione tra la base elettorale e il potere centrale.

Per questo appena due giorni dopo l’annuncio della chiusura, mentre al Quirinale il leghista Giancarlo Giorgetti – nato a Cazzago Brabbia, mezz’ora in macchina da Lomazzo – giurava da ministro dello sviluppo economico, una delegazione di operai della Henkel è stata fatta accomodare nella sala consiliare del comune. Ad attenderli c’erano il sindaco Giovanni Rusconi, lo stesso Arrighi e i parlamentari Eugenio Zoffilli e Nicola Molteni, responsabile immigrazione del partito e sottosegretario all’interno già nel 2018, durante il primo governo Conte, quando con i “decreti sicurezza” lui e il ministro Salvini hanno smantellato il sistema dell’accoglienza.

Al termine della riunione, i due hanno scritto al neoministro una lettera dal tono confidenziale: “Caro Giancarlo, come da accordi intercorsi, trasmettiamo la documentazione relativa alla chiusura dello stabilimento di Lomazzo. Tale questione risulta essere di primaria importanza perché, oltre a riguardare una delle realtà economiche più antiche e importanti della provincia di Como, avrebbe delle gravissime conseguenze per i 160 lavoratori e per le loro famiglie che rimarrebbero senza un lavoro in questo periodo di crisi economica e sanitaria”. Quella della Henkel è così diventata la prima crisi industriale del governo guidato da Mario Draghi.

Nonostante l’amichevole sollecitazione dei compagni di partito, un mese e mezzo dopo Giorgetti non si è fatto sentire. L’unico tavolo di crisi convocato dal ministro ha riguardato, agli inizi di marzo 2021, lo storico marchio d’abbigliamento mantovano Corneliani. Intanto, gli operai della Henkel sono stati ricevuti dai vertici leghisti alla regione Lombardia, hanno scioperato e ricevuto il sostegno dell’attore Claudio Amendola, figlio di Ferruccio, testimonial storico dei prodotti dell’azienda. Zoffilli e Molteni – nel frattempo rinominato sottosegretario all’interno – hanno incontrato l’ambasciatore tedesco a Roma Viktor Elbling per chiedere un intervento diretto del suo governo.

Poi sono arrivate misure anticovid più stringenti e le proteste si sono affievolite. Il malessere operaio è tornato invisibile e cova in silenzio all’interno dello stabilimento. “Dentro c’è molta tensione, la gente risponde male per nulla”, dice all’uscita dal turno di lavoro Manuel Bullegas, un operaio di quarant’anni di origini sarde.

Effetto domino
La verità è che nessuno sa come arginare la frana in arrivo. Lomazzo è cresciuta attorno alle sue fabbriche e oggi paga la fine del modello industriale novecentesco. Prima ha dovuto affrontare la crisi del tessile, culminata con la chiusura del cotonificio che da più di un secolo regolava la vita cittadina. Ora tocca alla Henkel.

Lo stabilimento rischia di trasformarsi in uno scheletro industriale, lasciando una ferita aperta e da bonificare nel cuore del paese. Il futuro si prospetta grigio e l’ideologia della piccola patria leghista rischia di frantumarsi. “Se le cose dovessero finire male, cercheremo di ricollocare i lavoratori in supermercati e altre attività della zona che potrebbero nascere”, afferma Arrighi. Non appare una strategia di ampio respiro, se si pensa che, di qui a pochi mesi, l’emergenza lavoro da queste parti potrebbe toccare punte mai registrate.

Bulciago, 9 marzo 2021. Il presidio degli operai davanti alla fabbrica Teva. (Salvatore Esposito per Internazionale)

L’ex sindaca Valeria Benzoni, che ha guidato una parentesi di centrosinistra prima che il comune nel 2019 tornasse nelle mani della Lega, guidandomi per le vie del paese illustra le chiusure annunciate, a partire dalla storica filiale dell’UniCredit a pochi metri dalla Henkel. Lo stop alla fabbrica, sostiene, trascinerà con sé ditte di trasporti, servizi mensa, bar e attività di ristorazione. “Se non si mettono in campo delle politiche di salvaguardia del lavoro, sarà un disastro per il territorio”, conclude.

“Con un tessuto produttivo sano sarebbe stato più facile ricollocare i lavoratori, ma ora è inutile illudersi”, dice Chiara Braga, che prima di essere eletta alla camera dei deputati con il Pd era impiegata proprio al comune di Lomazzo. Secondo lei “bisogna intervenire a livello europeo per cercare di sterilizzare i piani di ristrutturazione delle multinazionali che non hanno nulla a che vedere con la pandemia”. È il senso dell’interrogazione che l’europarlamentare del Pd Patrizia Toia ha presentato alla Commissione europea, chiedendo “quali iniziative intende intraprendere” nei confronti della Henkel e se “nella imminente revisione della strategia di politica industriale ci sarà spazio per un ruolo della Commissione nelle diverse crisi aziendali e occupazionali in corso negli stati membri”.

Il tempo però stringe. Agli inizi di marzo, la multinazionale ha cominciato a convocare i dipendenti per le visite mediche finalizzate alla chiusura del rapporto di lavoro. A una ventina di loro sarà proposto il trasferimento nello stabilimento laziale e, tra i lavoratori, c’è chi ci sta pensando. “Io ho fatto il militare a Frosinone e conosco quella zona”, dice con una battuta Maurizio Gragnaniello. “So bene che qui a Lomazzo, con la catastrofe che si prospetta quando finirà il blocco dei licenziamenti, per noi non ci sarà nulla”, aggiunge. Quarantacinque anni fa i suoi genitori si erano trasferiti da Torre Annunziata per lavorare a Como. Ora lui, dopo ventitré anni alla Henkel, potrebbe trovarsi a dover compiere il percorso inverso.

Nessuna risposta a Bulciago
I lavoratori dello stabilimento di Lomazzo non sono gli unici a temere per il proprio futuro. “Abbiamo paura di essere i primi di una lunga serie”, dicono gli operai che incontro al presidio della Teva di Bulciago, in provincia di Lecco. Secondo loro non è un caso che, nei giorni in cui la Henkel annunciava la chiusura, la multinazionale per la quale lavorano abbia fatto lo stesso. Il 16 febbraio 2021, l’azienda farmaceutica israeliana ha comunicato che l’impianto, nel quale si producono medicinali per la cura del Parkinson e dell’ipertensione, avrebbe cessato la produzione ad aprile 2021. Eppure “durante la pandemia abbiamo lavorato a ciclo continuo perché l’azienda ci diceva che c’era molta richiesta”, dice il segretario lecchese della Uiltec Celeste Sacchi.

Anche al comune sono stati colti di sorpresa. Agli inizi di dicembre 2020 in consiglio si discuteva delle bonifiche da imporre all’azienda. L’ex sindaca Egidia Beretta, madre di Vittorio “Vik” Arrigoni, l’attivista rapito e ucciso a Gaza nel 2011 da un gruppo jihadista salafita, aveva speso l’intera legislatura a tentare di costringere la multinazionale israeliana a ripulire l’area. Dice che il giorno in cui è stato dato l’annuncio della chiusura si è sentita lasciata sola: “Mi chiedo dove fossero coloro che hanno combattuto con me questa dura battaglia, oppure i giovani entusiasti bulciaghesi di Friday for future”.

Bulciago, 9 marzo 2021. Gli operai della Teva davanti alla fabbrica. (Salvatore Esposito per Internazionale)

L’azienda ha motivato la decisione con il fatto che lo stabilimento non è più sostenibile dal punto di vista economico e che la dismissione rientra in “una logica di ottimizzazione della rete mondiale di Teva”. “Siamo consapevoli dell’impatto sociale, ma la decisione è irreversibile”, ha detto la responsabile delle risorse umane Rossana Cantù. Alla Teva di Bulciago lavorano 109 persone, con l’indotto si arriva a 140 e su una popolazione di tremila abitanti l’impatto è ancora più pesante che alla Henkel di Lomazzo.

“Non si può permettere alle multinazionali di colonizzare un territorio, sfruttarlo e andarsene, è necessario che l’Europa pretenda salari e tasse uguali in tutto il continente, così da evitare le delocalizzazioni”, si infervora Giuseppe Pascale, un operaio che a 57 anni rischia di trovarsi disoccupato dopo essersi trasferito da San Giuseppe Vesuviano per venire a lavorare alla Teva. “Avevo lavorato per diciotto anni in un’azienda di abbigliamento che poi ha chiuso, quella di venire quassù è stata una scelta di vita, avevo un bimbo di appena un mese che ora va a scuola qui”, dice.

Alle elezioni europee del 2019 qui la Lega ha superato il 50 per cento dei voti, ma il comune è guidato da una lista civica. Il deputato del Pd Gian Mario Fragomeli – ex sindaco di Cassago, paese confinante con Bulciago – invece di scrivere a Giorgetti, ha interpellato il ministro del lavoro Andrea Orlando e quello della transizione ecologica Stefano Cingolani, chiedendogli di intervenire “con urgenza” per sventare la chiusura.

I lavoratori chiedono al governo di prendere in pugno la regia della crisi e di non lasciarla nelle mani dell’azienda. Il loro slogan è: “Lasciateci le chiavi”. Dicono che potrebbero convertirsi alla produzione di vaccini. Ma anche loro non hanno ricevuto ancora alcuna risposta.

A Ternate si aspetta
Il 16 febbraio la multinazionale americana Huntsmann ha annunciato la chiusura della fabbrica di Ternate. Nello stabilimento si producono poliuretani, impiegati per isolare frigoriferi e congelatori, ma anche interi edifici, oppure usati nelle suole delle scarpe, nei pneumatici e in vari componenti di automobili. La segretaria della Filctem-Cgil di Varese Silene Raddrizzoni spiega che dietro le quinte è in corso una delicata trattativa con la proprietà, ma anche in questo caso il destino dei circa cento lavoratori dello stabilimento sembra simile a quello degli operai della Henkel di Lomazzo e della Teva di Bulciago.

“Stiamo spingendo perché l’azienda si impegni a riassorbire nelle altre fabbriche del gruppo il maggior numero di dipendenti possibile”, dice Raddrizzoni. La proprietà ha proposto di ricollocare una cinquantina di lavoratori, ma si spera che i numeri possano crescere. Per questo non ci sono presidi davanti ai cancelli e finora non ci sono state proteste.

Non ci sarebbe stato bisogno di concludere il mio viaggio a Ternate se non confinasse con Cazzago Brabbia, il paese del ministro Giorgetti. Il neoministro quando non è a Roma vive ancora qui. Da queste parti ancora lo ricordano al fianco di Umberto Bossi, un decennio fa, mentre l’allora leader della Lega diceva “siamo destinati a veder nascere la Padania, non c’è santo che tenga”.

Alle ultime elezioni comunali, nel 2019, proprio qui doveva celebrarsi la fusione tra l’anima più tradizionale del partito e il nuovo corso salviniano. Per farlo era nata una lista civica dal nome ammiccante, Ternate ci lega, con un simbolo che più esplicito non poteva essere: una mano verde (padano) che ne stringeva un’altra blu (sovranista). Tutto sarebbe filato liscio se alla vigilia della presentazione delle liste le due fazioni non avessero litigato. Il risultato, più comico che paradossale, sono state due liste contrapposte, una delle quali ha conservato il nome e l’altra il simbolo. Forse è per questo che, quando il concittadino ministro ha fatto sapere loro di essere pronto a intervenire, i lavoratori gli hanno risposto “no, grazie”. Conoscendolo da vicino, non si sono fidati.

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