26 ottobre 2017 09:50

“Il più grande bassista di tutti i tempi secondo me non è un bassista”, esclama Simone Ndiaye, appena uscito dallo studio di registrazione ai Monti Tiburtini, periferia est di Roma. “Secondo me il più grande bassista di tutti i tempi è Johann Sebastian Bach”.

Ndiaye ha 19 anni e vuole fare il musicista. Ha appena saputo di aver superato l’esame di ammissione al conservatorio di Roma e la prossima settimana comincia a frequentare la prima lezione di armonia. Ascolta i virtuosi del basso: Victor Wooten, Jaco Pastorius, Marcus Miller. Ma pensa che non si tratti solo di suonare uno strumento.

“Il basso, la chitarra basso, il bassotuba, una voce di registro basso, la mano sinistra del pianoforte: il basso tiene il ritmo e dà il senso al resto del gruppo”, dice Ndiaye, che ha un’idea precisa della funzione del suo strumento.

Mi piace molto anche la musica senegalese, ma non la so fare

Da bambino suonava il pianoforte, poi quando nel 2012 ha cominciato a frequentare la Piccola orchestra di Tor Pignattara, è passato al basso elettrico, perché di pianisti ce n’erano già tre. “Il bassista ha un potere fenomenale: può far ballare centinaia di persone. Nonostante questo, nessuno sa che è grazie al bassista che si balla”, dice il ragazzo, con un forte accento romano. “Questo potere un po’ anonimo mi affascina. Il bassista si nota solo se sbaglia. Il basso non ha scuse, se sbaglia ne risentono tutti”, continua Ndiaye.

La passione per la musica l’ha ereditata dal padre, che è un percussionista e un insegnante di percussioni ed è nato in un paese vicino a Dakar, in Senegal. Ma ultimamente i gusti musicali del ragazzo sono in conflitto con quelli paterni. “Ascolto musica metal, ma anche soul o jazz. Mi piace molto anche la musica senegalese, ma io la musica tradizionale non la so fare”, dice. “Io sono nato e cresciuto in Italia, mio padre è nato e cresciuto in Senegal, veniamo da due paesi diversi. Questa è la verità”, e scuote la testa.

Simone Ndiaye, il bassista della Piccola orchestra di Tor Pignattara durante le prove per il nuovo album in uno studio di registrazione ai Monti Tiburtini, Roma, ottobre 2017. (Giuliano Del Gatto per Internazionale)

Padre senegalese, madre italiana, Simone Ndiaye è nato a Roma, nel quartiere Appio Tuscolano, e storce il naso quando le persone gli chiedono di suonare musica tradizionale. È tutta una questione di ascolti: si fa la musica che si sa fare e si suona solo quella che si ascolta, quella che si condivide con gli amici, quella che scandisce le giornate. “Non è che la world music noi figli di musicisti stranieri non la vogliamo fare, la world music noi non la sappiamo fare”, dichiara serafico Ndiaye, mentre impugna il suo basso come se fosse una bacchetta magica.

La mani in tasca
Nella saletta di registrazione è un via vai: prima entrano le percussioni, poi gli strumenti a corda e i fiati, quindi arrivano i cantanti. Sono tutti in ritardo. I venti ragazzi della piccola orchestra sono nati a Roma: hanno tra i 15 e i 22 anni, alcuni sono figli d’immigrati, altri di coppie miste, alcuni hanno la cittadinanza italiana, altri no.

Sotto la direzione del maestro Pino Pecorelli stanno registrando il loro ultimo singolo: Better days. Le parole le ha scritte Yusif Tutuji Tahiru, un ragazzo del Ghana arrivato in Italia da minorenne, e la musica l’ha composta Simone Ndiaye, insieme a Sebastian Covalciuc e al direttore dell’orchestra.

Dei venti musicisti che formano l’orchestra, un terzo non ha la cittadinanza italiana, anche se è nato in Italia come Mohammed Dia, uno dei coristi. Dia è nato nel 2000 a via Fanfulla da Lodi, la strada del quartiere Pigneto che è stata il set del film Accattone di Pier Paolo Pasolini nel 1961. Suo padre e sua madre vivevano e lavoravano nella zona da dieci anni, ma il ragazzo non ha ancora potuto chiedere di diventare cittadino per i limiti imposti dalla legislazione italiana.

Le prove nello studio di registrazione, Roma, ottobre 2017. (Giuliano Del Gatto per Internazionale)

Secondo la legge in vigore, infatti, potrà fare domanda al compimento del diciottesimo anno di età e avrà solo un anno di tempo per sbrigare la pratica. “Ho frequentato la scuola in Italia, sono al quinto anno dell’Istituto tecnico-economico e poi vorrei iscrivermi all’università, alla facoltà di statistica”, spiega Dia con uno sguardo di sfida.

Sull’autobus spesso gli sconosciuti gli chiedono da che paese viene, quando il ragazzo risponde in un perfetto italiano rimangono di stucco. “Se salgo sul tram, mi trattano come se fossi un’arma letale chimica. Mi è capitato più di una volta che la signora davanti a me si stringesse la borsetta oppure cambiasse posto”, racconta. “Spesso sono i miei amici a rispondere che sono italiano”, dice Dia con un po’ di rabbia.

“Ho il passaporto di un paese – il Senegal – dove non ho mai vissuto e dove sono andato un paio di volte in vacanza, l’ultima volta otto anni fa. Se volessi andare in un altro paese europeo dovrei chiedere il visto, con uno spreco di soldi e di tempo”. Al terzo anno delle superiori, una nuova professoressa lo ha iscritto al corso di italiano per stranieri senza nemmeno conoscerlo. “Ho rosicato un sacco, ho fatto un macello”, ricorda.”Mi sono sentito offeso, non me l’aspettavo da un’insegnante”.

Quello che non accetta della sua condizione è di dipendere dal permesso di soggiorno: “Mi fa sentire come se non fossi a casa mia. La parola permesso vuol dire che qualcuno mi permette di stare qua. Invece io ho il diritto di starci”, dice. “Roma per me è come mettere le mani in tasca. Non potrei vivere senza i miei amici, senza andare il pomeriggio al centro sociale ex Snia o al bar Roxy. Se me ne andassi, dovrei tornare qui almeno una volta al mese”, conclude Dia.

Non è un talent show
L’idea della Piccola orchestra di Tor Pignattara la spiega il direttore Pino Pecorelli: la musica di successo è frutto di contaminazioni e convivenze. “Natalina Garaventa, Joe Germanotta, Silvio Ciccone, Teresa Augello e Adele Zirilli sono cinque italiani che nel secolo scorso – tra tanti – hanno intrapreso un viaggio per cercare fortuna negli Stati Uniti, poi hanno messo su famiglia e sono nati Frank Sinatra, Lady Gaga, Madonna, Alicia Keys e Bruce Springsteen. Artisti che amiamo definire italoamericani, sappiamo che sono americani, ma ci piace pensare che siano anche italiani”, afferma Pecorelli.

Se poi passiamo ad analizzare il panorama mondiale gli esempi diventano infiniti: “Farrokh Bulsara, anche noto come Freddie Mercury, da Zanzibar si trasferisce nel Regno Unito e fonda i Queen. L’artista greco-cipriota Georgios Panayiotou fonda gli Wham! e poi prosegue la sua carriera come George Michael. E potremmo andare avanti: Bob Marley, il principe della musica giamaicana, ha una madre giamaicana e un padre britannico, Joan Baez, cantante americana, ha un padre messicano, Bob Dylan – forse il più importante cantautore statunitense di tutti i tempi – aveva nonni lituani e ucraini”.

Non vogliamo che i ragazzi si adagino sull’idea che sono degli svantaggiati

La piccola orchestra è nata in una saletta prove di periferia nel 2012, grazie a Domenico Coduto, produttore e musicista di Benevento che da qualche anno si è trasferito in uno dei quartieri più multietnici di Roma: Tor Pignattara. “L’idea era quella di creare un’orchestra di giovani professionisti che avessero origini diverse: è nato tutto come un laboratorio e si è trasformato in un progetto professionale vero e proprio”, spiega Coduto, secondo cui il fine del progetto è stimolare l’espressività e l’autonomia degli adolescenti.

“Non vogliamo che i ragazzi si adagino sull’idea che sono degli svantaggiati perché sono di origine straniera o perché vivono in periferia. Vogliamo che facciano della musica di qualità”, aggiunge. “Abbiamo avuto tanti riconoscimenti nel corso del tempo, ma ancora facciamo fatica a sopravvivere: ci finanziano fondazioni private di anno in anno e non abbiamo nemmeno un posto dove riunirci”, denuncia.

Yusif Tutuji Tahiru, che ha scritto il testo della canzone Better days per il nuovo album. Roma, ottobre 2017. (Giuliano Del Gatto per Internazionale)

Pino Pecorelli, il direttore della Piccola orchestra, è un bassista, un maestro di basso e un componente storico dell’Orchestra di piazza Vittorio, l’ensemble formato da musicisti di tutto il mondo fondato nel 2002 dal casertano Mario Tronco nel quartiere Esquilino, un’altra zona della città con una forte presenza di immigrati.

Potrebbero sembrare progetti simili e invece le due orchestre sono molto diverse e la loro distanza descrive come è cambiata la società italiana negli ultimi quindici anni: “Mentre l’Orchestra di piazza Vittorio è un gruppo di musicisti stranieri che si incontrano per suonare insieme, ognuno con il suo bagaglio musicale già sviluppato, la Piccola orchestra di Tor Pignattara è formata da ragazzi che nella maggior parte dei casi sono nati in Italia e stanno crescendo insieme”, spiega Pecorelli.

Poco alla volta, nel corso del tempo, i ragazzi hanno cominciato a scrivere i pezzi che l’orchestra esegue. Sono diventati autori, su spinta del direttore. “Sono degli appassionati di rap e di hip hop, io cerco di dargli un po’ di elementi di soul, di reggae e di funk per fargli capire da dove viene questo genere musicale che a loro piace tanto”, spiega il maestro.

Il singolo Under della Piccola orchestra di Tor Pignattara

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“Ci vorrà ancora del tempo prima che l’orchestra trovi il suo suono e la sua voce: ma non c’è fretta. Cerchiamo di spiegare anche questo ai ragazzi: non siamo in un talent show, c’è bisogno di tempo e di tanti tentativi e fallimenti prima che un musicista maturi e trovi la sua dimensione”, continua il direttore, mentre si sposta un ciuffo di capelli bianchi dalla fronte e saluta i ragazzi che entrano ed escono dallo studio di registrazione. Si stupisce ancora del percorso che hanno fatto: “Prima di conoscerli, non sapevo cosa fosse l’adolescenza”.

Mohammed Dia (a sinistra) e Maurizio Lipoli della Piccola orchestra nello studio di registrazione, Roma, ottobre 2017. (Giuliano Del Gatto per Internazionale)

Per Pecorelli quella di Tor Pignattara è soprattutto un’orchestra di adolescenti, che stanno vivendo una fase delicata della loro crescita. “La musica è uno strumento troppo poco usato nei contesti educativi. Nella scuola italiana il massimo è la lezione di flauto dolce e le scuole private di musica costano troppo. Chi se le può permettere 150 euro al mese per il corso di musica? Solo i più fortunati. Invece per gli adolescenti la musica è conforto, è espressione di sé, è condivisione”, continua. “Io ho imparato tantissimo da loro, per esempio sulla loro idea di convivenza: le parole integrazione o tolleranza sono superate per loro. Non hanno senso. Avremmo tutti da imparare dalla leggerezza con cui si accettano”, conclude Pecorelli.

Giorni migliori
“Mamma use to tell me son/ soon better days ago come/ Mamma use to tell me son/ soon better days ago come”, canta Yusif Tutuji Tahiru con gli occhi chiusi e il viso concentrato, vicino vicino al microfono. La canzone è un dialogo tra una madre e un figlio. “Mia madre mi diceva, presto verranno giorni migliori”, dice la canzone.

“Yusif è venuto alle prove canticchiando questo ritornello, che aveva scritto sul telefono. Ci sembrava molto bello e lo abbiamo aiutato a comporre la musica”, spiega Ndiaye. L’ha scritta in un pomeriggio, la prima versione l’ha appuntata sul telefonino, poi l’ha persa. Quindi l’ha scritta di nuovo su un quaderno, altre tre volte. “Mi piace scrivere più di quanto non mi piaccia parlare, lo faccio sempre da quando sono arrivato in Italia”, spiega Yusif che da ragazzino ha affrontato da solo il viaggio per arrivare in Europa.

A Roma dopo aver vissuto in una casa famiglia per minorenni, ha incontrato una famiglia che ha deciso di ospitarlo in casa. “Sono diventati la mia nuova famiglia insieme alla Piccola orchestra di Tor Pignattara, mi hanno tolto dalla strada”, racconta.

“Non avevo mai cantato prima e non avevo mai pensato che lo avrei fatto, non sono un musicista. Preferisco scrivere canzoni, ascolto musica reggae da quando avevo dodici anni”, spiega. Del reggae Yusif ama il fatto che arrivi dritto al messaggio, senza giri di parole, mentre non sopporta l’hip hop, perché secondo lui non dice niente. “Unica eccezione il rapper italiano Ghali, che è molto diretto”, dice Yusif Tutuji Tahiru.

A casa il ragazzo ghaneano conserva tre quaderni fitti fitti di parole, scritte in questi anni, i testi sono in “inglese africano”, come lo definisce. “Io penso e parlo così, nella lingua di Fela Kuti”, dice. “Prima di arrivare in Italia non pensavo che ci fossero così tanti italiani che non capiscono l’inglese”, confessa Yusif, che in compenso sta imparando in fretta l’italiano.

“Mama why should I run / From this mercy land / And find its peace with a gun? / No more schools with no food / no more feet with no shoes / Come on: better days ago come”, canta Yusif con un’espressione seria e concentrata. “Mamma, perché dovrei scappare da questa terra di misericordia e trovare la pace in una pistola? Non ci saranno più scuole senza cibo, niente più piedi senza scarpe. Dai, verranno giorni migliori”. Di questo Yusif Tutuji Tahiru è convinto: i giorni migliori devono ancora arrivare.

Il concerto della Piccola orchestra di Tor Pignattara a Radio3

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