03 dicembre 2019 10:12

“For you I know I’d even try to turn the tide / Because you’re mine, I walk the line”, dalle casse dello stereo del ponte di comando s’irradia la voce profonda ed elegante di Johnny Cash che canta I walk the line. Il comandante norvegese è impassibile sul ponte: alto, capelli brizzolati, ventre sporgente, camicetta bianca a maniche corte. Il suo secondo controlla la rotta sul computer di bordo. La prua della nave solca le onde disegnando un ritmo sinuoso nel mare nero di novembre. Nulla fa pensare che tra qualche ora il vento soffierà forte fino a sessanta nodi e sembrerà di stare in mezzo a un uragano.

I soccorritori della nave umanitaria Ocean Viking sono in viaggio verso la zona di ricerca e soccorso libica e decidono di procedere lentamente verso sud, invece di riparare in un porto siciliano, per essere pronti ad agire quando si aprirà una finestra di bel tempo. Davanti a Zawyia o a Zuara, è lì che si fermerà la nave per pattugliare le acque internazionali, a 25-30 miglia dalla costa (cinquanta chilometri).

I capomissione chiamano a raccolta tutto l’equipaggio nel salottino vicino alla mensa della nave, i coordinatori mostrano sullo schermo le condizioni atmosferiche delle prossime ore e comunicano la decisione: “Proseguiamo, ci saranno onde alte, la tempesta arriverà quando saremo a nord di Cap Bon, al largo delle coste tunisine”. E poi il consiglio: “Prendete i medicinali per non avere il mal di mare. Fatelo prima di avvertire i sintomi”. È la terza volta che salgo su una nave umanitaria nel Mediterraneo in tre anni, conosco l’effetto soporifero della xamamina. Su queste navi si usano grandi quantità di farmaci simili e nel Mediterraneo il mal tempo arriva spesso all’improvviso.

Dopo aver preso una pillola, basta appoggiarsi a una sedia, a una poltrona o su un letto perché il corpo cada in uno stato d’incoscienza, un sonno profondo e senza sogni. La scatola dei medicinali è su una mensola del salotto, vicino un modellino di legno di un veliero. Qualcuno scherza: “La xamamina è perfetta per riprendersi dopo una sbornia”. In realtà sulla nave sono vietati tutti i tipi di alcolici. Sulla scatola dei medicinali c’è scritto: “Medicine per expat”. Ci sono farmaci per la febbre, per il mal di pancia e poi un sacchetto di pillole bianche per il mal di mare. I soccorritori, che vengono da tutto il mondo, scherzano sul fatto che i passaporti europei facciano guadagnare d’ufficio la definizione di “expat, espatriati”. Mentre gli altri, quelli che viaggiano senza passaporto, sono semplicemente migranti.

Metamorfosi
La prua della nave è puntata verso il confine più pericoloso del mondo per i migranti, una frontiera d’acqua che è diventata una fossa comune. Nell’ultimo anno sono morte almeno mille persone cercando di arrivare in Europa dalla Libia, ma i mezzi di soccorso in mare sono sempre di meno. Quando mi sono imbarcata per la prima volta, nel 2017, c’erano quattordici barche umanitarie al largo della Libia e molti mezzi di soccorso governativi. Dal 2018 il coordinamento dei soccorsi in quel tratto di mare è stato affidato ai libici dalle autorità marittime internazionali; i mezzi militari della missione europea Sophia lanciata nel 2015 sono stati ritirati così come quelli della missione Themis e Triton. Aerei militari europei sorvolano la zona, ma non ci sono mezzi di soccorso governativi a pattugliare il mare.

I soccorritori di Medici senza frontiere (Msf) e di Sos Méditerranée sono saliti sulla Ocean Viking a Marsiglia, base logistica dell’organizzazione, e saranno a bordo per almeno tre settimane. Sono tutti professionisti, molti hanno alle spalle una lunga esperienza nei salvataggi nel Mediterraneo centrale e in diverse missioni umanitarie in tutto il mondo. Alcuni hanno cominciato a occuparsi di soccorsi in Grecia, nell’Egeo, nel 2015, al tempo della crisi dei rifugiati siriani. Molti sono attivisti, altri lo fanno per lavoro. Sono tutti retribuiti.

La Ocean Viking, dell’ong Sos Méditerranée e di Medici senza frontiere, è l’unica attiva nel Mediterraneo in questo momento, tra qualche giorno arriveranno nell’area anche la spagnola Open Arms, la basca Aita Mari e la tedesca Sea-Eye. Le due imbarcazioni spagnole, però, non possono spingersi a sud della zona di ricerca e soccorso (Sar) maltese, perché il governo glielo ha vietato e rischiano multe salate. Sei navi umanitarie sono sotto sequestro in Sicilia, in seguito alle indagini avviate per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e in conseguenza del cosiddetto decreto sicurezza bis, la legge approvata in Italia nel luglio 2019 che prevede multe fino a un milione di euro e il sequestro dell’imbarcazione per chi soccorre.

Un soccorritore di Sos Méditerranée a bordo della Ocean Viking, novembre 2019. (Faras Ghani)

La nave Ocean Viking, che le due ong hanno preso in affitto dall’armatore Hoyland Offshore, è stata messa in mare nell’agosto 2019, e ha sostituito l’Aquarius, una delle navi di soccorso più famose lungo la rotta del Mediterraneo negli ultimi anni. L’Aquarius è stata la prima imbarcazione, infatti, nel giugno 2018 a essere bloccata dalla politica italiana dei porti chiusi.

L’Aquarius era finita anche al centro di un’inchiesta della procura di Catania che la accusava di aver smaltito in maniera inadeguata i rifiuti, indagine poi smontata dal tribunale del riesame. Infine per ben due volte è stata privata della bandiera, prima da Gibilterra e poi da Panamá, costringendo i soccorritori a rinunciare per un lungo periodo alle operazioni in mare. Alla fine del 2018, proprio a causa di questi problemi, la nave è stata dismessa.

“L’ultima sera sull’Aquarius abbiamo fatto una festa e prima di andarmene ho passato una lunga ora sul ponte, era una nave molto bella, con un’energia speciale”, ricorda Nick Romaniuk, il capomissione di Sos Méditerranée, che avevo conosciuto a bordo dell’Aquarius nel 2017. Romaniuk all’epoca guidava i gommoni di soccorso, ora è il responsabile di tutta la missione, uno dei soccorritori più esperti.

Britannico, di madre canadese, residente in Francia, Romaniuk è sempre stato un marinaio: ha frequentato le scuole militari, poi ha lavorato su navi commerciali in Africa occidentale, in Gabon, quindi ha cominciato a fare il soccorritore da volontario. “Ho cominciato con quindici giorni durante le vacanze”, racconta. È andato a Samos, nelle isole greche. Non è tornato più indietro, ha cominciato a lavorare con l’ong Moas. La sua storia è simile a quella di tanti della sua generazione. La crisi dei rifugiati in Grecia nel 2015 ha attirato gruppi di volontari da tutto il mondo: persone che sono partite per dare una mano, per sentirsi utili, per andare a vedere di persona, per farsi un’idea, ma che si sono sottoposte a un’esperienza impegnativa e radicale. Per molti è stato un viaggio di sola andata.

La psicoterapeuta Françoise Sironi nel suo libro Violenze collettive parla di “metamorfosi umana” per descrivere l’esperienza dolorosa di molti operatori umanitari che, esposti a violenze di massa subite da intere popolazioni, non riescono a tornare indietro da uno stato di crisi esistenziale. In Europa, dal 2015 decine di volontari hanno ascoltato e testimoniato storie di sopraffazione e violenza. Questo vissuto ha segnato la memoria di molti attivisti e professionisti dell’umanitario. I loro incubi, i loro dubbi, le loro crisi, la loro determinazione e infine la loro criminalizzazione sono l’altra faccia di un’Europa sempre più chiusa, ossessionata dalla sua identità e dalla paura dell’invasione.

“L’esperienza più traumatica è stata quella di un naufragio nel 2016: molte persone erano in acqua e le abbiamo recuperate, ma erano già in arresto cardiaco, siamo dovuti intervenire con una rianimazione. Quel momento è rimasto con me per lungo tempo”, ricorda Romaniuk. Ma poi ha deciso di tornare a fare il soccorritore: “La mia sofferenza non è paragonabile a quella delle persone che abbiamo soccorso in questi anni. Abbiamo visto bambini perdere i genitori, genitori veder morire i figli. Ci seguono alcuni psicologi che ci supportano, ne parliamo molto tra di noi”. Ma Romaniuk ammette che l’esperienza l’ha trasformato: “Non sono più la stessa persona di appena quattro anni fa, si vede anche a occhio nudo se guardo qualche foto di allora”. Anche per Tanguy quindici giorni sulla nave sono come “quarant’anni”.

Tim Harrison, infermiere di Medici senza frontiere, a bordo della Ocean Viking, novembre 2019. (Faras Ghani)

Oltre alle difficoltà psicologiche come il burn out e lo stress, i soccorritori hanno dovuto fronteggiare anche una pesante campagna di criminalizzazione. “Per me l’accusa più dura da digerire è stata quella di collaborare con i trafficanti, che sono senza scrupoli e mettono la vita di queste persone a rischio. Noi facciamo esattamente il contrario, proviamo a portarle in salvo. Dovrebbe essere un dovere salvare le persone che rischiano di morire e noi invece siamo stati attaccati per questo”, conclude. Quando alla fine del 2018, a causa delle diverse inchieste, l’Aquarius è stata bloccata è stato un duro colpo per i soccorritori.

Tim Harrison, l’infermiere di Medici senza frontiere, racconta quel momento: “Ho cominciato a lavorare nelle missioni di ricerca e soccorso nel 2017, ma poi nel 2018, quando l’Aquarius non poteva più continuare a operare, mi sono occupato dello smantellamento della nave. All’epoca pensavamo che avremmo smesso per sempre di fare soccorsi in mare”.

Poi per due mesi l’équipe ha scritto un rapporto per non perdere tutta l’esperienza accumulata negli anni di attività della nave. “Alla fine, proprio mentre stavamo preparando il programma per smobilitare, abbiamo provato a scrivere una panoramica di cosa avremmo tenuto e cosa avremmo cambiato. Msf e Sos Méditerranée hanno deciso che avrebbero voluto rilanciare il progetto, anche se sembrava molto difficile in quel momento tornare in mare, era tutto molto incerto. Perché non sapevamo se i porti sarebbero rimasti chiusi alle navi umanitarie”. Quando è stato deciso di tornare a operare nel Mediterraneo, Harrison si è occupato dell’equipaggiamento della Ocean Viking.

La nave è stata allestita pensando alla possibilità di restare per molti giorni senza l’assegnazione del porto di sbarco: “Ci sono container per dormire al coperto, c’è la possibilità di lavare i vestiti, sono piccole cose, ma sono le uniche che le persone soccorse hanno quando ricominciano la loro vita. Poi hanno la possibilità di fare la doccia, dei posti dove c’è la privacy per lavarsi”, spiega l’infermiere di Msf, originario del Maine, Stati Uniti. Ad agosto la nave è rimasta senza un porto per quindici giorni: il nuovo governo italiano non sta applicando il decreto sicurezza bis, voluto dall’esecutivo precedente, ma non l’ha nemmeno abolito.

I soccorritori non sono attivamente ostacolati, ma non sono neppure sostenuti. “Quando Msf ha cominciato questa missione l’ha fatto per segnalare che in questo momento ci sono ancora persone in stato di necessità che rischiano di morire. Se l’Europa decidesse di occuparsi di questa emergenza umanitaria credo che Msf si ritirerebbe”, conclude Harrison.

Un buco nero
Oggi la difficoltà più grande è la mancanza di coordinamento, l’assenza di informazioni e di un dispositivo di sbarco che funzioni. Anche se a Malta alla fine di settembre è stato raggiunto un accordo tra cinque paesi, il meccanismo per assegnare un porto alle navi umanitarie è ancora molto lento e a volte ci vogliono settimane perché le navi siano autorizzate ad attraccare. Inoltre le autorità europee non comunicano le coordinate delle barche in difficoltà, le uniche informazioni arrivano da un centralino di volontari europei attivo da cinque anni, Alarm Phone. “A volte sentiamo gli aerei militari che comunicano con le navi militari, ma nessuno ci risponde al telefono, nessuno ci segnala le imbarcazioni in difficoltà. Nella prima missione di salvataggio della Ocean Viking abbiamo avvistato una barca che dopo pochi minuti si è ribaltata, abbiamo soccorso molte persone. C’era un aereo militare europeo che volava sopra le nostre teste, ma per ore nessuno ci ha comunicato le coordinate dell’imbarcazione”.

Secondo Alarm Phone, nell’ultima settimana di novembre dalla Libia sono partite almeno tredici barche con 730 persone, 420 sono state portate in salvo dalle ong e dalle navi maltesi, mentre 190 sono state riportate in Libia. Il 22 novembre c’è stato un naufragio a un miglio da Lampedusa: un’imbarcazione con quasi duecento persone, partita da Zuara, si è ribaltata. Sono stati recuperati sette cadaveri, molte altre persone risultano disperse. “Eravamo vicino all’imbarcazione, abbiamo ascoltato la conversazione tra l’aereo di Frontex e le motovedette della guardia costiera, abbiamo chiesto di intervenire, ma ci hanno detto che non c’era bisogno di noi”, racconta Romaniuk.

È come se ci fosse una specie di anestesia generale che non fa più provare orrore per le morti in mare. In parte questo è legato anche alle parole che sono state usate in una battaglia soprattutto politica, scatenata negli ultimi anni proprio sul soccorso in mare, e contro le operazioni di salvataggio. “Dal punto di vista della comunicazione è diventato sempre più difficile per noi. Dobbiamo soppesare ogni cosa che diciamo o pubblichiamo, dopo la campagna di criminalizzazione dobbiamo essere molto più attenti alle parole”, spiega Avra Fialas, italocipriota, responsabile comunicazione di Sos Méditerranée. Le parole sembrano sempre meno efficaci nel raccontare quello che succede nel Mediterraneo, tutto sembra ormai consumato.

“Concentriamo la comunicazione sui fatti, cerchiamo di essere trasparenti e puntuali, non ci focalizziamo tanto sull’emotività. Gran parte della strategia punta sull’aspetto legale. Stiamo assistendo a violazioni sistematiche del diritto umanitario e del diritto marittimo e focalizziamo la nostra comunicazione su questo”. Fialas si chiede quanto l’uso eccessivo di messaggi emotivi non abbia contribuito a far prevalere nell’opinione pubblica un senso di indifferenza e di distanza dai fatti che avvengono in mare.

“Ma quanti bambini sopravvissuti dobbiamo mostrare per svegliare le coscienze? Quante foto di cadaveri? C’è la dignità delle persone da rispettare, assicurargli il controllo sulla loro immagine. Ce ne preoccupiamo come ce ne occuperemmo se fossero europei. E poi c’è il contesto generale. Certo, l’emotività tocca più persone, ma che succede sul lungo periodo?”. Il tema per Fialas riguarda tutte le organizzazioni umanitarie anche in altri contesti: spesso insistere sull’emotività invece che produrre empatia, rafforza gli stereotipi e costruisce un senso di distanza dai fatti.

“Il rischio è di comunicare quello che viene definito il white privilege, il senso di superiorità dei bianchi. Rappresentare i migranti come vittime non fa altro che rafforzare la disuguaglianza, lo squilibrio di potere, la distanza anche emotiva tra chi attraversa la frontiera illegalmente e chi è dall’altra parte del mare. Sono questioni delicate che vanno discusse e maneggiate con cura”, continua Fialas che ha una lunga esperienza alle spalle.

La posta in gioco è alta: la possibilità di raccontare ancora cosa succede al confine, i motivi per cui le persone continuano a partire nonostante il rischio altissimo di morire, le difficoltà dei soccorsi e infine la disuguaglianza strutturale che alla frontiera emerge con chiarezza, quella per cui nascere dall’altra parte del mare corrisponde a non potersi muovere liberamente.

Annalisa Camilli è stata a bordo della Ocean Viking dal 9 al 24 novembre 2019: la nave ha soccorso 215 persone ed è attraccata a Messina dopo l’attivazione del meccanismo di ricollocamento europeo.

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