16 marzo 2020 13:01

In questi giorni milioni di persone stanno cominciando a fare i conti con esistenze sospese nel tentativo di arginare la diffusione del nuovo coronavirus. In tanti stiamo imparando che ci sono mille modi di stare da soli: alcuni dolorosi, altri nuovi, qualcuno inaspettato. I mezzi di informazione, i social network e i messaggi nelle chat ne registrano le sfumature. C’è chi passa le giornate cercando di arginare le perdite di un lavoro che non ha più, o che si è ridotto di molto; chi si deve inventare il modo per passare il tempo insieme a bambini piccoli; chi è anziano e aspetta che qualcuno lo vada a trovare perché è meglio che non esca; chi guarda film, legge libri, ascolta album (e chi ne scrive); chi organizza concerti dai balconi, chi chiacchiere su Skype o WhatsApp; chi registra video umorali, chi clip ironici; e c’è chi è solo e passeggia intorno a un tavolo.

Benício è solo in un altro modo. Seduto su una panchina di piazza dei Siculi, nel quartiere di San Lorenzo, a Roma, si gode gli ultimi raggi di sole di un pomeriggio di metà marzo. Alza gli occhi ai rami secchi dei tigli sopra la sua testa e dice che è stata una buona giornata, calda, silenziosa, ma che la temperatura scenderà. Se è così attento alla temperatura è perché la notte la passerà qui. Lo fa da quando un anno fa è arrivato dal Brasile. “La situazione era diventata insostenibile”, dice, “da troppo tempo c’era una persecuzione contro di me”. Benício (il nome è di fantasia) è nato in un piccolo centro a nord di Rio De Janeiro, dove poi ha studiato per diventare ingegnere informatico. Dice che la persecuzione contro di lui è cominciata quando aveva 13 anni. Dopo la laurea ha lavorato per un po’, ma piano piano ha mollato tutto e con i soldi che aveva è venuto in Italia. Oggi ha 34 anni e indossa una mascherina. “Me l’ha data un amico”, dice, “ma sto bene, me la metto per precauzione”. Sa del Covid-19 e cerca di proteggersi come può. “Mi lavo le mani il più possibile, ma per strada è difficile stare puliti”. Ci sono stati giorni in cui le parole e i discorsi che gli uscivano di bocca erano avviluppati nel delirio persecutorio, ma ora sembra stare meglio. È stanco, però, dopo molti mesi è riuscito a rifare il passaporto che gli avevano rubato e ora spera che il fratello gli mandi dei soldi per tornare nel suo paese.

Benício è uno tra i 14mila e i 16mila senzatetto che vivono a Roma. Uno dei 50mila che si trovano in Italia. Nei giorni in cui il paese ha chiuso i battenti, come si dice, lui è rimasto chiuso fuori. Le organizzazioni, le associazioni, i volontari e gli operatori del terzo settore si stanno riorganizzando per evitare che molte persone come lui restino da sole, ma non è semplice. C’è una serie di limiti difficili da superare: le mense devono rispettare la distanza di almeno un metro tra le persone, e tante non ce la fanno; molti dormitori hanno deciso di non aprire le porte a nuovi ospiti; chi distribuisce vestiti ha preferito sospendere la raccolta.

E poi c’è un paradosso: anzi due, che i paradossi non vengono mai da soli. Alle persone che presentano sintomi di infezioni respiratorie e febbre è chiesto di rivolgersi al proprio medico e seguirne le indicazioni. Spesso si deve stare a casa, in quarantena. Ma per stare a casa, bisogna averne una. E tantissime delle persone che vivono per strada oltre al fatto di non averne una non hanno neanche una residenza, e dunque non possono avere un medico. È un pezzo della solitudine generale che vive il paese, ma a differenza di altri, questo pezzo è quasi completamente tagliato fuori dal racconto collettivo.

La misura della vicinanza
A Binario 95 ogni giorno passano circa 70 senzatetto. Aperto nel 2009 in uno spazio concesso dalle Ferrovie dello stato, il centro a pochi passi dalla stazione Termini ha al pian terreno un’area dove si mangia o si guarda la tv e si riposa, una dove si possono fare dei laboratori, una per le docce e una dove si dorme. Al piano di sopra ci sono gli uffici, mentre all’ingresso ci sono dei tavolini a cui ci si appoggia per fare due chiacchiere o fumare una sigaretta, un piccolo magazzino per i vestiti usati e due biliardini.

“Ci siamo dovuti riorganizzare in fretta per non lasciare indietro nessuno”, spiega Alessandro Radicchi, fondatore del centro e direttore dell’Osservatorio nazionale della solidarietà nelle stazioni italiane. Per tante persone la struttura, i suoi operatori e i volontari sono gli unici ripari dalla solitudine. “Non possiamo permetterci di chiudere”, dice Radicchi, “anche se per farlo stiamo facendo i salti mortali”. Il centro offre tre servizi: l’accoglienza diurna, durante la quale oltre al pranzo si fanno laboratori e attività; l’accoglienza notturna, con una decina di posti singoli dove le persone possono dormire, non in una camerata; e le docce.

“Per ognuno di questi spazi abbiamo dovuto riflettere su cosa fare”, dice Radicchi. “Intanto abbiamo dovuto fermare i nuovi possibili ingressi. Ci spiace, ma non riusciamo a controllare tutti, anche perché siamo meno, i volontari in questi giorni preferiscono non venire, e noi dobbiamo proteggere sia i nostri operatori sia i nostri ospiti. Per le docce facciamo entrare le persone solo quando abbiamo ripulito e disinfettato, il che vuol dire dopo ogni doccia, e questo allunga i tempi oltre le quattro ore previste”. Radicchi resta un attimo in silenzio: “Pazienza, dovevamo scegliere tra questo o dire alle persone ‘tornate domani’, abbiamo scelto di lavorare di più, gratis”. Per il pranzo, mentre prima si mangiava tutti insieme in due stanze, ora si fanno più turni. L’ospitalità notturna è abbastanza protetta, le persone che dormono lì li conoscono da tempo e ora stanno cercando di convincerli a restare anche durante il giorno. “Non sono obbligati, naturalmente, ma a tutte le persone che vengono da noi e che conosciamo stiamo dicendo di restare il più possibile, se escono e rientrano gli chiediamo dove sono stati e come si sentono, se c’è bisogno gli misuriamo la febbre. E poi li informiamo, li consigliamo, cerchiamo di fargli sentire la nostra vicinanza”.

Campo de’ fiori, Roma, 15 marzo 2020. (Alessandro Serrano, Agf)

La paura di tanti è quella di sempre, e cioè di trovarsi ai margini di ogni discorso, e di essere perciò sacrificabili. “Cerchiamo di fargli capire che ci siamo quando hanno bisogno”, dice Radicchi. “L’altro giorno uno dei nostri ospiti aveva la febbre a 39,5, era molto spaventato. Abbiamo dovuto insistere un po’ con il 118 per far venire l’ambulanza, ma alla fine sono venuti, gli hanno fatto il tampone e per fortuna era negativo”.

Il fatto è che il corpo di chi vive per strada è una tela fragile, lacerata e indebolita da malattie accumulate negli anni, molte delle quali croniche e curate poco e male. La privazione di sonno, le dipendenze e la fame hanno conseguenze che alcuni ricercatori statunitensi hanno definito “devastanti”.

Radicchi ha lanciato un appello al comune di Roma per “predisporre dei luoghi dedicati alla quarantena di chi una casa non ce l’ha”. La domanda che si fa insieme agli altri è: cosa succede se uno degli ospiti si ammala? Intanto, cercano di contenere il più possibile. Un’associazione di volontari realizza un gel disinfettante per le mani e glielo regala, ma avrebbero bisogno di più mascherine e prodotti per l’igiene: “Chi volesse darci una mano trova il modo per farlo sul nostro sito”.

La sera per le strade
Lunedì 9 marzo sulla chat dei volontari della comunità di Sant’Egidio arriva il messaggio di un ragazzo che partecipa alla distribuzione di cibo e coperte a chi vive per strada: “È vietato ritrovarsi in gruppo, si viene ancora?”, chiede il ragazzo. Risponde Salvatore Stella, uno dei coordinatori del giro che la comunità fa ogni martedì sera in molti quartieri intorno alla stazione Termini: “Avremo tutti le mascherine e prepareremo prima di partire delle buste con panini, pasta e frutta. Il giro dovrà essere il più rapido possibile e dovrà essere fatto nel rispetto delle distanze tra una persona e l’altra”.

Il gruppo si ritrova alle 20.30 di martedì 10 marzo. In piazza Indipendenza arrivano panini, frutta, tè caldo e coperte. I volontari indossano tutti le mascherine, si scambiano saluti e raccomandazioni, e si dividono in gruppi di tre per ogni zona. Come ogni settimana raggiungeranno le persone più fragili tra i senzatetto, quelli che hanno deciso di stare da soli o in piccoli gruppi, in angoli anche piuttosto nascosti della città. C’è chi si spingerà fino all’ingresso di villa Borghese, chi nei sottopassaggi vicino a piazza Fiume, chi sotto ai portici di piazza della Repubblica e chi nel quartiere di San Lorenzo.

Qui i volontari incontrano una giovane donna di Civitavecchia che dorme davanti all’ostello della Caritas, nella speranza che si liberi un posto e la lascino entrare. Accetta la frutta e i panini, e chiede: “Me ne lasciate due anche per domani? Non si sa mai”. La chiusura dei ristoranti non è un brutto colpo solo per chi lavora nella ristorazione. Le ricadute si fanno sentire anche sui senzatetto. Prima qualche trattoria o pizzeria regalava qualcosa a chi vive per strada, e per tanti era un appuntamento e un sollievo. Ora quella possibilità non esiste più.

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In via Marsala c’è una famiglia nigeriana appena arrivata, non si sa come, da Malta. Madre, padre e tre bambini sotto ai dieci anni sono costretti a passare la notte in un androne. La sala operativa sociale, aperta sette giorni su sette, 24 ore su 24, dice che non ci sono posti per ospitarli, neanche per i più piccoli.

Come loro, lungo il marciapiede che porta alla stazione, sono tante le persone che sono rimaste tagliate fuori. Sono giovani, per lo più africani, stesi uno accanto all’altro. I volontari di sant’Egidio gli spiegano cosa sta succedendo nel paese, perché non tutti sanno che è in corso un’emergenza e quali sono le precauzioni da prendere. Qualcuno ha tradotto le istruzioni del ministero della salute e qualcun altro distribuisce gel disinfettanti. Dicono a tutti che la mensa gestita dalla comunità in via Dandolo, nel quartiere Trastevere, è ancora aperta e ci si può andare tre volte a settimana.

La struttura accoglie in media trecento persone al giorno. I volontari usano la mascherina e invitano chi arriva a rispettare le distanze di sicurezza quando si è in fila, a sedersi massimo in tre ai tavoli più grandi e a lavarsi bene le mani prima di mangiare. Chi vuole può portarsi via il cibo. Dopodiché, alla fine dei pasti, si pulisce e si disinfetta tutto. La comunità tiene aperti anche i propri centri di accoglienza, i servizi docce, quelli dove vengono distribuiti generi alimentari e i vestiti. Le attese sono più lunghe, ma tutti aspettano con pazienza.

Nelle mense e nei dormitori della Caritas
All’ingresso della Caritas in via Marsala operatori e sacerdoti distribuiscono da mangiare mentre le ultime luci del giorno si spengono sulle vicine mura Aureliane. È un’immagine insolita da queste parti. Da quando nel 1993 la mensa è stata aperta le persone sono sempre potute entrare per cenare – salvo durante alcuni lavori e ristrutturazioni. “È una decisione che abbiamo preso insieme all’azienda sanitaria locale e al comune”, spiega Alberto Colaiacomo, portavoce della Caritas di Roma.

L’organizzazione ha stabilito una serie di indicazioni che valgono anche per le parrocchie che accolgono le persone in difficoltà. “Intanto, la raccolta dei vestiti è sospesa. Mentre per quanto riguarda le mense, possono entrare solo gli anziani e le persone che hanno una qualche disabilità. Li aiutiamo e li facciamo sedere il più possibile lontano tra loro. Agli altri il pasto è consegnato fuori”, dice Colaiacomo. In una di quelle storiche, aperta nel 1983 a colle Oppio, vicino al Colosseo, sono distribuiti quattrocento pranzi al giorno. Solo una ventina di persone possono entrare. In via Marsala possono mangiare dentro i 180 ospiti dell’attiguo ostello Don Luigi Di Liegro, mentre le altre 350-400 persone che ogni sera vanno a chiedere la cena possono farlo all’esterno. “La mensa però non era solo un luogo dove si mangiava”, dice Colaiacomo, “per tanti era l’occasione per usare il bagno oppure per fare due chiacchiere, scambiarsi informazioni, non stare da soli”.

“A chi dorme nella nostra struttura in via Marsala, così come ai 55 che lo fanno in quella di Ostia e ai 92 tra anziani e disabili che vivono nella cittadella della carità in via Casilina Vecchia, abbiamo chiesto di non uscire. Abbiamo messo più tv e stiamo provando ad aprire due centri in due istituti religiosi per trasferirci le persone più fragili e alleggerire le altre strutture”, spiega Colaiacomo. In alcune parrocchie dove erano stati allestiti degli spazi per l’emergenza freddo ci si sta riorganizzando. “In un istituto religioso prima dormivano in 24, ora sono in quattro. Stiamo cercando alternative per tutti”.

San Pietro, Vaticano, 15 marzo 2020. (Anna Catalano)

Chi era fuori, però, resta fuori, perché è troppo complicato gestire nuovi ingressi. “Tanti, tra loro, vengono al poliambulatorio della stazione Termini per chiedere informazioni. La richiesta è aumentata, perché chi vive per strada sa di essere più esposto e ha paura. Ci chiedono di fare i tamponi. Noi li rassicuriamo, gli chiediamo come stanno e se c’è bisogno interveniamo. In queste sere abbiamo chiamato più volte l’ambulanza per persone con febbre, ma per fortuna in nessun caso si è registrato un contagio”.

Tra i volontari, intanto, c’è chi resta a casa, e la stessa organizzazione ha invitato quelli più anziani a farlo. “È un volontariato quasi sanitario, abbiamo i prodotti per disinfettare e le mascherine, che diamo anche agli ospiti che ce le chiedono, ma dobbiamo essere cauti”, dice Colaiacomo. Tanti volontari, per esempio, lavavano a casa i vestiti e la biancheria lasciati nelle parrocchie che offrivano un servizio doccia e la possibilità di cambiarsi. “Abbiamo chiesto a tutti di non farlo più: o la parrocchia è attrezzata per farlo, con le dovute precauzioni, o ci si rivolge ai centri specializzati”.

Come in tutto il resto del paese si naviga correggendo ogni giorno la rotta, smussando le virate troppo improvvise, cercando di evitare gli scogli e di non imbarcare troppa acqua. Chi è dentro può contare sugli operatori e i volontari, chi è rimasto fuori cerca di non naufragare.

In un centro di salute mentale
Omar riposa nel suo sacco a pelo, sdraiato sotto alle finestre della Asl di via dei Frentani, nel quartiere di San Lorenzo. Sono le quattro del pomeriggio ma è già stanco e assonnato. Prima dell’estate ha dormito qualche settimana in un letto di Binario 95, ma poi ha deciso di andarsene. I posti chiusi gli scuotono i nervi, lo opprimono e gli fanno crescere la paura che gli altri lo tocchino o gli rubino le cose. L’ansia è il rumore di fondo delle sue giornate, ma c’è una cosa che lo tortura ancora di più: la presenza di persone nel suo cuore che lo perseguitano e minacciano lui e la Luna.

È una battaglia che va avanti ininterrottamente da tredici anni, da quando Omar ne aveva diciotto e ha perso il padre naturale. Da allora ha vissuto giornate storte con la madre in Marocco, settimane in clinica dagli zii in Germania, mesi per strada in giro per l’Europa. In due occasioni la solitudine si era fatta così opprimente da spingerlo a tentare il suicidio. Da quasi cinque anni vive a Roma. Da uno, dopo due ricoveri volontari nel reparto di psichiatria del policlinico Umberto I, è seguito dal centro di salute mentale di via Palestro.

Come ogni mese deve fare una puntura che lo aiuta ad attutire le voci e la tortura nel cuore. “Per me va bene”, dice, “ma non so se sono aperti”. Sa del coronavirus e delle misure prese per limitare i contagi. “Le persone mi sembra che stiano impazzendo”, dice, stropicciandosi gli occhi. Racconta che nelle ultime settimane è stato più solo. “Ma mi ha fatto bene”, dice, “ho trovato un pezzo di hashish e ho fumato, mi aiuta per l’ansia”. La verità è che da qualche settimana la curva del male che si porta dentro sembra di nuovo essere in salita, il che lo spinge ad abbandonarsi e a cercare rifugio nel sonno e nelle canne. Ma come tutti i casi non gravi, deve aspettare che la situazione migliori per poter ristabilire la routine delle visite al centro di salute mentale.

“Per il momento io vengo al centro di salute mentale ma, per limitare contatti e spostamenti, sto cercando di sentire tutti al telefono o, se possibile, anche su Skype. Ci parlo, capisco come stanno e procedo a seconda delle esigenze, incontrando comunque le persone più in difficoltà o a rischio”, dice Andrea Figà Talamanca, il dottore che lo segue e che è anche rappresentante del sindacato medici italiani. “Com’è facile immaginare, anche noi siamo molto esposti, dovremmo avere più mascherine, più protezioni, ma per ora scarseggiano”, spiega. “Naturalmente, il centro continua a funzionare, sono stati sospesi gli incontri di gruppo con le famiglie e le attività di formazione per gli operatori, ma le terapie farmacologiche vengono date regolarmente”, dice, “tuttavia è importante essere cauti, perché se ci ammaliamo noi medici rischiamo di lasciar soli molti pazienti fragili”. Per tutelare anche infermiere e infermieri ha chiesto ai volontari che danno una mano a Omar e che lo accompagneranno a fare la puntura di avvisare il centro se notano in lui sintomi influenzali, febbre o tosse.

Per lui aveva fissato anche un appuntamento con il dottor Federico Tonioni, che al policlinico Gemelli della capitale dirige un ambulatorio dedicato a chi è dipendente da cannabis. “È stato sospeso anche quello, insieme a tutte le visite ambulatoriali”, dice Talamanca, “ci dovremo riaggiornare più avanti, sperando che tutto torni presto alla normalità”.

A Omar ha fatto sapere che se vuole parlargli al telefono può usare quello di uno dei volontari. Lui ringrazia e per ora declina l’invito. Si guarda intorno, punta lo sguardo su viale Pretoriano, ma i suoi occhi non intercettano il traffico abituale che fino a pochi giorni fa sferragliava lungo la strada. “C’è un gran silenzio, in questi giorni”, dice.

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