28 novembre 2015 13:09

Il ponte sullo stretto è un’illusione, ma sulla punta della Calabria, a Villa San Giovanni, ha lasciato un segno concreto. È un tunnel ferroviario lungo poco più di un chilometro attraverso il quartiere Cannitello, all’ingresso della cittadina calabrese. Un piccolo mostro nero, perché la galleria artificiale di cemento armato è “nuda”, appena coperta di catrame. Chi arriva da Scilla e vede davanti a sé il blu dello stretto – con quelle sue onde veloci che sembrano la corrente di un fiume e la Sicilia così vicina che sembra di toccarla, le alture dei Peloritani e quando è sereno le Eolie all’orizzonte – prima s’imbatte in quel tunnel color catrame, esempio delle incongruenze italiche.

La “variante di Cannitello” doveva deviare il tracciato della ferrovia tirrenica dal punto dove era progettato il pilone calabrese del famoso ponte. O meglio: anni fa la società Ferrovie dello stato aveva studiato un nuovo tracciato per la ferrovia che correva troppo rasente le case, una variante di cinque chilometri, costo previsto otto milioni di euro. Poi il progetto è passato alla società Stretto di Messina ed è diventato un’opera “propedeutica”, il cantiere precursore del ponte, strombazzato come la “prima pietra”. Alla fine la deviazione si è ridotta a una curva, appena un quinto del tracciato originario, all’esorbitante costo di 26 milioni di euro. La “variante” è operativa dal 2012. Il tunnel però non è mai stato ricoperto. L’anno successivo la società Stretto di Messina è andata in liquidazione, e gli abitanti di Villa San Giovanni aspettano ancora di vedere il parco pubblico che doveva coprire il mostriciattolo nero, ricollegando due zone della città.

“È l’ennesima incompiuta”, commenta Nuccio Barillà, storico esponente di Legambiente in Calabria: l’ennesima opera lasciata a metà dopo aver drenato soldi pubblici. Barillà è stato assessore all’ambiente di Reggio Calabria negli anni novanta, nella giunta del sindaco Italo Falcomatà che qui è ricordato come colui che ha avviato la “primavera di Reggio”, un’epoca di risanamento e lotta agli abusivismi. Quando nomino il ponte sullo stretto, Barillà non sa se ridere o piangere: “La nostra classe dirigente evoca le grandi opere per coprire la vergogna di un sud isolato, disseminato di eterne incompiute e di problemi aperti. Fanno balenare opere spettacolari, ma non risolvono i problemi ordinari”.

Un volantino di Legambiente del 2011 già conteneva dati e cifre. Tutto già visto

Sono a Reggio Calabria per sentire che effetto fa sul posto sentir nominare il ponte sullo stretto: due settimane fa il ministro dell’interno Angelino Alfano ha detto che il ponte si farà. Ma qui trovo per lo più alzate di spalle “boutade elettorale”, o sarcasmo “di nuovo?”, e anche qualche sospetto “ogni volta che si riparla del ponte finisce in nuovi sperperi di denaro pubblico”. Un sostenitore di Legambiente, Piero Idone, mi mostra un volantino fitto di dati e cifre, titolato “Indegno e grottesco il tentativo di rilancio del costosissimo inganno del Ponte”: è datato settembre 2011. Tutto già visto.

Una risposta inattesa

A onor del vero, il premier Matteo Renzi ha ripetuto che il ponte si farà, ma ha aggiunto “prima pensiamo alle emergenze”. Allora passo alla seconda domanda: quali emergenze? Su cosa investire, invece del tonte? Trovo risposte unanimi: trasporti e dissesto del territorio. Ma soprattutto trovo una risposta che non aspettavo: sviluppare le due sponde dello Stretto come un’area metropolitana integrata.

Due passeggeri davanti lo stretto durante la traversata da Villa San Giovanni a Messina. (Fabrizio Villa, Buenavista Photo)

Reggio Calabria, Villa San Giovanni e Messina sono legate. Non solo per storia e cultura: parliamo di legami quotidiani e concreti. Ogni giorno 12mila persone attraversano lo stretto nei due sensi. Ci sono pendolari che lavorano nella città di fronte, studenti che ci vanno all’università. Messina ha 240mila abitanti, Reggio 180mila e Villa circa 15mila (distanti 12 chilometri, Reggio e Villa sono un’area urbana continua). Le due province sommate superano il milione di abitanti. I lungomare di Messina e Reggio si guardano. L’aeroporto di Reggio si chiama Aeroporto dello Stretto, in teoria serve anche Messina. “Quello che manca è un sistema di trasporti adeguato, su ciascun lato e attraverso lo stretto”, dice Nuccio Barillà: “Questo sarebbe il vero ponte, economico e culturale”.

Oggi dal porto di Reggio partono aliscafi per Messina, e viceversa: uno ogni ora e mezza, poco o nulla nelle ore serali e nei giorni festivi, nessuno di notte. Davvero troppo poco. Oppure ci sono le navi veloci e i traghetti da Villa San Giovanni, detti le “zattere”.

Il traffico ferroviario sullo stretto si è dimezzato negli ultimi dieci anni, surclassato dai voli low cost

Lasciamoci alle spalle il tunnel nero di Cannitello, e raggiungiamo il lungomare nel punto in cui le due sponde sono più vicine. Lo stretto è come una sella tra due mari: il Tirreno arriva a duemila metri di profondità, lo Jonio a tremila, qui il punto più profondo non supera i 400 metri. Per questo le correnti cambiano durante il giorno, da ascendenti a discendenti: dicono che qui il mare “respira”.

Resta solo l’inquinamento

Passata Punta Pezzo, lo stretto comincia ad allargarsi, tra mulinelli d’acqua. Ecco le gettate di cemento di un porticciolo turistico mai portato a termine: doveva essere un’opera di “protezione ambientale”, ma vedo solo moli deserti, chiusi perché manca il collaudo (un’altra “incompiuta”). Più giù, gli imbarchi della Caronte-Tourist, una delle compagnie private che monopolizzano la navigazione sullo stretto con traghetti per camion e auto. “Obsoleti e costosi”, osserva Angelo Raso, militante di Legambiente a Villa San Giovanni: “Roba anni sessanta, comprati di seconda mano”. La strada di accesso al porto passa dove una volta c’era un famoso lido, sbuca sul piazzale della stazione ferroviaria e taglia Villa San Giovanni verso la statale e l’autostrada. Ogni imbarco e sbarco riversa auto e camion attraverso l’abitato, tanto che Villa è inclusa nelle aree di emergenza ambientale per inquinamento atmosferico.

Alle spalle della stazione c’è il piazzale d’imbarco dei treni diretti in Sicilia, caricati sulle navi di Bluvia, società del Gruppo Ferrovie dello Stato. Il fascio di binari è ampio, forse una trentina di metri, permette le manovre di parecchi treni. Ma è sotto utilizzato: il traffico ferroviario sullo stretto si è dimezzato negli ultimi dieci anni, surclassato dai voli low cost. Per l’imbarco dei passeggeri ci sono passerelle sospese, dall’aspetto malandato (le vedo chiuse, oltre che senza scale mobili né ascensore).

A chiudere questo “non luogo” di moli, passerelle, binari e ruggine c’è un grande cubo color cemento, un centro commerciale dove vedo poche luci accese. A Villa San Giovanni resta solo l’inquinamento”, dice Angelo Raso. Neppure una tariffa agevolata per i residenti (la traversata in traghetto Villa-Messina costa 2,50 euro a tratta per i pedoni, 45-50 euro per le auto).

Il ponte è un’idea suggestiva, certo. Qui se ne parla da generazioni, ha accompagnato il novecento. Nei disegni il ponte è aereo, leggero, avveniristico. Ma in cosa aiuterebbe i pendolari tra Messina e Reggio, i 12 mila passaggi quotidiani? In nulla. L’immagine sarà leggera, ma implica un sistema viario imponente. Per attraversare l’ipotetico ponte, un abitante di Reggio dovrebbe imboccare l’autostrada fino a Villa e percorrere parecchi chilometri di svincoli e rampe d’accesso, per poi trovarsi sui Peloritani e fare altrettanta strada giù fino a Messina: un viaggio di una quarantina di chilometri, dove oggi una nave veloce collega i due lungomare in una ventina di minuti. Il ponte non avvicina Reggio e Messina, al contrario: le allontana.

La vera alternativa

Il ponte sullo stretto non si può fare per almeno tre ragioni, mi dice Domenico Marino, docente di economia politica all’università Mediterranea di Reggio Calabria. La prima è che “non c’è ancora tutta la tecnologia necessaria, il progetto considerato ‘definitivo’ lascia irrisolti troppi problemi: passare alla fase esecutiva oggi sarebbe impossibile”. Restano problemi formidabili, dalle oscillazioni all’effetto risonanza di un treno: se mai fosse costruito, l’ipotetico ponte non avrebbe i binari e resterebbe chiuso parecchie settimane all’anno.

La seconda ragione è che non c’è convenienza dal punto di vista dei trasporti, né sulla breve distanza né sulla lunga: per chi da Roma o dal nord vada in Sicilia o viceversa il ponte non vincerebbe la concorrenza dell’aereo o della nave. Infine, dice Marino, “il ponte non avrebbe nessuna convenienza economica: per il pareggio bisognerebbe prevedere 20 milioni di attraversamenti annui. Ma oggi i passaggi in traghetto sono meno di tre milioni all’anno, e sono in calo”.

La madonnina all’entrata del porto di Messina. (Fabrizio Villa, Buenavista Photo)

Un’opera irrealizzabile, dunque, ancor prima di considerare il rischio sismico o l’impatto ambientale su un territorio disastrato. Ma secondo l’economista riesumare il ponte è “un altro annuncio elettorale”, la realtà è che “nessuno ha mai messo i soldi veri per costruirlo”. Anche lui conclude che la vera alternativa è immaginare una città metropolitana e potenziare il trasporto marittimo.

I cittadini, spiega Nuccio Barillà, hanno chiesto che i soldi fossero usati per cose utili e più urgenti del ponte

L’ipotesi del ponte è stata sconfitta da “un movimento di popolo che ha saputo smontare le bugie”, dice Nuccio Barillà. Un movimento cresciuto progressivamente, spiega: perché all’inizio il mito della grande opera “volano per l’economia” aveva fatto presa. “Poi però, a partire dagli studi di impatto ambientale, sono emerse le falle del progetto. La grande opera è stata smontata sul terreno economico, strutturale, scientifico”. Nella rete No ponte è confluita una coalizione sociale molto ampia; il movimento contro il ponte ha tenuto insieme un cartello di associazioni, partiti e forze sociali molto diversificato. Ma era un movimento con un progetto, sottolinea Barillà, “i cittadini sono andati in piazza per chiedere che i soldi fossero usati per cose utili e più urgenti”.

Così torniamo alla domanda: su cosa investire? Barillà mi porge un elenco di proposte elaborato da Legambiente, “per rispondere al decreto sblocca Italia del governo Renzi”, spiega. I trasporti, innanzitutto. Mi parla di una “metropolitana dello stretto”, con collegamenti diretti tra l’aeroporto e Messina e un servizio continuo tra le due città, garantito dal servizio pubblico. Poi bisogna investire in una ferrovia che colleghi tutta l’area metropolitana reggina, da Villa San Giovanni fino a Melito di Porto Salvo sullo Jonio. Anche la viabilità minore ha bisogno investimenti, “nell’interno ci sono paesi vicini ma quasi irraggiungibili, basta una frana a bloccare una strada”. O magari investire in un piano di manutenzione degli edifici scolastici e messa in sicurezza antisismica.

Nell’elenco trovo poi Gioia Tauro: è tra i porti più importanti del Mediterraneo per il traffico di container, ma non ha alle spalle un retroporto attrezzato e una rete ferroviaria efficiente (Francesco Russo, assessore al sistema Gioia Tauro della regione Calabria – un raro caso di assessorato “per obiettivo”: ha competenza su tutto ciò che riguarda il porto, infrastruttura, attività produttive, trasporti o altro – ha grandi progetti per ridare competitività al porto: ma questa è un’altra storia).

Barillà fa notare che la società Stretto di Messina ha accumulato negli anni una mole di studi e dati di monitoraggio, ricerche sull’assetto idrogeologico o sismico: sono un patrimonio pubblico, “vanno tirati fuori e usati per scopi utili”. A Legambiente inoltre piacerebbe vedere lo stretto tra i siti “patrimoni dell’umanità”: spera così di salvare Scilla e Cariddi, un ecosistema delicato e un patrimonio di storia, mitologie e cultura oggi in serio pericolo (alla campagna hanno già aderito i sindaci di Reggio, Messina e Villa).

Alla fragilità del territorio si aggiunge l’avventatezza degli umani

“I due lati dello stretto hanno in comune una grande fragilità”, spiega Tonino Perna, economista e sociologo, già presidente del parco dell’Aspromonte, oggi docente universitario e assessore alla cultura al comune di Messina e abitante di Reggio Calabria (dunque anche lui un pendolare). Questo è un territorio fragile, insiste. Le città dello stretto “sono costruite su colline di sabbia”, formate da depositi di sabbie, ghiaie e materiale argilloso, poco consolidati, pronte a cedere e liquefarsi con le scosse sismiche (e il rischio sismico è alto: qui è avvenuto il terremoto più disastroso del secolo scorso, quello che nel 1908 che ha distrutto Messina e Reggio). La fragilità è accentuata dall’abbandono di molte zone interne, perché “per curare un territorio bisogna abitarlo”. Da questo nasce il dissesto idrogeologico: questa è una zona dove le piogge si trasformano facilmente in alluvioni e frane (Perna insiste che in tempi di cambiamento climatico le piogge torrenziali sono evento sempre più frequente con cui fare i conti).

Non basta spostare soldi, serve un porgetto culturale

Alla fragilità del territorio si aggiunge l’avventatezza degli umani. Per rendersene conto è utile risalire una delle fiumare che scendono dall’Aspromonte su Reggio Calabria – si chiamano così quei corsi d’acqua, di solito brevi e con un letto largo e ciottoloso, spesso secchi ma pronti a trasformarsi in torrenti impetuosi d’inverno, o quando piove. Fiumara dell’Annunziata: la parte bassa è interrata, “intubata”, ci passa sopra una strada. Poi ricompare, ma ecco quattro scheletri di cemento, proprio accanto all’argine. Sono gli edifici della Casa dello studente, rimasta incompiuta perché i costi sono lievitati ma anche perché sono sorte questioni su quell’idea di metterli nel greto del torrente.

“Abbiamo fiumare chiuse dal cemento, invase da costruzioni abusive o da strade”, continua Nuccio Barillà: così quando piove molto i canali sono ostruiti e l’acqua non trova sfogo. Lo chiama “il sacco delle fiumare”. Spiega che si contano duemila abusi edilizi nella sola provincia di Reggio Calabria, ma parla anche di un “abusivismo legalizzato”, costruzioni che sorgono con permessi e licenze dove non dovrebbero. Però, spiega, migliaia di ordinanze di demolizione di opere abusive non sono eseguite per mancanza di fondi e di volontà amministrativa.

“Per curare un territorio in dissesto bisogna abitarlo”, insiste Tonino Perna. Anche lui è convinto che gli investimenti più urgenti siano un sistema di trasporti adeguato all’area metropolitana dello stretto e opere per rimediare al dissesto del territorio. “Ma temo che non basti spostare soldi, se non c’è un progetto culturale, sociale e politico”. Siamo seduti sul bel lungomare di Reggio, tra giganteschi alberi tropicali degni di un orto botanico, Messina di fronte e l’Etna giù a chiudere l’orizzonte. Per un attimo nella luce del tramonto vedo i vaporetti di Istanbul, che fanno la spola sul Bosforo e il Corno d’Oro come autobus d’acqua (le distanze sono paragonabili), e provo a immaginare la metropoli dello stretto.

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