05 maggio 2022 09:54

È bastato un commento “scomodo” su un foglio locale a mettere nei guai Martha Olivia López Medellín, giornalista a Matamoros, nello stato di Tamaulipas, Messico settentrionale. López aveva scritto che una dirigente del sindacato in quella cittadina al confine con il Texas era in carica da vent’anni ininterrotti, adombrando una gestione clientelare. Succedeva nel 2011: “Pochi giorni dopo sono stata avvicinata da uomini del cartello Zeta che mi hanno detto di lasciar perdere quella storia, altrimenti io e mia figlia saremmo state stuprate e uccise”.

López non era eccessivamente stupita che una figura istituzionale (in Messico il sindacato è legato al governo) fosse “protetta” dalla criminalità organizzata e in ogni caso sapeva che la minaccia era realistica: così ha preso la figlia e ha cercato riparo a Città del Messico. Per alcuni anni è rimasta là, desplazada, dice lei: sfollata, lo stesso termine che si potrebbe usare per chi ha perso il tetto dopo un terremoto. Qui però il terremoto sono le minacce di ritorsioni verso una cronista che dà fastidio a persone di potere, ai cartelli criminali, o a entrambi.

Il suo caso non è unico. Anzi, è piuttosto comune. Article 19, organizzazione internazionale per “la libertà di parola e di essere informati”, ha documentato i casi di 153 giornalisti uccisi per il proprio lavoro in Messico dal 2000 a oggi, per lo più cronisti e corrispondenti locali. La situazione si è fatta più preoccupante nell’ultimo decennio e continua ad aggravarsi: sette reporter sono stati uccisi nel 2021, otto solo nei primi tre mesi di quest’anno.

L’organizzazione internazionale Committee to protect journalists conta inoltre decine di giornalisti scomparsi, quindici solo nel 2022. Prelevati da sconosciuti, sono spariti senza lasciare traccia. Poi ci sono infiniti casi di minacce e intimidazioni che spingono decine di reporter di zone difficili a cercare rifugio nella relativa sicurezza di Città del Messico, se non all’estero. Non è un’esagerazione definirlo il paese più pericoloso del mondo per chi fa informazione. Di recente se ne sono allarmati sia l’Unione europea sia l’ufficio per la libertà di espressione dell’Organizzazione degli stati americani.

Non rassegnarsi al silenzio
In Messico però sono nate reti e collettivi di giornalisti che hanno cominciato a reagire. Gruppi che si mobilitano in aiuto dei colleghi minacciati e “sfollati”, per denunciare le intimidazioni e sviluppare insieme un lavoro di indagine e d’informazione. Riuniscono giornalisti di testate locali e nazionali, su carta o sul web oppure radio comunitarie. “Fare rete è la nostra vera speranza”, dice Martha Olivia López, incontrata a Città del Messico in occasione di un Tribunale popolare sull’uccisione di giornalisti (un evento organizzato da Reporters sans frontières, Committee to protect journalists e Free press unlimited, con l’organizzazione messicana Propuesta civica e il Tribunale permanente dei popoli). Un incontro in cui è emerso che una nuova generazione di giornalisti, e molto spesso giornaliste, non si rassegna al silenzio.

La prima rete, la più antica, è Periodistas de a pie, giornalisti a piedi, nata nel 2007 a Città del Messico. “Ci siamo chiamate così perché scrivevamo di povertà e questioni sociali”, spiega Marcela Turati Muñoz, una delle cofondatrici. Erano per lo più donne; scrivevano in diverse testate, nazionali e locali; volevano sviluppare un giornalismo capace di indagare sulla realtà sociale messicana. Turati allora scriveva da Ciudad Juárez, nel nord dello stato di Chihuahua, per il settimanale Proceso, una rivista nazionale molto impegnata. Presto però le giornaliste “a piedi” hanno dovuto occuparsi anche di come difendere il proprio lavoro.

“La violenza aveva cominciato a travolgere il paese”, ricorda Turati, che descrive una progressiva militarizzazione della vita pubblica: “La ‘guerra al narcotraffico’ dichiarata dal governo aveva prodotto un aumento di violenza impressionante”. All’inizio sono stati presi di mira i cronisti che si occupavano di criminalità, operazioni di polizia, scontri a fuoco, o delle rappresaglie dei narcotrafficanti: ormai la vecchia “cronaca nera” era diventata una vera e propria guerra. Ma troppa attenzione dei mezzi d’informazione dava fastidio ai governi statali, che volevano negare la violenza.

“Abbiamo cominciato a organizzare corsi di formazione su come fare inchiesta, come narrare la violenza dal punto di vista delle vittime, sui diritti umani, oltre che sulla sicurezza digitale e su come organizzarci di fronte alle minacce crescenti”, spiega Turati. Invitavano giornalisti dalla Colombia per conoscere la loro esperienza di conflitto armato interno al paese, o dal Cile che si batteva per la democrazia. “Ai nostri corsi a Città del Messico arrivavano cronisti da stati come Guerrero, Michoacán o Veracruz, e ci raccontavano che ormai sia i militari sia i cartelli gli davano ordini su cosa scrivere e cosa tacere”.

In Messico l’85 per cento degli omicidi di giornalisti negli ultimi vent’anni è rimasto senza soluzione

Dagli stati settentrionali confinanti con gli Stati Uniti, la violenza legata al narcotraffico e alla militarizzazione si andava estendendo ad altri stati nel centro del paese, e colpiva ormai tutti i giornalisti e commentatori, come anche attivisti sociali e dei diritti umani. Lo stato di Veracruz, con il porto omonimo, era diventato tra i più pericolosi. Nel 2011 è stato ucciso Miguel Ángel López Velasco, fondatore di un giornale locale su cui scriveva articoli molto critici sul governatore dell’epoca (in seguito arrestato per corruzione).

Da allora la violenza si è moltiplicata. Marcela Turati ricorda un momento spartiacque: l’aprile 2012, quando la giornalista Regina Martinez Pérez viene uccisa davanti a casa sua a Xalapa, nel Veracruz. Martinez era molto nota per le sue indagini sulla corruzione e la collusione tra politici e cartelli criminali; scriveva per un quotidiano di Veracruz e per il settimanale Proceso: “Era la prima volta che colpivano una giornalista di una testata nazionale, e che non si occupava di cronaca nera ma di indagini politiche e sociali. Da allora abbiamo visto arrivare nella capitale decine di reporter che fuggivano da minacce di morte nei loro stati”.

Senza colpevoli né mandanti
Periodistas de a pie ha cominciato a organizzare denunce pubbliche e raccolte di fondi per i giornalisti costretti alla fuga: “A volte artisti solidali ci regalavano disegni, caricature o foto che offrivamo in vendite pubbliche”, ricorda Turati. Hanno cercato l’appoggio di altre organizzazioni nazionali e internazionali per la libertà di stampa e organizzato marce per giornalisti e giornaliste scomparsi. Sono andati in gruppo a Xalapa nel primo anniversario della morte di Regina Martinez: “Abbiamo trovato colleghi che da allora vivevano rinchiusi nella paura”. Nel 2014, dopo la scomparsa e uccisione di Gregorio Jiménez nel Veracruz, “abbiamo affittato un autobus e abbiamo organizzato una missione di indagine sulle circostanze dell’omicidio”. Il gruppo ha parlato con la famiglia e i colleghi dell’ucciso; ha analizzato i suoi lavori per capire chi poteva volerlo morto; ha intervistato le autorità e il pubblico ministero locale. “Volevamo dimostrare che le indagini si possono fare”, spiega Turati.

Il fatto è che l’85 per cento degli omicidi di giornalisti degli ultimi vent’anni è rimasto senza soluzione, spiega Sara Mendiola, avvocata di Propuesta civica, rete di giuristi che fornisce aiuto legale a giornalisti e difensori dei diritti umani sotto attacco. Spesso non si fanno indagini sulla scena del crimine, le minacce pregresse restano ignorate, le indagini si trascinano senza esito: di rado si trova un colpevole, tantomeno un mandante. Secondo la giornalista investigativa Anabel Hernández tutto ciò discende da un sistema politico fondato su clientelismo e scambi di favori e da un sistema giudiziario che non ha alcuna indipendenza dal potere esecutivo. Secondo Hernández i giornalisti sono l’unico contrappeso a questi poteri collusi, e perciò sono presi di mira. “Non sappiamo chi siano gli assassini. Ma sappiamo che le intimidazioni vengono più spesso dalle autorità pubbliche che dai cartelli criminali”, dice Hernandez.

Sta di fatto che la missione dei Periodistas de a pie a Veracruz non è passata inosservata, racconta Turati: “Al ritorno a Città del Messico mi hanno minacciato, e per qualche mese ho dovuto lasciare il paese”.

Intanto però diversi gruppi di reporter locali avevano cominciato a rompere il silenzio. “Quando il cronista di un giornale locale riceve minacce, spesso il suo direttore smette di farlo lavorare per non avere problemi con i poteri del luogo”, osserva Patricia Mayorga, giornalista a Chihuahua, capitale dello stato omonimo, anche lei nella rete Periodistas de a pie. A volte un giornale locale è legato agli interessi in gioco; a volte semplicemente non vuole rischiare.

“Succede che il cartello locale della criminalità offra a un reporter 500 dollari mensili per scrivere, o più spesso non scrivere, certe notizie”

Corrispondente del settimanale Proceso, Patricia Mayorga ha scritto sui legami tra il Partito rivoluzionario istituzionale (Pri, che ha monopolizzato a lungo il potere nel paese) e i cartelli del crimine organizzato. Ha subìto minacce, ma la situazione per lei è diventata davvero critica nel marzo del 2017, quando la sua collega e amica Miroslava Breach Velducea è stata uccisa davanti a casa propria, a Chihuahua. “Miroslava scriveva di corruzione e di questioni sociali”, racconta Mayorga, raccontava i conflitti provocati dall’estrazione di risorse naturali, le terre sottratte agli agricoltori della Sierra Tarahumara di cui era originaria, storie di lavoratori e di contadini, o di come un boss della delinquenza locale aveva imposto ai municipi rurali i suoi candidati.

È un esempio di quella che Mayorga definisce narco-politica, la commistione tra l’amministrazione pubblica, i partiti e i cartelli criminali. “Lei scriveva per giornali locali ma era anche la corrispondente di un quotidiano nazionale, La Jornada; riusciva a far uscire notizie che nessuno in Chihuahua osava pubblicare”. Dopo la sua uccisione, Mayorga si è lasciata convincere ad andare via ed è stata per tre anni desplazada fuori del Messico.

Uccisioni e intimidazioni puntano a imporre il silenzio. Eppure, osserva Mayorga, “abbiamo cominciato a vedere giornalisti che fondano magazine online per continuare il loro lavoro”. Nel Chihuahua c’è la rete Libre Periodismo, giornalismo libero. A Puebla è nato Lato B, giornale online creato da reporter che non avevano più spazio sui giornali locali. A Oaxaca, capitale dello stato omonimo, Pagina 3 compie ora dieci anni di vita. Iniziative indipendenti sempre sul filo della sopravvivenza finanziaria, però resistono. “In ogni stato dove un giornalista noto è stato minacciato o colpito, sono sorte reti per proteggere i giornalisti e i mezzi d’informazione indipendenti che si oppongono al silenzio. E quasi sempre sono guidati da donne”, osserva Turati.

Una protesta dei giornalisti a San Cristóbal de Las Casas, 5 marzo 2022. (Artur Widak, NurPhoto/Getty Images)

“A uccidere i giornalisti è anche la precarietà del lavoro”, commenta Martha Olivia López, che è tornata a Matamoros tre anni dopo esserne fuggita, quando ha saputo che gli autori delle minacce contro di lei non c’erano più. Conduce trasmissioni in streaming su YouTube o Facebook con decine di migliaia di ascoltatori (anche se per vivere fa un altro lavoro, ammette). Parla di cronisti locali pagati sei o settemila pesos mensili, meno di 350 euro, una miseria. “Infatti molti fanno due o tre lavori per vivere. Però succede che il cartello locale della criminalità offra a un reporter 500 dollari mensili per scrivere, o più spesso non scrivere, certe notizie. Chi paga comanda: a quel punto il vero padrone è il narco, non il direttore. Anche perché l’alternativa è chiara, i soldi o il piombo”.

Il Tamaulipas, che confina con il Texas e si affaccia sul golfo del Messico, è una delle principali vie di passaggio verso gli Stati Uniti, attraversato dal traffico di droga e dalle carovane di migranti: e i cartelli criminali hanno lucrato su entrambi. “Dal 2000 sono stati uccisi 22 giornalisti locali”, spiega López. A volte per motivi futili: un boss che non ha gradito la cronaca della festa di compleanno dei suoi bambini, o troppe domande formulate durante una conferenza stampa. “Così il Tamaulipas è diventato uno stato del silenzio”.

La truppa del giornalismo
Neppure qui però il silenzio è totale. Martha Olivia López è una delle tre coordinatrici di Reporteras en guardia, rete che riunisce un centinaio di giornaliste in tutto il Messico. Si definiscono “la truppa del giornalismo”, redattrici o free lance, o comunicatrici delle comunità indigene e delle radio comunitarie. “Volevamo dare visibilità al punto di vista di genere, indigeno, del Messico rurale oltre che urbano”, dice López. Tutto è nato intorno all’idea di scrivere un libro sull’attacco alle giornaliste, spiega.

“Invece che un libro, alla fine abbiamo creato un sito web dove raccogliere i nomi e le storie dei comunicatori attaccati, uccisi, scomparsi”. Il sito si chiama mataranadie, “uccidere nessuno”; raccoglie oltre settanta profili di donne e uomini uccisi nel fare il proprio lavoro, alcune figure note e altre semisconosciute, inclusi blogger e persone che comunicano sui social media: “Per noi sono tutti giornalisti”. Di ciascuno raccontano la vita, il lavoro, lo stato delle indagini “e anche i chiaroscuri, perché non vogliamo beatificare nessuno. Non abbiamo le risorse per fare corsi di formazione o altro, ma vogliamo dare un nome e un volto a tutti, salvare i nostri compagni dall’oblio”.

Anche Griselda Triana, giornalista nello stato di Sinaloa, si considera desplazada. Il terremoto, per lei, è stato l’assassinio di suo marito Javier Valdez, giornalista e fondatore del settimanale Ríodoce a Culiacán, nello stato di Sinaloa. Valdez era anche il corrispondente del quotidiano La Jornada, e aveva scritto diversi libri sulla criminalità organizzata in Messico. “Diceva che a lui interessavano le persone, voleva raccontare le storie di chi era coinvolto nel narcotraffico e delle loro vittime”. Durante una sanguinosa guerra di successione al comando del cartello criminale di Sinaloa, Valdez aveva intervistato il figlio di uno dei boss in conflitto, “un giovane a cui piaceva ostentare donne e auto di lusso ma non aveva doti di comando, e ne ha scritto un ritratto”. Pochi giorni dopo Valdez è stato ucciso.

Sulla base degli elementi dell’indagine, Triana è convinta che a condannarlo sia stato proprio quel ritratto di giovane boss dissoluto. Però, dice Triana, suo marito era noto e il giornale per cui scriveva ha aiutato la famiglia. Ma cosa succede quando la vittima è uno sconosciuto? Così ha cominciato a contattare le famiglie di cronisti uccisi o scomparsi, e ora stanno formando un’associazione: “Molte di loro sono rimaste isolate e sotto shock, senza aiuto materiale – spesso quello del marito ucciso era l’unico reddito – né sostegno morale”.

Ancora una rete: questa è nata nelle università. Era il 2017, il bollettino dei giornalisti uccisi e scomparsi non si fermava. Le università erano in allarme, il collegio accademico ha emesso un comunicato contro la violenza verso i giornalisti. “Non era solo una questione di solidarietà”, nota Margarita Zires, docente di comunicazione e politica all’Università autonoma metropolitana (Uam) di Città del Messico-Xochimilco: “La violenza ha travolto la società e anche i ricercatori universitari ne fanno le spese. Non osiamo mandare studenti e dottorandi a fare indagini sul campo, dopo che alcuni sono stati attaccati”.

E però, dice Zires, attaccare l’informazione, la comunicazione, la ricerca, significa attaccare la libertà di pensiero. Così è nata una Rete per la libertà di espressione contro la violenza ai comunicatori, formata da diverse università messicane per denunciare le intimidazioni e sostenere il lavoro di ricercatori e giornalisti. È nato anche un altro giornale online, Corriente alterna, animato da studenti e giovani giornalisti.

Così, il paese dove un giornalista può finire ucciso perché ha dato fastidio a un boss criminale o ha indagato su malaffari e collusioni, è anche quello dove i giornalisti – o più spesso le giornaliste – hanno imparato ad aiutarsi e lavorare insieme. Perché, come dice Patricia Mayorga, “chi si rassegna al silenzio, in fondo ne è complice”.

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