07 aprile 2022 12:56

Trent’anni fa cominciava la guerra di Bosnia. Non sono pochi. In trent’anni l’Italia è passata dal referendum sulla monarchia a quello sul divorzio, l’Europa dalle macerie di guerra agli anni più liberi e opulenti della sua storia. In Bosnia il tempo di guerra si è impigliato per sempre nei palazzi bucherellati di Sarajevo, nelle case scoperchiate a meridione del fiume Sava, in un’architettura istituzionale che sembra unire tre popoli solo per separarli meglio.

A trent’anni dall’inizio del conflitto e a ventisette dagli accordi di Dayton che ne decretarono la fine, bosgnacchi (bosniaci musulmani), croati e serbi hanno un unico stato ma due repubbliche e mezzo: una per i serbi, una per i bosgnacchi e i croati e una agognata dai croati che vorrebbero mettersi in proprio. La fratellanza e l’unità che, volenti o nolenti, professavano tutti i cittadini dell’ex Jugoslavia è svanita senza residui: lungo la Drina o nella Krajina bosniaca la guerra civile è stata talmente violenta che trent’anni non sono bastati nemmeno per recuperare i corpi di tutte le vittime.

Nel settembre del 2016 una fossa comune restituisce un sacco nero con le spoglie del reporter Kjašif Smajlović. Intervistata da Balkan Insight, la figlia Alma dice una cosa che dà la misura di un dopoguerra infinito: “Ecco perché non avevamo mai trovato un osso di mio padre, era tutto qua”. Quasi fosse un privilegio, recuperarne il cadavere integro. Smajlović aveva 51 anni ed era il corrispondente locale di Oslobođenje, il coraggioso quotidiano che aiutò i sarajevesi ad attraversare i 1.425 giorni dell’assedio. Paramilitari serbi, molto probabilmente agli ordini del comandante Arkan, alias Željko Ražnatović, lo uccisero il 9 aprile 1992. Esattamente trent’anni fa, fu il primo giornalista a cadere nella guerra di Bosnia.

A seconda delle fonti, varia molto il conteggio dei reporter uccisi nei tre anni del conflitto bosniaco: il Mediacentar di Sarajevo parla di un numero tra 34 e 52, il Committee to protect journalists ne conta 19, nel loro recente, documentatissimo saggio Maledetta Sarajevo (Neri Pozza) Francesco Battistini e Marzio Mian fanno i nomi di 25 giornalisti uccisi tra l’aprile del 1992 e il settembre del 1995. Ci sono tanti bosniaci ma anche italiani, europei, statunitensi.

L’assedio di Sarajevo e la guerra di Bosnia atterrirono e appassionarono il mondo intero. Ma il primo a cadere, Kjašif Smajlović, non era un reporter di guerra. Nelle foto di famiglia dà l’impressione di essere un uomo felicemente sedentario, sorridente, ironico, istintivamente ben disposto verso chi gli sta di fronte. Il figlio Nedim oggi vive in Austria, a Linz, e non ha bisogno di molte parole per indicare le coordinate esistenziali del padre: “Amava il giornalismo, la famiglia, gli amici”. Da anni copriva il basso corso della Drina, la regione tra Srebrenica, Bratunac e Zvornik, che da idilliaca contrada fuori mano si sarebbe presto trasformata in epicentro del conflitto.

Kjašif Smajlović. (Mediacentar)

Smajlović non aveva la febbre da inviato, e non cercava la guerra. Fu la guerra a trovare lui: tracimò in Bosnia dai campi di battaglia croati e in pochissimi giorni si allargò dappertutto. A Zvornik la guerra arrivò per abbattere la “moschea del fiume” e costruire nuove chiese ortodosse che avrebbero riconsacrato le terre conquistate dai “turchi” mezzo millennio prima. Ma arrivò soprattutto perché alle truppe di Arkan, di Radovan Karadžić e di Slobodan Milošević facevano gola i ponti sulla Drina che collegavano la Bosnia alla Serbia, ovvero il teatro degli scontri, all’immensa retrovia che non avrebbe mai smesso di fornire uomini, armi, coperture ideologiche e diplomatiche: “Ventiquattro anni dopo la sua morte, il corpo di mio padre è stato ritrovato in un sacco con il marchio dell’esercito jugoslavo”, dice Nedim. Nel primo giorno di guerra gli abitanti di Zvornik fecero un drammatico appello all’Armata popolare jugoslava affinché li difendesse dalle milizie serbe che stavano entrando in città. Non sapevano che i comandi di Belgrado si erano già schierati al loro fianco.

Accadde tutto in meno di ventiquattr’ore: “Alle 9.55 dell’8 aprile dalla sponda opposta della Drina fu lanciata la prima granata, poi fu un delirio di esplosioni fino a sera”, ricorda Nedim Smajlović. Il migliore amico di Kjašif era serbo e lavorava come responsabile marketing di Oslobođenje: “Erano due giorni che non andava in ufficio e poche ore prima dell’inizio degli scontri parlò con mio padre al telefono: ‘Scusa se non ti ho avvisato ma mi sono spostato in Serbia, preferisco stare un po’ lontano da Zvornik’”. Anche il miglior amico di Nedim era serbo, aveva un negozio in centro ma quel giorno lasciò le serrande abbassate: “Se ne andarono in tantissimi, li avevano avvertiti dell’attacco e non ci dissero niente”. Nedim e il suo amico serbo avevano un terzo grande amico, musulmano come gli Smajlović: “Lo catturarono i primissimi giorni di guerra”, ricorda Nedim. “Era in fila con gli altri prigionieri quando vide passare il nostro amico serbo che già vestiva la divisa dei paramilitari. Alla fine si salvò, oggi vive a Tuzla, ma non ha mai dimenticato che nel momento del bisogno il suo amico fraterno fece finta di non conoscerlo”.

La guerra scoppia all’improvviso e all’improvviso recide legami annodati in un’intima sequela di scuole elementari, medie, superiori e molto altro.

Se se ne fosse andato anche lui, chi avrebbe raccontato quel disastro? Proprio per questo lo uccisero

Intanto, sotto le bombe, Kjašif Smajlović non smette di lavorare: il giorno della sua morte Oslobođenje ha in pagina le sue corrispondenze del giorno prima. Racconta dell’ultimatum serbo, dell’appello dei civili che invocano la protezione dall’esercito e dell’arresto di quattro miliziani di Arkan da parte di un ultimo brandello di autorità costituita. In quest’ultimo articolo Kjašif probabilmente parla di quelli che saranno i suoi assassini. Non fa in tempo a scrivere che erano stati rilasciati la sera stessa, ma fornisce un’ultima prova di disperato rigore professionale: elenca nome e mestiere degli arrestati, ma ci tiene a riportare anche le loro ragioni. I quattro di Arkan dicono di essere a Zvornik “per impedire ai musulmani di armarsi”. È il suo ultimo articolo prima di essere travolto da una mattanza che, solo a Zvornik, farà quasi tremila vittime civili ritrovate in decine di fosse comuni del circondario.

Per Kjašif la guerra dura pochissimo, da mattina a mattina: “Ci eravamo visti la sera prima, gli avevo detto che me ne sarei andato, gli chiesi cosa pensasse di fare”, ricorda il figlio. “Mi disse che sarebbe rimasto. E che se fosse sparito i suoi colleghi avrebbero saputo scoprire la verità”. È un giornalista. Non ha armi, non combatte, non scappa. La mattina dopo è di nuovo al lavoro: c’è tanto da raccontare, bisogna farlo in fretta, perché la guerra corre e ogni minuto è una notizia. Prova a chiamare l’ufficio centrale di Sarajevo, ma l’assedio è cominciato anche lì, la comunicazione è interrotta. Allora chiama Tuzla.

Risponde Selveta “Sele” Ahmedinović, storica segretaria della sede di corrispondenza di Oslobođenje. Kjašif non sa che mentre lui compone il numero della collega una jeep con tre militari si è già fermata davanti al suo ufficio. Detta il suo ultimo dispaccio: raffiche, granate, la caduta di Zvornik tra esplosioni continue. E poi le sue ultime parole: “Muoviti Sele, scrivi più in fretta. Ho paura che stiano venendo a prendermi. Sento i loro passi sulle scale. Ho paura che questa sarà la mia ultima comunicazione”. Kjašif Smajlović viene ucciso la mattina del 9 aprile 1992, la famiglia lo saprà solo due settimane più tardi: “Ma capimmo presto cos’era successo: con mia madre eravamo riparati in Serbia, dall’altra parte del fiume, e da lì vedemmo i camion pieni di cadaveri che lasciavano la città accompagnati dagli scavatori”. Alla segretaria terrorizzata che chiede perché non sia scappato, Kjašif risponde “Sono un giornalista”. Se se ne fosse andato anche lui, chi avrebbe raccontato quel disastro? Proprio per questo lo uccisero: “Appena entrati in città gli uomini di Arkan si fiondarono verso il suo ufficio”, racconta Nedim. “Sapevano che la pulizia etnica sarebbe stata cruenta e non volevano testimoni”.

Come la guerra di Bosnia non fu semplicemente una guerra ma un massacro, così l’assassinio di Kjašif non fu solo un assassinio ma uno scempio: da subito si disse che l’avevano torturato prima di ucciderlo, per anni si rincorsero voci secondo cui prima di sparargli gli avevano spaccato in testa la macchina per scrivere. Non era solo un musulmano ma un giornalista, andava soppresso con gli strumenti del suo mestiere. Il ritrovamento del corpo ha rivelato che oltre a sei colpi d’arma da fuoco al petto e al bacino, Kjašif subì lo sfondamento del cranio. Gli furono spezzate le dita delle mani: “Una vicina aveva visto tutto dalla finestra e ci descrisse una scena di brutalità assoluta” spiega Nedim. “Gli esami sul cadavere hanno confermato il racconto”.

Nessuno ha mai pagato per la morte di Kjašif Smajlović. Nessuno è stato inquisito né condannato, nessuno ha mai chiesto perdono per il suo assassinio. E nella città in cui è stato ucciso, ormai a stragrande maggioranza serba, nulla ricorda la sua vita di coraggioso reporter: non una strada, una scuola, una targa. Assolutamente nulla. Ma a cinquanta chilometri da Zvornik, poco prima che la Drina vada a ingrossare l’acqua grande della Sava, sorge Bijelijina, che per numero di abitanti è il secondo centro della Republika Srpska di Bosnia. Nei suoi ultimi articoli per Oslobođenje Kjašif Smajlović fece in tempo a registrare la presa della città da parte dei paramilitari serbi, gli stessi che poi l’avrebbero ucciso. Ecco, a Zvornik nessuno ricorda la vittima, ma a Bijelijina la strada principale è dedicata ai carnefici. Di più: via Guardia Volontaria Serba, nome ufficiale delle tigri di Arkan, confluisce in piazza Draža Mihailović, leader dei cetnici nella seconda guerra mondiale.

Non si dovrebbe sopravvalutare il peso della toponomastica. Ma qui i pieni e i vuoti sembrano comporre quasi un manifesto, un’assurda autocondanna: da queste parti niente pace, solo rabbiosi intervalli tra una guerra e l’altra.

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