Nadia Palumbo rientra nel suo piccolo appartamento a Fuorigrotta, quartiere nella zona ovest di Napoli, quando sono da poco passate le due del pomeriggio. Il suo turno è finito da venti minuti. In circostanze normali ci avrebbe messo anche un’ora per tornare a casa con l’autobus, ma in questi giorni la Riviera di Chiaia – la strada che collega il quartiere chic di Napoli dove lavora con l’area flegrea, e quindi anche con Fuorigrotta – è deserta.

Palumbo fa la cuoca in un collegio privato, ma è anche un’attivista. Da molto tempo gestisce la segreteria della scuola di calcio della Lokomotiv Flegrea, un collettivo che da sette anni mette in pratica l’idea di uno sport accessibile a tutti, lavorando con un centinaio di famiglie dei quartieri popolari nella periferia ovest della città. Da qualche giorno Palumbo è impegnata anche su un altro fronte. Riceve e cataloga le telefonate di aiuto che le arrivano dalle famiglie in difficoltà e le smista ai volontari di Area Flegrea solidale, un gruppo che mette insieme gli attivisti della Lokomotiv, quelli di Iskra – un altro collettivo del quartiere – e di villa Medusa, una casa del popolo prima occupata e poi data in gestione a un’assemblea di cittadini.

Davanti alla scrivania, Palumbo si accende una sigaretta e tra una telefonata e l’altra racconta com’è nata quest’iniziativa. “Abbiamo unito le forze”, spiega, “per dare supporto a chi ne ha bisogno. Ma non facciamo elemosina né beneficenza. L’idea è quella di dimostrare che la rete di solidarietà in quartieri come il nostro riesce a dare risposte forti, mentre alle istituzioni chiediamo quelle per la casa, un’occupazione dignitosa, la bonifica dell’ex area industriale”.

A casa di chi ha più bisogno
In Campania, secondo gli ultimi dati forniti dalla protezione civile, le persone risultate positive al covid-19 sono 3.058 a fronte di 24.526 tamponi esaminati. Quasi il trenta per cento dei contagiati vive a Napoli. In città, com’era prevedibile, le ricadute per chi era già in difficoltà – disoccupati, disabili, anziani, malati psichici, immigrati – sono state immediate.

In questo contesto, la macchina messa in piedi dall’Area Flegrea solidale sembra funzionare. Ogni sera tre o quattro ragazzi recuperano i prodotti che gli abitanti di Bagnoli, Fuorigrotta e Cavalleggeri lasciano in appositi carrelli nei supermercati; oppure ritirano sacchetti della spesa pieni di latte, patate, pasta e passate di pomodoro a casa di chi vuol dare il suo contributo.

Dopo aver diviso i prodotti e trascritto gli indirizzi, i sacchetti vengono caricati su un pulmino blu elettrico. All’ora di pranzo, oppure nel tardo pomeriggio, comincia la distribuzione tra le strade silenziose e deserte.

Tra le persone che ricevono la spesa c’è Emilia Celentano, che abita ad Agnano, quartiere di periferia accanto a Bagnoli. La donna apre la porta di casa con un sorriso e due ragazzi di Area Flegrea solidale le consegnano i sacchetti.

Celentano ha 37 anni, è una ragazza madre, vive con i figli di dodici e sei anni e con il padre Giovanni, guardia giurata in un condominio. Lei, quando può, lavora come collaboratrice domestica. “Qui la normalità non esiste”, dice, “è già dura andare avanti giorno per giorno, ma ora che non lavoro da un mese facciamo fatica a vivere in quattro, con un solo stipendio che tra l’altro non è ancora arrivato. Io non ho un contratto e non ho diritto a nessun aiuto da parte dello stato. Ma sono quelli come noi, che non hanno nulla da parte, ad avere più bisogno”.

“In questo quartiere è sempre esistita una rete di mutuo sostegno. Gli operai dell’Italsider si aiutavano l’uno con l’altro”

Area Flegrea solidale non è l’unica iniziativa di questo tipo a Napoli. Ce ne sono anche a Quarto e a Pozzuoli. A Bagnoli – nel quartiere di quella che è stata per decenni la fabbrica più importante dell’Italia del sud – sono stati in tanti a organizzarsi, dai circoli religiosi (come quello dei devoti della Madonna dell’Arco) fino ai consorzi di commercianti.

“Probabilmente non è un caso”, spiega Enrico Paone, che fa parte dei Disoccupati organizzati 7 novembre. “In questo quartiere è sempre esistita una rete di mutuo sostegno. Gli operai dell’Italsider si aiutavano l’uno con l’altro: chi era bravo con le tubazioni riparava una perdita in casa, poi magari riceveva aiuto da un altro operaio che era un bravo elettricista”, dice.

Intanto, il mondo intorno è cambiato. “Negli ultimi trent’anni la distanza delle istituzioni, la mancanza di lavoro e l’aumento degli affitti hanno impoverito il tessuto sociale. Non c’è da rimpiangere la fabbrica, che ha devastato il territorio, ma qualcosa di positivo è rimasto nel dna del quartiere, dove ancora oggi le persone provano ad aiutarsi”.

Una sanità al limite
Oltre che sulle fasce più deboli della popolazione, l’emergenza si sta facendo sentire anche sul sistema sanitario della città. “I problemi che c’erano prima sono stati aggravati da questa situazione, la pandemia ha messo in evidenza il fatto che il sistema sanitario, sia a livello nazionale sia a livello regionale, è stato lentamente smantellato”, dice Davide Secone, medico del 118 che lavora sulle ambulanze tra Napoli e Giugliano.

“La retorica da stato di guerra, molto forte in Campania, nasconde la consapevolezza delle difficoltà, a cominciare dalla mancanza di posti in terapia intensiva, tagliati senza esitazione in questi anni. Nella nostra regione una maggiore diffusione del virus farebbe danni incalcolabili, e chi ci governa questo lo sa bene”.

Secone saluta l’autista e l’infermiere che saliranno con lui sull’ambulanza. “La situazione comincia a essere un po’ più gestibile. Ma durante le prime settimane è stata dura: non siamo stati formati per utilizzare i dispositivi di protezione individuale, che comunque hanno cominciato a scarseggiare molto in fretta, non ci sono stati protocolli chiari per gli interventi, né per i ricoveri. È facile dipingerci come eroi, sarebbe più opportuno che chi fa il nostro lavoro venisse tutelato, nell’emergenza e nel quotidiano”.

Sono le otto di sera a Bagnoli. Il silenzio è irreale per un quartiere come questo. Mahinda arriva fuori del portone del palazzo. Preferisce non farsi vedere dagli altri inquilini mentre gli viene consegnato il pacco con dentro la spesa raccolta per lei da Area Flegrea solidale.

“Da quando siamo arrivati dallo Sri Lanka, dieci anni fa, ce l’abbiamo sempre fatta da soli”, dice. Ha tre figli e con sua moglie tre volte a settimana si prende cura di una coppia di anziani del quartiere. “Da inizio marzo non lavoro e se non lavoriamo non mangiamo”, dice sorridendo ai due attivisti. Uno di loro, Lorenzo Amicuzi, lo rassicura e lo saluta.

Anche lui, da qualche giorno, è a casa. Ha venticinque anni, fa il facchino alla Tnt di Teverola, in provincia di Caserta, ed è un delegato del sindacato autonomo SiCobas. Nel suo stabilimento si è lavorato fino a metà marzo. Poi, dopo una serie di proteste e astensioni dal lavoro, gli operai hanno ottenuto la cassa integrazione all’ottanta per cento e una divisione in turni che garantisce a tutti più sicurezza sul posto di lavoro.

Mentre Amicuzi continua il suo giro, Nadia Palumbo riordina gli appunti presi su diversi fogli e prepara le liste per formare i pacchi che saranno riempiti il giorno dopo. Fa una pausa per affacciarsi alla finestra. In giro non c’è quasi nessuno, così come nel resto del quartiere. Finito l’impegno da attivista fa mente locale su quello che le servirà l’indomani mattina, quando dovrà andare a lavoro. Sceglie i vestiti, un gesto solito, quotidiano. E poi fa qualcosa di nuovo, qualcosa che fino a poco tempo fa nessuno faceva: prende guanti e mascherina e li mette accanto ai vestiti. Non dovrà dimenticarli prima di uscire.

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