07 maggio 2020 11:48

La sera del 15 marzo Roma era deserta. Nella piazza centrale di Testaccio, nel cuore della capitale, gli ultimi clienti si affrettavano a uscire dal supermercato in chiusura, evitando un venditore di rose all’ingresso. Le serrande del bar Linari erano abbassate, i negozi chiusi, il quartiere immerso nel buio. Un’unica insegna era ancora accesa in via Rubattino, quella del ristorante che aveva inaugurato solo una settimana prima. Accanto, tante saracinesche erano abbassate già da tempo, i cartelli “Vendesi” e “Affittasi” ingialliti. Oggi in Italia un’impresa su tre potrebbe non riaprire, secondo Confesercenti.

Dall’inizio del confinamento il centro di Roma ha registrato un calo di presenze del 70 per cento. Ma la verità è che con 15.700 appartamenti affittati ai turisti su Airbnb, il centro era già “vuoto”. Se a Testaccio si vede ancora qualcuno, altri rioni sono deserti.

I molti negozi e le case su Airbnb non sono gli unici spazi vuoti a Roma. Secondo i dati del ministero dell’economia nella capitale ci sono 722 beni di proprietà pubblica con fini istituzionali inutilizzati; mentre quelli residenziali e commerciali sono 6.539. A loro si sommano costruzioni mai terminate, ex aree industriali da bonificare, ex depositi, ex caserme, aree ferroviarie, cinema chiusi, ex ospedali. Tanti erano in attesa di trovare nuovi acquirenti e nuovi usi. Ma qualcosa non ha funzionato, almeno non per tutti, e ora la pandemia rischia di peggiorare la situazione.

Negli ultimi anni Roma si è affidata a un’economia basata sempre più sul turismo, sugli eventi e sulla presenza di milioni di persone che passavano qualche notte in città, persone che se lo potevano permettere.

Parallelamente, le istituzioni hanno coltivato un modello di rigenerazione urbana che avrebbe dovuto ridare nuova vita agli edifici pubblici in vendita, ma che ha creato più che altro realtà effimere, spesso estranee ai quartieri dove sono nate, con scarsi benefici per gli abitanti, e che in alcuni casi hanno funzionato solo per i grandi investitori intenzionati ad aprire alberghi di lusso nella capitale. Ora, con il crollo di questo modello di crescita, la capitale è una città di spazi vuoti.

L’ospedale Forlanini, chiuso dal 2015, era un’eccellenza nella cura delle malattie polmonari

Uno di questi è l’ex ospedale Forlanini, nella zona sudovest. Lo spazio è tornato sotto i riflettori con l’emergenza covid-19 quando una petizione per la sua riapertura ha raccolto oltre centomila firme in pochi giorni. L’ospedale, chiuso dal 2015 per via dei tagli alla sanità, era storicamente un polo di eccellenza per la cura delle malattie polmonari e poteva ospitare fino a duemila degenti. Il complesso, proprietà della regione Lazio, è immerso in un parco di 28 ettari che riproduce la forma dell’apparato respiratorio degli esseri umani, percorso da dieci chilometri di sentieri. Dall’atrio monumentale si accedeva a cliniche e laboratori, ma all’interno c’erano anche una scuola, un’emittente radiofonica, due teatri, un cinema, sale di lettura, due chiese. Il polo ospedaliero era una città nella città.

Nel 2016 la regione si preparava a venderlo per settanta milioni di euro. “Senza il nostro impegno la delibera sarebbe passata inosservata” sostiene Francesca Perri, promotrice del coordinamento dei comitati e delle associazioni di cittadini per il Forlanini bene comune, operatrice del 118 e sindacalista Anaao-Anmos, ora in prima linea contro la diffusione del nuovo coronavirus. Il coordinamento ha presentato un ricorso al tribunale amministrativo regionale (Tar). “Abbiamo chiesto di destinare il Forlanini a servizi sociosanitari. Il parco potrebbe essere aperto tutti i giorni per gli abitanti del quartiere, molti sono anziani e ci sono pochi spazi per loro”, sostiene Perri. Nel 2017 la regione è tornata sui suoi passi annunciando uno stanziamento di 250 milioni di euro per la conversione del complesso in un polo della pubblica amministrazione. Ma il progetto è fermo.

Nel giugno 2019 la regione ha affittato parte degli spazi, diecimila metri quadri di parco e l’atrio, a un’azienda che si occupa di eventi e ristorazione, la Attimo fuggente srl: 140 euro al giorno per ettaro. “Il più grande spazio abbandonato di Roma torna a vivere. Una parte dei suoi complessivi 170mila metri quadri sta ritornando alla cittadinanza romana, con una manifestazione temporanea nelle aree esterne e non, che vedrà la cultura protagonista“, annunciava la Attimo fuggente, in cui compare uno dei soci della Dead poets society, un’azienda a cui arriveremo tra poco e che ha un ruolo centrale in un’altra vicenda.

Nel parco sono comparsi un bar, un palco, cinque biliardini, un furgoncino vintage per la vendita di panini, sedie e tavolini per l’aperitivo, spazi per fare ginnastica e yoga, uno schermo per il cinema all’aperto. L’atrio ha ospitato eventi, mostre, mercatini e serate di musica elettronica con ingresso a pagamento. Il biglietto per la serata di Halloween costava 15 euro, una birra cinque euro. L’ex ospedale era stato ribattezzato, semplicemente, Ex Forlanini. Gli eventi sono durati fino a dicembre. Oggi l’ex ospedale è di nuovo chiuso e non si hanno informazioni sul suo futuro. “Abbiamo chiesto perché, durante l’emergenza sanitaria, la regione Lazio ha preferito investire in una struttura privata come la Columbus, invece di ristrutturare almeno un padiglione del Forlanini”, dice Perri. Il Coordinamento continua a chiedere che almeno il parco, un polmone verde nel centro di Roma, torni disponibile per la città e per i suoi abitanti, come spazio sicuro in questa pandemia destinata a durare.

Rigenerare per chi?
Ogni anno il ministero dell’economia annuncia ambiziosi piani di vendita del patrimonio pubblico per fare cassa. Ma molti degli immobili e delle aree restano invenduti, vuoti e chiusi. Così, negli ultimi anni, la valorizzazione economica di parte del patrimonio, ma anche di interi quartieri un tempo popolari, è stata affidata ad aziende di marketing, eventi e ristorazione, che vi organizzano iniziative temporanee, culturali e di altro genere. L’obiettivo dichiarato è “rigenerare” parti di territorio. La domanda è: “Per chi?”.

A Ostiense, primo quartiere industriale di Roma, i murales sono comparsi sugli edifici nel 2010, quando ha preso il via l’Outdoor festival, una manifestazione di street art curata da Nufactory, un’agenzia di comunicazione, con “l’intento di contribuire al cambiamento del tessuto sociale della città attraverso azioni di carattere culturale”, come si legge sul sito. Nufactory realizza “progetti di comunicazione e branding, format di intrattenimento e iniziative legate alla musica e alle arti visive”. Tra i suoi clienti ci sono Google, Eni, Campari, RedBull, il comune di Roma, la regione Lazio, la presidenza del consiglio dei ministri.

Villa Borghese, 14 marzo 2020. (Antonio Masiello, Getty Images)

Quattro anni di interventi artistici hanno dato vita, si legge sul sito, “alla creazione del primo street art district di Roma”. Oggi molte delle facciate dei palazzi sono decorate con murales, alcune sono dotate di telecamere di sorveglianza. Un nuovo complesso residenziale di case di lusso, Portofluviale71, ha da poco cambiato lo skyline del quartiere.

Alla fine del 2014 il festival di street art è approdato negli hangar dell’ex Dogana, nel quartiere un tempo popolare di San Lorenzo, a pochi passi dalla stazione Termini. L’ex scalo merci, un esempio di architettura industriale di inizio novecento, è chiuso dal 2007 e l’area di 23mila metri quadri è stata ceduta a Cassa depositi e prestiti per la vendita. “Nel 2014 la stampa parlava di una possibile conversione dell’ex Dogana in un centro commerciale Esselunga”, ricorda Gigliola Cultrera, insegnante in pensione e attiva nel comitato progetto urbano San Lorenzo. “Ci opponevamo al centro commerciale perché il quartiere ha subìto uno stravolgimento violentissimo negli ultimi anni per via di progetti privati. A San Lorenzo mancano servizi pubblici per tutte le fasce di età: spazi per lo sport, spazi verdi, luoghi per lo studio, insomma spazi di aggregazione non commerciali”.

In tanti protestarono contro l’ipotesi del centro commerciale, ed Esselunga aprì altrove. Tuttavia, le proposte dei cittadini per l’ex Dogana sono rimaste inascoltate. Con la fine del festival di street art, Cassa depositi e prestiti ha affittato l’ex Dogana a un’azienda che organizza eventi, la Dead poets society. Per tre anni ci hanno fatto feste di musica techno, mercatini, cineforum e sagre. L’ingresso agli eventi, pubblicizzati per restituire lo spazio al quartiere, costava tra i dieci e i venti euro. In realtà, lo spazio non è stato restituito al quartiere, ma “rigenerato” per essere venduto al miglior offerente.

L’iter di privatizzazione della ex Dogana si è sbloccato quando, nel marzo 2017, The student hotel, la catena di alberghi olandese, ha annunciato un investimento di 90 milioni di euro per l’apertura di una sua struttura nell’area . “La street art e gli eventi sono stati funzionali all’operazione immobiliare che lì si vuole realizzare”, dice Rossella Marchini, architetta, parte della Libera repubblica di San Lorenzo. “Ancor prima di conoscere cosa se ne sarebbe fatto, bisognava costruire la domanda attraverso la produzione di una narrazione, di un linguaggio, di un’immagine”.

Dopo Firenze e Bologna – e un progetto in corso a Torino – la catena The student hotel aprirà anche a Roma, dunque. Nell’area dell’ex Dogana è prevista la costruzione di 490 stanze e servizi privati: una piscina, un ristorante, un bar, una sala giochi, una palestra, un garage e una flotta di biciclette per “studenti, viaggiatori, professionisti digitali, nomadi creativi, spiriti imprenditoriali”, si legge sul sito.

Affitti di lusso
A pochi passi dall’ex Dogana, nel 2019 per le strade di San Lorenzo sono comparsi quattro grandi murales. L’ultimo a essere inaugurato, a pochi passi dall’ingresso della prima università di Roma, si chiama Kidz are the future. Cinque figure umane sono allineate, immobili e nitide, su uno sfondo arancione. Una, maschile e dal volto inespressivo, apre la fila. Porta una coppola azzurra, baffi, pizzetto e occhiali dalla montatura tonda. Larghe pennellate di vernice blu compongono la scritta “Human rights”. Il murale è stato commissionato dal costruttore Paolo Barletta. “Mi auguro che la sensibilità, la creatività e il talento dei giovani artisti contribuiscano sempre di più a donare una nuova fisionomia all’intero quartiere”, ha dichiarato Barletta.

In via De Lollis, di fronte al grande murale, il gruppo Barletta sta completando la costruzione di un edificio che ospiterà una Soho house, esclusiva catena alberghiera nata a Londra come “club di soci privato per persone dell’industria creativa”. Un’altra opera di street art colora il muro di cinta del cantiere, si chiama Eden effect, perché l’edificio sarà “a basso impatto ambientale”. La prima idea era quella di costruirci degli appartamenti di lusso, ma molte case sono rimaste invendute, e così quelle cubature stanno diventando una Soho house. L’edificio conterà 32 camere e 40 appartamenti, due ristoranti, una spa e una piscina sul tetto. L’edificio accanto, un tempo occupato da famiglie in emergenza abitativa, è diventato un residence. Prima della pandemia gli appartamenti si potevano affittare per brevi periodi, su portali come Booking, oppure mensilmente. Quelli “premium”, i trilocali, costavano 1.800 euro al mese. Qualche strada più giù c’è il terzo dei murales commissionati da Barletta. Si intitola C’è posto per tutti, nessuno escluso ed è il frutto di un concorso ideato dal costruttore per promuovere l’etica, il talento e la meritocrazia.

Le aree dismesse ed ex industriali sono spesso presentate come ‘distretti creativi’

Oltre al ramo immobiliare, Barletta – tramite Alchimia spa – investe in marchi come quelli di Chiara Ferragni ed è azionista della Billionaire life, fondata da Flavio Briatore. Palazzo Donà Giovannelli a Venezia, comprato dal suo gruppo, ha ospitato nel settembre 2019 una festa su invito per il lancio del documentario su Ferragni. Nel 2022 qui sarebbe prevista l’apertura di un hotel di lusso.

Come Barletta ha intuito, lo sfruttamento e la “rigenerazione” di spazi già esistenti nelle grandi città – così come la costruzione di nuovi immobili – è sempre più legata a narrazioni, alla creazione di marchi e contenuti immateriali. Le aree dismesse ed ex industriali, da trasformare in zone residenziali private e di pregio, sono spesso presentate come “distretti creativi” del consumo e della cultura, spiega Giovanni Semi, docente di sociologia all’università di Torino. “Nelle fasi di transizione si affida lo spazio a un’azienda che organizza eventi. Questo in verità non incide direttamente sull’attrattività degli asset, ma serve piuttosto a mascherare, addolcire, abbellire le operazioni di speculazione immobiliare agli occhi degli abitanti. La reinvenzione temporanea di aree demaniali vuote fa da calmiere sociale per il mondo ricreativo, fa comodo al sottobosco politico, si scambiano favori, si dà un po’ di fiato al terzo settore, si finanzia un po’ di welfare locale, e tra un aperitivo e un corso di yoga il quartiere protesta meno”.

Rilanciare il mercato immobiliare
Come si è visto con il caso dell’ex Dogana, è questa la strategia di rigenerazione urbana adottata da Cassa depositi e prestiti, che gestisce le dismissioni dell’agenzia del demanio. Tra l’altro, secondo la stessa agenzia, l’uso temporaneo degli spazi dismessi permette di “stimolare l’attivazione di processi di riuso capaci di creare valore sia direttamente sull’immobile che su tutto il contesto circostante”. Tradotto, significa rilanciare il mercato e aumentare i valori immobiliari, anche delle case circostanti. In una parola: gentrificazione. L’uso temporaneo sarebbe dunque un modo per rendere lo spazio urbano più caro ed esclusivo. Un obiettivo che sfrutta la produzione culturale ma che di culturale ha ben poco.

Un altro esempio di quello che è successo a Roma aiuta a capire meglio questo genere di operazioni. In città, Cassa depositi e prestiti ha affidato alcuni immobili all’azienda di comunicazione Ninetynine, specializzata nel “trasformare immobili in brand” e nel gestirli come “location” per eventi. L’iniziativa si chiama Urban value: “Valore e contenuti per la rigenerazione urbana”. Nella pratica la Ninetynine investe nella sistemazione degli spazi e ci organizza eventi a pagamento.

La stazione Termini, Roma, 4 maggio 2020. (Antonio Masiello, Getty Images)

Il format è nato all’ex caserma Guido Reni, nel quartiere Flaminio, dove il progetto di conversione prevede un mix di servizi e verde pubblico, residenze private e una quota di social housing, spazi commerciali e un albergo. L’iter urbanistico è durato anni e nel frattempo il Guido Reni District – come è stata rinominata la caserma – ha ospitato serate di musica elettronica, sfilate di moda, il lancio di nuovi modelli della Bmw e della Jaguar, eventi di aziende private come la SkySport, mostre come Real bodies e Lego city. Secondo la Ninetynine la gestione dell’ex caserma avrebbe generato un indotto pari a 37 milioni di euro.

La Urban Value non gestisce solo l’ex caserma. Il Palazzo degli esami a Trastevere, immobile di pregio vuoto da anni, ha ospitato numerose mostre multimediali come Alice nel paese delle meraviglie e Van Gogh alive, presentate al pubblico come “esperienze” al costo di 15 euro. Obiettivo dichiarato: “Catalizzare l’attenzione del pubblico sullo spazio per massimizzare le opportunità di cessione”. Il Palazzo degli esami, “una delle strutture più visitate d’Italia” secondo la Ninetynine, non ha ancora trovato un acquirente.

Infine, sono entrati nel pacchetto di beni gestiti dalla Ninetynine un’ex cartiera e tre rimesse Atac, rinominate RagusaOff, Prati Bus District e San Paolo Garage. Le ex rimesse, in tutto 29mila metri quadri di spazio, hanno ospitato eventi come “La città della pizza”, “Acea Expo Marathon”, fiere di design e di moda, mercatini natalizi.

Tutto è ridotto “all’idea di una riqualificazione della città delegata ad attori privati”

“Abbiamo vinto la sfida. Oggi restituiamo questi spazi alla comunità a cui auguriamo di poterne godere e di prendersene cura. Qui dentro c’è bisogno di sentire la vita. Se voi non venite, questo percorso si ferma a metà”, ha dichiarato la sindaca Virginia Raggi durante la conferenza stampa organizzata per presentare il risultato del bando per l’uso temporaneo delle ex rimesse, un appuntamento a inviti, chiuso a quella stessa comunità a cui si rivolgeva.

Le rimesse sono state date in affitto alla Ninetynine per 60mila euro per il primo anno. L’indotto generato, secondo una memoria della giunta capitolina del dicembre 2019, sarebbe di 13 milioni di euro.

Alternative da seguire
Oggi, con il crollo della mobilità internazionale, la fuga dei turisti, il ritorno a casa di molti studenti fuorisede e una fase di recessione che si prospetta devastante per molte famiglie e aziende piccole e grandi, tutti questi progetti – dalla Soho house agli spazi in vendita di Cassa depositi e prestiti, dallo Student hotel alle ex rimesse Atac – mostrano tutti i loro limiti e gli spazi potrebbero restare vuoti ancora per molti anni. In compenso, Roma non ha mai sviluppato un’economia alternativa, sebbene la stagione dei grandi eventi veltroniani sia terminata da un pezzo. Dietro il tentativo di creare un’immagine dinamica, vivace e attraente della città, Roma è rimasta immobile.

“Da tempo la città non offre opportunità, non c’è un’economia in cui integrarsi, non c’è lavoro e il costo della vita è alto: a dispetto di quanto si è voluto far credere, la capitale non è affatto attrattiva”, dice Stefano Sampaolo, economista e assessore all’urbanistica nel terzo municipio. Via Salaria, nel suo municipio, è un caso paradigmatico dell’assenza di un progetto di rigenerazione urbana capace di rilanciare il territorio. “È un asse nero, un’arteria urbana in via di desertificazione”, dice Sampaolo. Il trasferimento della sede della Sky da lì a Milano ha suscitato grande scalpore. È stata in parte motivata dall’assenza di interventi per la mobilità e la presenza lì vicino di uno dei due impianti di trattamento dei rifiuti indifferenziati di Roma che, per gravi carenze di manutenzione e senza un progetto di riconversione, ha appestato l’area per anni.

Secondo Enrico Puccini, architetto e creatore del blog Osservatorio casa Roma, “i progetti di rigenerazione urbana dovrebbero produrre impatti in termini di valore sociale, e per questo dovrebbero coinvolgere le aree più critiche della città, non quelle semicentrali che garantiscono una maggiore rendita di posizione. L’uso che oggi si fa del termine rigenerazione, vago e ambiguo, si riduce all’idea di una riqualificazione della città delegata ad attori privati”.

Più che una strategia di rigenerazione urbana, l’uso temporaneo è una strategia di marketing territoriale. “Bisogna invertire il paradigma”, sostiene Puccini, “attribuire al concetto di rigenerazione urbana prima di tutto una funzione sociale: se gli attori privati hanno saputo declinare la rigenerazione per i propri fini, il pubblico non è riuscito a contrapporvi un modello alternativo, salvo poche e piccole sperimentazioni. Tuttavia esistono fondi e strumenti che potrebbero contribuire a dare un’accezione positiva al termine rigenerazione”. Non è forse un caso se al livello nazionale le riflessioni più interessanti sono nate a partire dalle aree spopolate e abbandonate, con la strategia nazionale per le aree interne, puntando sull’attivazione e sui bisogni delle comunità locali.

A Roma esistono diverse esperienze di rigenerazione e recupero di spazi da parte di associazioni, occupazioni abitative e culturali, enti non profit. Qui sono fiorite, senza finanziamenti, sperimentazioni sociali e culturali spesso di alto livello. “Molte di queste realtà decidono di vivere al di fuori delle istituzioni e sono sotto minaccia costante di sgombero da parte delle istituzioni stesse, nonostante il ruolo fondamentale che giocano nel tessuto sociale. È proprio grazie a queste realtà che la comunità si consolida e che riesce a immaginare un orizzonte altro a quello che viene imposto”, si legge nella dedica del murale C’è posto per tutti, nessuno escluso a San Lorenzo. L’artista ha voluto dedicare la sua opera agli spazi sociali del quartiere, molti dei quali al centro di battaglie legali in corso. Peccato che il murale sia stato pagato dall’azienda che sta realizzando l’albergo di lusso.

Le relazioni, la cultura e il senso di comunità sono un valore. A costruirlo, faticosamente, ci hanno provato gli spazi sociali che a Roma sono stati sistematicamente messi sotto attacco dall’amministrazione cittadina, con multe e sgomberi, e, al tempo stesso, dal mercato, per rendere attrattivi i quartieri in via di gentrificazione. Oggi che Roma è ferma e vuota, sono questi spazi ad aiutare le persone che ne hanno più bisogno attraverso iniziative solidali nate in ogni quartiere. Questi spazi producono un valore che sopravvive anche quando il mercato crolla. Un indizio da seguire, per chi si domanda come torneremo ad abitare la città.

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