Verónica Rodríguez è seduta sulla poltrona usata anche dal marito Francisco Romero, giornalista di cronaca nera, per trasmettere in diretta su Facebook il suo giornale della sera. Dietro di lei – sul muro di casa sua a Playa del Carmen, nello stato messicano di Quintana Roo – è appeso il giubbotto antiproiettile di Romero, insieme alla bandiera con il logo di Ocurrió Aquí, la pagina di informazione locale che aveva fondato nel novembre 2018. Sulla destra c’è un altarino con candele, fiori, un crocifisso e alcuni suoi oggetti personali, tra cui la macchina fotografica che usava per lavorare.
“La sera del 15 maggio 2019 ci siamo addormentati insieme”, ricorda Rodríguez. “Alle 6.20 del mattino mi ha svegliato una telefonata. Era un suo collega: ‘Francisco è con te?’, mi ha chiesto. Mi sono alzata subito, l’ho cercato dappertutto, ma lui non c’era”. Romero alle 5 del mattino del 16 maggio era uscito di casa dopo aver ricevuto un messaggio su una possibile notizia. Arrivato davanti a un bar nella periferia sud di Playa del Carmen, ha parcheggiato la moto, ha fatto pochi passi e un uomo gli ha sparato due colpi di pistola alla testa. È morto a 28 anni lasciando un figlio di sei.
Dal 1 gennaio al 16 maggio 2019 i giornalisti uccisi in Messico erano cinque. Oggi il numero è raddoppiato. Secondo Artículo 19, ong che lavora in difesa della libertà di espressione e d’informazione, dal 1 gennaio 2019 sono stati uccisi dieci reporter, uno in più rispetto a tutto il 2018. Nel 2017 erano stati dodici. E tutto questo succede nonostante il presidente di sinistra Andrés Manuel López Obrador abbia vinto le elezioni nel 2018 grazie anche a una campagna elettorale incentrata sulla sicurezza. Durante la precedente presidenza di Enrique Peña Nieto, del Partito rivoluzionario istituzionale (Pri), che ha governato il paese per settant’anni, le aggressioni, le minacce e le intimidazioni erano state in media quattrocento all’anno. Nei primi sei mesi del 2019 sono state 249. Ma i numeri da soli non bastano a spiegare cosa sta succedendo in Messico e se le cose sono cambiate oppure no con López Obrador. Bisogna parlare con chi quotidianamente fa i conti con questa violenza.
Sul tavolo all’ingresso della sede di Artículo 19, a Città del Messico, c’è un dossier del 2011 intitolato Silencio forzado, el estado cómplice de la violencia contra la prensa (Silenzio forzato, lo stato complice della violenza contro la stampa). Ana Cristina Ruelas, direttrice dell’ong, sottolinea che “l’aumento delle aggressioni risale al 2006, quando cominciò la guerra al narcotraffico voluta dall’allora presidente Felipe Calderón negli stati dove la criminalità era più forte: Tamaulipas, Sinaloa, Coahuila, Chihuahua. Ad attaccare i giornalisti erano soprattutto i gruppi criminali. A poco a poco, quando la violenza ha toccato tutto il paese, abbiamo registrato un cambiamento: le aggressioni alla stampa provenivano soprattutto da forze dell’ordine locali e municipali”. Nessuno ha mai realmente indagato sui crimini contro i giornalisti, tanto che l’indice di impunità dei reati contro la stampa è del 99,1 per cento, secondo la Fiscalía especial de atención a delitos cometidos contra la libertad de expresión, la procura speciale che si occupa delle minacce alla libertà di espressione. “Quando uccidi un giornalista stai uccidendo anche il suo messaggio e l’impunità è la maniera perfetta per ridurlo al silenzio”, dice Ruelas.
L’impunità e i depistaggi. Ruben Romero Zamora, padre di Francisco Romero, ne è convinto: “Hanno scritto che Francisco è stato ucciso perché era legato alla criminalità, ma basta vedere in che condizioni viveva per capire che non è così”. La stanza-redazione di casa sua è l’unica con un pavimento di mattonelle. La cucina è all’aperto, coperta solo da una tettoia che si appoggia al muro della casa a fianco. Rodríguez difende il marito: “È stato ucciso per quello che scriveva. Era un bravo giornalista e non stava mai in silenzio. Ogni volta che accadeva qualcosa prendeva la moto e in dieci minuti era sul posto”. Come la sera del 13 maggio 2019, quando con il telefono ha documentato l’irruzione di un commando armato nella birreria Chapultepec, in pieno centro turistico. A terra erano rimasti un morto e undici feriti. Su Facebook c’è ancora il video con la cronaca di quell’evento, fatto da Romero 24 ore prima di essere ucciso: “Vi raccontiamo cosa sta succedendo, quello che stiamo vivendo a Playa del Carmen”.
Romero era sottoposto al programma governativo di protezione per i giornalisti. Gli era stata assegnata una scorta, ma la mattina dell’omicidio, raccontano, era uscito senza avvisarla. Il programma era cominciato nell’agosto del 2018. La pagina Facebook su cui faceva informazione, Playa News aquí y ahora, aveva sospeso le pubblicazioni nell’ottobre di quell’anno, dopo gli omicidi di un corrispondente e del direttore. José Guadalupe Chan Dzib, 35 anni, era stato ucciso con due colpi di pistola la sera del 29 giugno 2018 in un bar della cittadina maya di Felipe Carrillo Puerto, nel sud dello stato di Quintana Roo. Rubén Pat Cauich è stato raggiunto da sei proiettili fuori da un bar a Playa del Carmen all’alba del 26 luglio. Anche lui era sotto protezione. Nel giugno del 2017 aveva denunciato di essere stato minacciato e detenuto arbitrariamente dalla polizia locale, come ha ricostruito Artículo 19. Dopo la loro morte, il programma di protezione aveva trasferito Romero a Città del Messico, ma pochi mesi dopo il giornalista aveva deciso di tornare a Playa del Carmen per continuare a fare il giornalista.
La storia di Francisco Romero racconta la nuova geografia della violenza nei confronti della stampa messicana. Nei primi sei mesi del 2019 il Quintana Roo è finito in cima alla classifica degli stati con più aggressioni: 26 casi contro i dodici nello stesso periodo del 2018 e i cinque del 2017. Il fenomeno è cresciuto di pari passo con la violenza in generale nella zona. Gli omicidi sono aumentati del 300 per cento negli ultimi tre anni. E la Riviera Maya, famosa in tutto il mondo per località turistiche come Cancún o Tulum, è oggi una piazza contesa tra vari gruppi criminali.
Non è però la prima volta che i giornalisti e la libertà di stampa sono in pericolo nel Quintana Roo. Dal 2011 al 2016 ci sono stati numerosi tentativi di censura da parte del governatore Roberto Borge Angulo, anche lui del Pri, oggi in carcere con l’accusa di corruzione. “I cambi di potere a livello politico”, spiega Ruelas di Artículo 19, “generano mutamenti anche nelle strutture criminali e i giornalisti che raccontano quello che succede finiscono in mezzo a questa guerra. È successo in molti stati del Messico, ora è il turno del Quintana Roo”.
Minacce e pressioni
Pedro Canché, 49 anni, è un giornalista di origini maya, come la maggior parte della popolazione di Felipe Carrillo Puerto. “Il giorno del funerale di José Guadalupe ero al cimitero con Rubén Pat e Francisco Romero. Ricordo i loro volti distrutti. Ho avuto la sensazione che presto sarebbero stati uccisi anche loro”. Mentre Canché parla – seduto dietro alla scrivania del suo studio – Daniel, il poliziotto della scorta, aspetta in giardino. “Il narco comincia a minacciarti perché vuole che lavori per lui, che scriva quello che ti chiede”, dice Canché. Mostra dei messaggi che gli sono arrivati su WhatsApp, firmati da un presunto comandante Chayan: “Lavora per me o ti faccio esplodere il cervello”, “Non giocare o ti faccio a pezzi”, “Ti insegno una cosa. Un amico non si evita, cane”. Spiega Canché: “Lo scorso maggio gli stessi messaggi sono arrivati ad altri giornalisti. In tre abbiamo denunciato. Uno invece ha accettato e ha mandato il numero del suo conto corrente”.
Le intimidazioni sono arrivate anche attraverso le cosiddette narcomantas, lenzuola usate dai criminali per scrivere messaggi da appendere per strada, così che tutti possano leggerli. Il 27 maggio 2019 su uno di essi c’era scritto: “Questo è per il procuratore, chiudila con i Sinaloa altrimenti continueremo a uccidere gente innocente come quella della birreria (Chapultepec, ndr). A voi giornalisti Ñaca Ñaca deve servire da esempio”.
Pedro Chanché dice di non sapere “se le stesse minacce sono arrivate anche a Francisco, José e Rubén, se hanno accettato, se si sono rifiutati di collaborare o se a un certo punto hanno smesso di farlo. Non lo possiamo sapere perché sono morti. Quello che sappiamo è che dei cronisti sono stati uccisi”.
Canché ha deciso di continuare a scrivere. Non è la prima volta che la sua vita è in pericolo a causa del suo lavoro. Tra il 30 agosto 2014 e il 29 maggio 2015 ha passato 272 giorni in carcere con l’accusa di sabotaggio. Aveva raccontato la protesta della popolazione indigena di Felipe Carrillo Puerto contro l’aumento del costo per l’erogazione dell’acqua voluto dall’allora governatore Roberto Borge Angulo. “Intervistavo le persone nella nostra lingua e poi traducevo le loro parole, perché le potessero capire tutti. Non erano violenti, chiedevano solo di pagare il giusto per poter continuare a coltivare la terra”.
E aggiunge: “In carcere mi hanno picchiato, causandomi una lesione cervicale che non guarirà mai più e il cui dolore posso solo mitigare”. La sua detenzione è diventata un caso. Il 6 maggio 2015 la Commissione nazionale dei diritti umani ha riconosciuto l’inconsistenza di prove a suo carico. Il 29 maggio il tribunale federale lo ha scagionato e liberato. Neanche in carcere Canché ha smesso di fare il giornalista. Scriveva a mano su un quaderno a righe, gli appunti arrivavano ad Artículo 19 che li pubblicava in un blog, Diario de un preso de conciencia. Nell’ottobre del 2015, pochi mesi dopo la liberazione, Canché ha aperto un sito indipendente di informazione locale che porta il suo nome.
In fuga
Gonzalo Hermosillo ha invece deciso di fuggire da Cancún, dove conduceva la trasmissione radiofonica Qué pasa en Quintana Roo. Ha aperto una pizzeria nella capitale dello stato, Chetumal, città sul mare al confine con il Belize. “La prima volta che un gruppo criminale mi ha chiesto di contrattare lo ha fatto attraverso una mia fonte”, racconta. “Mi aveva detto di stare attento, ma non ci ho fatto troppo caso”, ricorda. Il 27 aprile 2019 gli è arrivato anche un messaggio sul telefono: “Ti invitiamo a lavorare per noi”. Promettevano una ricompensa economica, ma lui ha rifiutato e così lo hanno minacciato: “Morirai”, “Ti faremo a pezzi”. Un mese dopo il nome di Gonzalo Hermosillo è finito insieme a quello di Pedro Canché sulla narcomanta dove si consigliava ai giornalisti di prendere la morte di Francisco Romero come esempio. “Se un gruppo criminale scrive ‘Ti faccio a pezzi’, sai che non scherza e allora te ne vai. La speranza è che questo esilio sia solo momentaneo perché il giornalismo è una droga. So benissimo però che quando tornerò a lavorare non sarà più come prima. Non si può restare indifferenti di fronte a una minaccia di morte”. Hermosillo mette il telefono in tasca e mostra il menù di Pazzia, il nome scelto per la sua pizzeria. Il poliziotto della scorta che gli è stata assegnata dal governo ci osserva da fuori.
“Chi è sotto protezione ha una certezza, quella di essere destinato a rimanerci”. È questa una delle prove dell’inefficacia del programma secondo Jan Jařab, rappresentante dell’Alto commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite.
Come mostrano i dati contenuti nel Diagnóstico sobre el funcionamiento del mecanismo – un’analisi del meccanismo di protezione – presentato lo scorso 26 agosto da Jařab, il numero delle persone sotto protezione aumenta di mese in mese. Oggi sono 903 mentre nel 2014, quando è diventato operativo il sistema, erano 338. “Procedendo così”, spiega Jařab, “entro la fine del 2019 le persone da proteggere saranno più di mille, mentre nel 2024 più di tremila”.
Nonostante questi numeri, il personale a disposizione è fermo da cinque anni a 36 unità. Anche le risorse non sono abbastanza: nel 2018, per proteggere 800 persone sono stati spesi 257 milioni di pesos (dodici milioni di euro). Nel 2019 il governo ne ha stanziati solo 207.
“Il sistema salva molte vite”, dice Jařab. Ma non basta: “Bisogna affrontare le cause del problema e non limitarsi a contrastare i sintomi”. Il messaggio è rivolto direttamente al governo di López Obrador. “Il 55 per cento delle aggressioni, delle minacce e delle intimidazioni è commesso da agenti di polizia ma anche da esponenti delle istituzioni locali e funzionari pubblici. Questa percentuale dimostra che il governo può agire già al suo interno così da ridurre i rischi per i giornalisti”.
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