La grande onda
Ritorno in Giappone cinque anni dopo lo tsunami

di Alessia Cerantola, Emanuele Satolli, Matteo Moretti


 

L’11 marzo 2011 alle 14.46 ora locale, una scossa di terremoto di magnitudo 9 sulla scala Richter, con epicentro al largo della costa nordorientale del Giappone, ha scatenato uno tsunami alto fino a quaranta metri. L’onda è arrivata lenta e inesorabile inghiottendo intere città.

1014 scosse in 36 ore

Tsunami 11.03.2011 14:46 11/03/2011 14:46 12/03/2011 9 8 7 6 5 4 3 2 1 MAG: 6.0 - 12:33:45 - 11/03/2011 magnitudo
 

Cinque anni dopo, quel tratto di costa è ancora un cantiere a cielo aperto che si estende a perdita d’occhio per centinaia di chilometri, frenetico e polveroso. Superati i boschi disabitati che separano la costa dall’entroterra, si aprono distese di terreno fresco dove i rumori incessanti dei camion, delle ruspe e dei trapani al lavoro per la ricostruzione fanno da sottofondo e le baie odorano dell’asfalto e del legno appena piallato e verniciato. Sulle ceneri delle città e dei villaggi di pescatori spazzati via dall’acqua ne sono nati di nuovi, ma rispetto a prima c’è una differenza fondamentale: mancano gli abitanti. Quasi 15.900 persone sono morte e circa 2.500 sono scomparse. La maggior parte di chi è sopravvissuto vive ancora in case temporanee, qualcuno ha già ricevuto un alloggio definitivo e altri se ne sono andati e forse non torneranno mai più.

Memorie contrastanti

 

Shingo Ikenoya non è sempre stato un falegname. L’idea gli è venuta quando si è trovato di fronte alle montagne di detriti lasciati dall’acqua che, ritirandosi, aveva trascinato con sé la città di Ōtsuchi, nella prefettura di Iwate. Tra questi c’erano le travi delle case. Recuperandone il legno ha cominciato a costruire piccoli oggetti, poi ha imparato a costruire sedie e mobili e ha aperto un’attività. Uno dei manufatti di cui va più orgoglioso è un tempietto buddista che ha messo di fronte alle rovine dell’ex municipio della città, ridotto a uno scheletro di cemento a due piani. Tra le finestre sventrate e i pezzi di lamiera cadenti, c’è un orologio rimasto appeso con le lancette ferme. Quando l’onda arrivò il sindaco Koki Kato restò nell’edificio per coordinare l’evacuazione della città, finché non rimase inghiottito dall’acqua insieme a una quarantina di persone che si trovavano con lui.

“Questo è l’unico posto di Ōtsuchi dove gli abitanti possono venire a pregare per le persone che hanno perso”, dice Ikenoya. E c’è anche chi viene da fuori. Adesso, però, deve lottare con la nuova amministrazione e una parte della cittadinanza che vogliono distruggere il tempietto ed eliminare ogni traccia del giorno in cui la città ha perso in pochi istanti il 10 per cento dei suoi abitanti. L’11 di ogni mese Ikenoya e altre persone si ritrovano per qualche minuto di raccoglimento. “Non è ancora il momento di distruggerlo. Forse un giorno, quando la città sarà completamente ricostruita”, aggiunge.

 

“Chi viene da fuori spesso si stupisce che qui si parli ancora dello tsunami e di quello che ha lasciato”

Michiko Hirai, caposervizio dell’Hibi Shimbun
 

Più a sud, nella città di Ishinomaki, dove le vittime sono state più di 3.200, c’è un quotidiano che continua a raccontare le conseguenze del disastro e la ricostruzione. “Chi viene da fuori spesso si stupisce che qui si parli ancora dello tsunami e di quello che ha lasciato”, spiega Michiko Hirai, caposervizio dell’Hibi Shimbun. Il quotidiano era diventato popolare nei giorni successivi allo tsunami perché, senza l’elettricità e la possibilità di stampare, il direttore si era messo a scrivere il giornale a mano su un grande cartellone. Per una settimana altri sei giornalisti l’hanno aiutato a raccogliere le notizie sul disastro, dall’arrivo dei soccorsi alla situazione nelle città distrutte, e a copiare l’edizione su altrettanti fogli poi distribuiti nei rifugi temporanei degli sfollati, che cominciavano così a realizzare la portata del disastro.

Secondo Hirai il sisma e lo tsunami hanno allargato, anche attraverso i mezzi d’informazione, la spaccatura tra il governo centrale e la provincia. A Tokyo ci si occupa soprattutto di numeri e bilanci, nel nordest i protagonisti sono i sopravvissuti.

 

La ricerca continua

 

Appena tre secondi dopo la prima scossa, la più grande ma non l’unica dell’11 marzo 2011, l’agenzia meteorologica giapponese aveva lanciato l’allarme attraverso scuole, uffici, ospedali e altri luoghi pubblici. Circa nove minuti dopo è scattata anche l’allerta tsunami, che ha raggiunto in tempi e modi diversi le città costiere del Tohoku. Pur avendo avuto un po’ di tempo a disposizione, molte persone non sono riuscite a mettersi in salvo. Alcune sono salite ai piani più alti degli edifici, ma non sempre è bastato a salvarle.

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fonte: National Police Agency of Japan (Jan, 2016)

A Onagawa Yasuo Takamatsu racconta che la moglie è salita sul tetto della banca dove lavorava insieme a tredici colleghi. Dodici di loro, lei compresa, sono stati portati via dall’acqua. Ormai non spera più di rivederla viva, ma insiste per trovare almeno un oggetto o un indumento che la donna aveva con sé quando è stata travolta dall’onda. Ogni settimana mette da parte la sua divisa da conducente di autobus e indossa la muta da sommozzatore per immergersi nelle acque della baia. “Ho preso la patente da sub per cercarla”, dice mentre descrive la collezione di detriti che si trovano sul fondale, dalle automobili, ai frigoriferi, ai giocattoli. Insieme ad altre tre persone, Takamatsu ha fatto causa alla banca per aver portato i dipendenti sul tetto invece che sulla collina vicina, indicata come rifugio in caso di calamità. Ma per ora la corte ha respinto l’appello. Nella vicina città di Ishinomaki, invece, sono annegati più di 70 bambini e dieci insegnanti nella scuola elementare di Okawa, a quattro chilometri dalla costa. Anche in quel caso la decisione su come evacuare l’edificio è stata presa tardi. Mentre stavano per attraversare il ponte che li avrebbe portati al rifugio su un’altura, sono stati raggiunti da due tsunami, uno dall’oceano e uno dal fiume Kitakami, straripato a causa di una diga di detriti. Ventitré famiglie si sono unite in una causa civile per chiedere un risarcimento alla città e alla prefettura.

 

Cinque anni dopo il disastro, 60mila dei 180mila sfollati vivono ancora nei container in attesa dei nuovi alloggi. Takayuki Ueno sta ancora cercando il figlio Kotarō, tre anni, scomparso e mai più ritrovato. Accanto alla loro casa distrutta, diventata una sorta di mausoleo visitato dai gruppi e dalle scolaresche provenienti da tutto il Giappone, Ueno ne ha costruita un’altra. Dal 2011 volontari dal resto del paese arrivano per aiutarlo nella sua ricerca.

 

Pericolo radioattivo

 

Rispetto al tratto di costa più a nord, la regione di Fukushima è meno frastagliata. Anche se la forza dell’acqua è stata meno devastante, insieme al sisma ha lasciato più di 1.800 vittime. Dopo la prima forte scossa, i reattori delle centrali nucleari più vicine all’epicentro del terremoto si sono spenti automaticamente. Con alcune eccezioni, tra cui quella dell’impianto di Fukushima daiichi, sulla costa. Le onde hanno danneggiato i generatori d’energia d’emergenza bloccando il sistema di raffreddamento di tre reattori della centrale. I tentativi di raffreddare l’impianto pompando acqua marina e acido borico non sono serviti a scongiurare la parziale fusione delle barre di combustibile, mentre la pressione dei gas d’idrogeno nei reattori 1, 2 e 3 e un incendio di alcune barre di combustibile del reattore 4 hanno provocato l’uscita di materiale radioattivo.

Ancora oggi migliaia di operai della Tepco, la compagnia elettrica che gestisce la centrale, sono al lavoro per cercare di rimuovere l’acqua radioattiva, che continua a uscire dall’impianto, e smantellare i reattori danneggiati. Un’impresa che, nonostante le promesse iniziali del governo, ha un esito ancora incerto. Da allora l’intera regione di Fukushima è associata all’incidente nucleare, anche se non tutta è stata colpita dalle sue conseguenze. Subito dopo l’esplosione, intorno all’impianto è stata perimetrata una zona rossa, prima di venti e poi di trenta chilometri. Le radiazioni non si sono diffuse in modo regolare, ma hanno seguito la conformazioni del terreno e la direzione dei venti, si sono incanalate nelle valli e disperse in mare. Per questo le città più vicine al reattore, come Iwaki, hanno livelli radioattivi più bassi di altre come Koriyama, a circa 70 chilometri di distanza. I centri più vicini alla centrale come Namie, Futaba o Tomioka rimangono tutt’ora chiusi e disabitati, con alcune case gravemente danneggiate. Dopo l’ordine di evacuare le città, gli abitanti hanno portato via l’indispensabile. Tutto il resto è rimasto lì. Per evitare episodi di sciacallaggio, l’ingresso delle vie residenziali secondarie è controllato da guardie che chiedono l’autorizzazione a chiunque voglia passare.

 
 

L’obiettivo della bonifica sistematica dei terreni contaminati è rendere gradualmente accessibili le aree chiuse, sempre che i livelli di radiazioni non superino il valore di venti millisievert all’anno. In molti si chiedono se e quando queste zone torneranno a essere abitabili, ma la vera domanda è: chi sarà disposto a tornarci? Una prima risposta è arrivata da Naraha, una cittadina con più settemila abitanti che dal settembre del 2015 è tornata a essere abitabile. Ma per ora solo il 6 per cento della popolazione locale ha deciso di tornare, e per metà sono anziani. Nel nuovo asilo c’è anche una decina di bambini. “La prima impressione che ho avuto appena tornato era che questa non fosse la città in cui avevo vissuto, la sera era buio pesto, non c’erano luci, mi sembrava di essere in un altro paese”, racconta Yasuto Igari, proprietario di uno studio di design a Naraha.

Radiazioni a confronto (2011-2016)

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fonte: Safecast

 

Adesso ci sono pattuglie di polizia che controllano strade semideserte, bussano alle porte delle case occupate per fare uscire gli inquilini indesiderati. Artigiani mettono a nuovo case senza sapere se qualcuno tornerà a viverci. Operai con indosso tute integrali antiradiazioni tagliano l’erba e rimuovono lo strato superficiale di terreno. Mettono tutto in grossi sacchi neri che poi vengono sistemati in enormi cumuli ordinati lungo la costa distrutta dallo tsunami. Periodicamente questi sacchi vengono spostati, ma non è stata ancora trovata una destinazione definitiva perché nessuna regione, comprensibilmente, li vuole.

Misurazioni e muri di protezione

 

Nel 2011 Kenji Saitō ha deciso di fondare il museo dello tsunami di Ōfunato, creato per raccogliere e diffondere informazioni sullo tsunami e le sue conseguenze e tramandarne la memoria. Molte delle vittime, male informate dall’allerta, sono morte perché non pensavano che le onde sarebbero state così alte e non si sono messe in salvo sulle alture come previsto dal piano d’emergenza in caso di calamità. All’inizio la stessa agenzia meteorologica giapponese aveva sottostimato l’intensità del terremoto e l’altezza che le onde avrebbero potuto raggiungere, prevedendo un massimo di sei metri per la prefettura di Miyagi e tre per Fukushima.

 

“Oggi le case vengono costruite più in alto e si sta cercando di alzare gli argini, il disastro del 2011 è servito da lezione”, dice Saitō. Per proteggere le coste si stanno costruendo nuovi argini in 677 punti lungo le sei regioni più colpite dallo tsunami. Gli argini si estendono per 986 chilometri e sono alti tra i 5 e i 10 metri. C’è chi guarda con scetticismo a questi progetti infrastrutturali, e si chiede se, per proteggersi da un evento eccezionale come uno tsunami, sia necessario impedire per sempre la vista del mare agli abitanti delle città. Per questo in alcune località, in circa 150 punti sulla costa, si è deciso di abbassare il livello previsto dell’argine.

Oltre a preoccuparsi dell’acqua, gli amministratori e i cittadini della regione di Fukushima hanno un altro pericolo da cui guardarsi: le radiazioni. Dopo l’incidente alla centrale nucleare, molti abitanti si sono organizzati comprando contatori Geiger per rilevare le radiazioni di tipo ionizzante, quelle generate dalle reazioni nucleari. Insoddisfatti o sospettosi dei dati sulle radiazioni forniti dal governo e dalla compagnia elettrica Tepco, molti cittadini si sono organizzati per creare gruppi di monitoraggio della radioattività. Per loro era l’unico modo per decidere cosa si poteva mangiare e cosa evitare, per decidere se rimanere o andarsene.

“In quel periodo eravamo in prima linea sul fronte, e quando sei in guerra non stai tanto a pensare al da farsi: fai semplicemente quello che va fatto. E le misurazioni per noi erano quello che andava fatto”. Nel maggio del 2011 Kaori Suzuki cominciò a incontrarsi con un gruppo di donne a Iwaki, nella regione di Fukushima. Volevano capire se fosse sicuro continuare a vivere in quel posto, così cominciarono a imparare a misurare le radiazioni. Il gruppo si è allargato rapidamente e ha creato il centro Tarachine per la misurazione delle radiazioni. Oggi la struttura può contare su un laboratorio, costruito grazie alle donazioni, che è l’unico della città ad avere macchinari in grado di misurare elementi più complessi come lo stronzio e il trizio. Con gli anni hanno creato anche una clinica, dove medici volontari provenienti da altre zone del paese svolgono un lavoro di monitoraggio sulla tiroide dei bambini. L’ultimo controllo fatto da una commissione incaricata dalla prefettura di Fukushima ha scoperto cento casi di tumori alla tiroide su circa 300mila minori visitati dai medici tra il 2011 e il 2015. Stando alle statistiche al livello nazionale, i casi sarebbero dovuti essere solo due. Hokuto Hoshi, presidente della commissione, ha cercato di rassicurare spiegando che l’aumento dei casi di tumore è dovuto semplicemente ai controlli simultanei eccezionali. Ma gli abitanti della zona di Fukushima non si fidano e continuano con le loro misurazioni.

La resa dei conti

 

Durante le due cerimonie di commemorazione che si sono svolte dopo la sua elezione nel 2012, il primo ministro Shinzō Abe ha rinnovato la promessa di ricostruire la zona colpita dal disastro. Il piano di aiuti per la ricostruzione scade nel 2016, ma i lavori non sono terminati e in alcune zone sono solo all’inizio. Così il governo ha deciso di rivedere le sue stime e, a fronte dei 25mila miliardi di yen (200 miliardi di euro) spesi tra il 2011 e il 2016, ha deciso di stanziare 6.500 miliardi (più di 50 miliardi di euro) per i prossimi cinque anni.

Per quanto riguarda i lavori legati al disastro nucleare, i tempi e i costi sono più difficili da definire. Rimangono da smantellare i tre reattori della centrale di Fukushima daiichi, danneggiati dall’esplosione. Finora è stato completato il 10 per cento dei lavori e i ritardi hanno costretto gli amministratori e i tecnici a rivedere le previsioni più ottimistiche: secondo le ultime valutazioni ci vorranno almeno cinquant’anni per completare le operazioni di smantellamento. In questo contesto si inserisce lo scontro tra la Tepco e il primo ministro Abe, che chiede all’azienda un impegno maggiore. Alla fine dell’ottobre del 2015 la Tepco, duramente colpita dai costi dei risarcimenti alle vittime del disastro nucleare, ha completato una barriera di protezione sotterranea, profonda fino a trenta metri, intorno ai reattori. L’obiettivo è diminuire la quantità d’acqua – da 150 a 50 tonnellate al giorno – che dalle falde vicino alla centrale finisce nell’oceano. La barriera, costata allo stato 32 miliardi di yen (250 milioni di euro), è formata da tubi in cui scorrerà un liquido refrigerante che permetterà di congelare il terreno circostante, creando di fatto una barriera di ghiaccio lunga un chilometro e mezzo. A questo bisogna aggiungere il processo di decontaminazione della prefettura di Fukushima. Finora sono stati raccolti 9 milioni di metri cubi di terreno e polveri, chiusi nelle migliaia di sacchi neri che costeggiano il paesaggio. Ne mancano ancora 13 milioni.

 
 
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“Il primo giorno di lavoro ci hanno spiegato cosa sono le radiazioni e come fare per proteggerci. Ma gli effetti in realtà non si vedono. Ho capito solo adesso per la prima volta quanto sono pericolose, all’epoca no me ne rendevo conto”. Kazuaki Sudō è un ex operaio della Tepco che ha lavorato alla centrale di Fukushima daiichi dopo l’incidente dell’11 marzo 2011.

 
 

Le fonti energetiche in Giappone (2009-2015)

 

Quarant’anni di energia nucleare

1973 0,6% 1991 9,8% 2009 30% 2011 2013 0.4%
 

fonte: www.meti.co.jp

 

In questo scenario il Giappone è stato costretto a interrogarsi sulla sua politica energetica.
Anche se più della metà della popolazione è contraria all’energia nucleare, e nonostante l’impegno verso le rinnovabili, il governo ha scelto di tornare all’energia nucleare, che prima dell’incidente forniva circa il 30 per cento del fabbisogno nazionale. Dopo il disastro di Fukushima, tutti i 54 i reattori sparsi per il paese sono stati spenti e sottoposti a test di controllo. Per due anni, quindi, il paese si è affidato quasi unicamente ai combustibili fossili con un aumento inevitabile del costo dell’elettricità, mentre le campagne di sensibilizzazione hanno fatto calare il consumo totale di energia, che ha raggiunto il livello minimo dal 1990.
Il 9 marzo un tribunale ha ordinato la chiusura di due dei reattori rimessi in funzione dopo il disastro e dichiarati sicuri.

Nel giugno del 2013 il primo ministro Abe ha annunciato più investimenti nel settore delle fonti rinnovabili e dal 2011 la quantità di energia verde prodotta è triplicata. Oggi però supera di poco il 15 per cento della produzione totale, nonostante il Giappone sia il terzo paese al mondo per riserve geotermiche. Questo perché il governo manterrà il suo impegno “a patto che ciò non interferisca con la crescita del paese”. Per Tokyo, alle prese con un’economia sempre più in difficoltà e la preparazione delle Olimpiadi del 2020, le conseguenze dell’11 marzo 2011 sono un problema da tamponare in fretta. E le vittime del disastro, che cercano di ricostruirsi una vita, dovranno farlo in buona parte da sole.

 
 
Testi: Alessia Cerantola (Irpi)
Foto e video: Emanuele Satolli
Visual storytelling e visualization: Matteo Moretti
Montaggio video: Selen Catalyürekli
Musiche: Rossano Baldini
Dati radiazioni e video drone: Safecast
In collaborazione con: Waseda investigative journalism project, Università Waseda, Tokyo