Invisible Killer
La malattia silenziosa
del Sudafrica

Testi e Fotografie Tomaso Clavarino


Grafica e Video Isacco Chiaf

Le case di legno e lamiera sono attaccate le une alle altre. Le strade sterrate, polverose d’estate, si trasformano in un pantano con le prime piogge, riempiendo i pochi canali di scolo di un’acqua putrida. Kayelitsha è una distesa di baracche, la seconda township più grande del Sudafrica, quella che negli ultimi anni è cresciuta di più. Ha raggiunto i 500mila abitanti, il 50 per cento dei quali ha meno di diciannove anni. Le nuove abitazioni si stanno mangiando gli ultimi lembi di terra ancora liberi, le lamiere sono arrivate fino al mare, fino alle dune che segnano l’unico confine obbligato di questa baraccopoli alle porte di Città del Capo.

Phumeza Tisile cammina con le mani in tasca, cappello di lana in testa, lo sguardo deciso di chi, a 25 anni, ha già dovuto affrontare una prova durissima. Phumeza, che qui a Kayelitsha è nata e continua a vivere, è riuscita a sconfiggere una malattia che non si vede, non si sente, non fa più notizia, soprattutto in occidente. Una malattia che uccide ancora un milione e mezzo di persone all’anno nel mondo, il 95 per cento nei paesi in via di sviluppo, e che qui in Sudafrica è la prima causa di morte.

Soprattutto tra le fasce di popolazione più deboli, tra chi vive nelle periferie, in quegli agglomerati di abitazioni precarie in mezzo alla sporcizia. Famiglie intere stipate in pochi metri quadrati, dove l’aria fa fatica a circolare e i batteri proliferano. Perché ancora oggi le township sudafricane sono questo, nonostante i Mondiali di calcio del 2010, la crescita economica del paese e il boom di una nuova classe media. Ed è in questi ambienti, normali in luoghi come Kayelitsha, che la tubercolosi continua a mietere vittime.

“Nel 2010 mi è stata diagnostica la tubercolosi. Ho cominciato a prendere le medicine necessarie ma il mio corpo non rispondeva, i farmaci non facevano effetto”, racconta Phumeza nel cortile di casa sua. “Dopo altre analisi mi è stato detto che non avevo la tubercolosi comune che risponde alle cure – drug susceptible – ma quella multiresistente – Mdr-tb, multi drug resistant”. Una forma di tubercolosi molto più pericolosa, che si è formata da mutazioni genetiche del batterio dovute a un errato uso dei farmaci o a cure interrotte precocemente, resistente ad almeno due dei comuni farmaci usati contro la tubercolosi, quelli di prima linea. Una forma di tubercolosi che richiede un trattamento lungo due anni, con l’assunzione di circa 14.600 pillole e centinaia di iniezioni. Un trattamento costoso, doloroso e non privo di rischi per la salute.

“Durante il periodo di cura stavo male, vomitavo, avevo la nausea in continuazione, non mangiavo, e piano piano ho cominciato a perdere l’udito”, continua Phumeza. “Fino a diventare sorda. Ma neanche queste cure avevano gli effetti sperati e, dopo altre analisi, mi è stato comunicato che ero positiva alla tubercolosi estensivamente resistente – Xdr-tb, extensively drug resistant”. Una declinazione della tubercolosi ancora più temibile, resistente ai farmaci di seconda linea utilizzati nelle cure di questa infezione.
Solo grazie all’aiuto dell’ong Medici senza frontiere, Phumeza è riuscita ad accedere al trattamento con il Linezolid, un farmaco difficilmente reperibile in Sudafrica a causa del costo molto elevato. Nell’agosto del 2013 è risultata negativa ai test, ma aveva perso l’udito. Quest’anno ha avuto la possibilità di ottenere due impianti cocleari ed è tornata a sentire, a parlare, a comunicare con le persone, con la sua famiglia.




Chanté Snyman, Paziente tbc

Township di Gugulethu, Città del Capo

Interno di un’abitazione

Township di Gugulethu, Città del Capo


Moses Michize, Mdr-tb e hiv positivo

Clare Estates informal township, Durban

Incidenza della tubercolosi nel mondo

Numero di casi per ogni 100.000 abitanti nei 70 paesi con la più alta densità nel 2014


Fonte: Organizzazione mondiale della sanità

Phumeza è riuscita a curarsi, ma sono tanti quelli che in Sudafrica si ammalano e muoiono a causa di questa malattia che non fa rumore, ed è dappertutto. Circa 450mila persone ogni anno, cinquantuno ogni ora. Perché è facile ammalarsi di tubercolosi. Nei minibus che sono il mezzo di trasporto per la maggior parte delle persone, nei locali pubblici, nelle chiese, nei bar, nelle case, bastano un colpo di tosse, poca ventilazione, una distanza ravvicinata, e il batterio si diffonde.

E se dai dati dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) la tubercolosi comune, quella drug susceptible, sembra calare leggermente nei numeri, preoccupano soprattutto le forme di tubercolosi resistente, sia essa Mdr o Xdr. Declinazioni di tubercolosi che hanno enormi costi al livello di cure e che consumano buona parte del budget sudafricano stanziato per questa malattia.

Se il trattamento per una tubercolosi comune costa circa 250 dollari, quello per la Mdr ne costa 6.700, mentre quello per la Xdr 26.392 dollari, cento volte di più. Secondo Florian von Groote-Bidlingmaier, medico e ricercatore della Task applied science, un laboratorio di ricerca sui farmaci contro la tubercolosi con sede a Città del Capo, “solo in città ogni anno si registrano circa duemila nuovi casi di tbc resistente, un dato che sembra in continua crescita. Da un lato perché aumenta la diffusione e la precisione dei test, con l’uso, per esempio, del sistema Genexpert, che riduce i tempi di diagnostica; dall’altro perché non tutti i pazienti riescono a sopportare le cure, che sono lunghe e dolorose. Per questo stiamo lavorando a una serie di farmaci che potrebbero ridurre il trattamento a soli sei mesi invece dei ventiquattro attuali”.

Mortalità

Clicca sui rettangoli grigi per vedere il tasso di mortalità delle varie declinazioni di tubercolosi


Tb
Mdr-tb
Xdr-tb



Un paziente affetto dalla tubercolosi comune (tbc) ha il 45% di possibilità di sopravvivere.
Le stesse possibilità che si hanno di cliccare su di un quadrato rosso.

I casi annui di Mdr-tb in Sudafrica sono passati dai duemila del 2005 ai diecimila del 2013, con un picco di 15mila nuovi contagi nel 2012, mentre solo nel Western Cape, una delle province più colpite, la tubercolosi, in tutte le sue forme, colpisce 45mila nuove persone ogni anno. E le probabilità di sopravvivere, per chi è affetto dalle forme resistenti, sono ancora molto basse. I pazienti, a causa anche della mancanza di strutture, sono curati e seguiti dai medici per lo più all’interno delle loro comunità, e solo i più gravi sono trasferiti in strutture ospedaliere come quella del Brooklyn Chest, a pochi chilometri dal centro di Città del Capo.

Qui i malati vivono confinati in un’ala della struttura, divisi in base al livello di pericolosità della malattia. Uomini, donne, più o meno giovani, girano per i corridoi con il volto coperto dalle mascherine per evitare il diffondersi dei batteri. Quelle mascherine sono quasi un segno di riconoscimento per i malati di tubercolosi: indispensabile per prevenire i contagi, odiate per la loro scomodità e per l’attenzione che attirano nei confronti di chi le porta.
E proprio dietro a una mascherina, con un filo di voce, gli occhi persi nel vuoto, tossendo in continuazione, Sive Mapeitu, 27 anni, malata di Mdr-tb, ci racconta cosa vuol dire essere sotto trattamento: “Sono sempre stanca, le iniezioni fanno male, vomito, non riesco a camminare più di qualche metro. Ho cominciato il trattamento da pochi mesi e pensare che dovrò andare avanti ancora per quasi due anni mi fa stare male. Il tutto senza avere la certezza di riuscire a guarire, con il rischio che la malattia diventi ancora più resistente ai farmaci”.

Sive è, o meglio, era prima di ammalarsi, un’operatrice sanitaria. “Sono certa di essere stata infettata lavorando nel quartiere di Guguletu, una township di Città del Capo dove vivevo e dove avevo a che fare quotidianamente con i malati”, continua. “L’ambiente è sporco, venti persone dividono un bagno, non ci sono fognature, e la tubercolosi prolifera”. Ma soprattutto, quello che manca, secondo Sive, è l’informazione: “La gente sa poco o nulla delle nuove forme di tubercolosi, non sa come prevenirle, non capisce l’utilità delle mascherine. La maggior parte delle persone se hanno la tosse la curano come un raffreddore, e se non gli passa fanno finta di niente, sono poche quelle che decidono di andare a fare dei test”.

Analisi batteriologiche

Nei laboratori di Task Applied Science
a Città del Capo



Silvie Maipetu, Mdr-tb positiva

Brooklyn Chest Hospital, Città del Capo


Sameera Naidoo, Mdr-tb positiva

Brooklyn Chest Hospital, Città del Capo




John Ndlovu, Mdr-tb positivo

Charlotte Maxeke Hospital, Johannesburg


Khaleel Nkosi, Mdr-tb positivo

Charlotte Maxeke Hospital, Johannesburg

Disinformazione, sicuramente, ma anche paura. Paura di incontrare i vicini lungo la strada per l’ospedale, paura di dover dire ai parenti di essere positivi alla tubercolosi, paura di rimanere soli, messi da parte, isolati dalla famiglia e dalla comunità. Perché in Sudafrica, nel 2015, lo stigma nei confronti dei malati di tubercolosi è ancora forte.

“Quando due anni fa ho scoperto di essere positivo alla tubercolosi, e poco tempo dopo anche all’hiv, la mia famiglia è scomparsa”, racconta Moses Michize, 42 anni, Mdr-tb positivo, di fronte alla sua casa di legno nella township di Clare Estates, poco fuori Durban. “Un giorno dovevo andare a una cerimonia con i miei parenti, avevo appena ricevuto la notizia di essere malato di tubercolosi, ero stanco, triste, l’ho detto a mia madre: non li ho mai più sentiti, non una telefonata, non una visita durante tutto il mio periodo di cure. Per loro non esisto più”.
E allora per evitare di essere isolati dalle comunità meglio nascondere la malattia: ed è così che la tubercolosi, proprio come l’hiv, continua a diffondersi, soprattutto nelle aree più povere, nei quartieri più degradati. Lo stigma uccide, proprio come le malattie.

“Terrible twins”, così da queste parti medici e addetti ai lavori chiamano tubercolosi e hiv. Perché spesso sono legate l’una all’altra.
Il 60 per cento dei malati di tubercolosi è anche positivo all’hiv, una quota enorme. Quasi due persone su tre sono coinfette e l’epicentro di queste epidemie, per quanto riguarda il Sudafrica, sembra essere la provincia del Kwazulu Natal, dove il 39 per cento delle donne incinte è sieropositivo, quando la media nazionale si attesta sul 29 per cento. Non è un caso che all’ospedale KingDinuZulu di Durban sia stato creato uno dei pochi reparti pediatrici del Sudafrica interamente riservato ai bambini malati di tubercolosi, nel quale otto su dieci sono anche positivi all’hiv. Lo dirige il dottor Baboo Sunkarie, che ha potuto vedere con i suoi occhi nel corso degli anni l’evolversi della tubercolosi e delle sue forme più resistenti: “Nel 2006 su 32 posti letto solo quattro erano occupati da bambini affetti da tubercolosi resistente ai farmaci, sia Mdr che Xdr. Ora non c’è più un solo bambino che non abbia contratto almeno una di queste forme di tubercolosi. Stiamo notando sempre di più come tubercolosi e hiv vadano a braccetto e si sviluppino in parallelo”.

Questo, secondo il dottor Sunkarie, dipende soprattutto dall’ambiente nel quale i bambini sono costretti a crescere e dalle loro condizioni di vita. “La maggior parte dei bambini nel reparto arriva da contesti difficili, da quartieri poveri, dove le persone dormono in sei o sette per camera, non sono usate le precauzioni durante i rapporti sessuali, l’igiene è scarsa. È così che il batterio si diffonde, ed è così che i bambini presenti in questo reparto, il 90 per cento dei quali è nato da madre hiv positiva, anche se curati con successo contro la tbc, una volta tornati a casa si infettano di nuovo”.

Coinfezione tbc-hiv


Casi registrati in Sudafrica


Fonte: Organizzazione mondiale della sanità


Tasso di mortalità dei pazienti coinfetti


Fonte: Organizzazione mondiale della sanità

Testimonianze


Dalene Von Delft

33 anni, medico


Dalene si è ammalata di Mdr-tb ed è stata tra le prime persone bianche ad essere infettata. Dopo essere guarita ha creato TB Proof, una Ong che si occupa di combattere lo stigma nei confronti dei malati di Tubercolosi.

Phumeza Tisile

25 anni


Phumeza, ex paziente Xdr-tb positivo, ha perso per cinque anni l’udito a causa delle medicine utilizzate per la cura. Dopo averlo ritrovato grazie a degli impianti cocleari è diventata uno dei portavoce della battaglia contro la Tubercolosi in Sudafrica.

Goodman Makanta

30 anni


Goodman è stato diagnosticato Xdr-tb positivo nel 2014, vive in una casa di legno e lamiere nella township di Kayelitsha, alle porte di Città del Capo.

Busisiwe Beko

34 anni


Busisiwe è stata diagnosticata hiv e Mdr-tb positiva nel 2007, mentre era incinta. Othandwayo, la sua seconda bambina, è nata Mdr-tb positiva. Busisiwe ora collabora con MSF nella township di Kayelitsha e conduce un programma radiofonico d’informazione sulla Tubercolosi.

Edward Mokoena

35 anni


Edward vive nella township di Guguletu, nei dintorni di Città del Capo. Gli hanno diagnosticato la Mdr-tb ma i dottori hanno sbagliato le cure e ha avuto seri problemi al fegato. Ora si è ripreso, ma la cura debilitante non gli permette di lavorare. Era l’unico della sua famiglia ad avere un lavoro.

Bambini, adulti, uomini, donne, neri e bianchi: la tubercolosi, ancora più dell’hiv, non guarda in faccia nessuno. E questo per un semplice motivo: si trasmette per via aerea e chiunque può andare a sbatterci contro. La può contrarre un pescatore come Ivan Ross, 61 anni, che nella sua casa di legno sulla collina di Hout Bay racconta di essersi ammalato nella stiva del peschereccio dove lavorava, così come una donna bianca che vive in un ricco sobborgo di Città del Capo, Somerset West: Dalene von Delft, medico di 33 anni, infettata a causa del suo lavoro a stretto contatto con i pazienti.

Ma c’è una comunità, in Sudafrica, che più di altre ha dovuto fare i conti con questa malattia, e ora con le sue forme più resistenti: sono i minatori, colonna portante dell’industria del paese. Da secoli la tubercolosi colpisce tra i minatori più che in qualsiasi altra categoria e il diffondersi di Mdr–tb e Xdr-tb sta mettendo ancora di più a rischio la vita di decine di migliaia di persone. Basta uscire da Johannesburg e inoltrarsi per qualche chilometro nei vasti spazi brulli di questa regione per capire come le miniere siano parte integrante dell’economia sudafricana.

Carletonville e Westonaria sono due delle cittadine dove le miniere d’oro sono il fulcro di ogni attività. Qui, tra molti benzinai, qualche ristorante, e le distese di case costruite per i lavoratori delle miniere, la tubercolosi continua a fare vittime nonostante gli impegni presi dalle aziende minerarie in termini di sicurezza e salute per i minatori.

“Il problema è che le miniere sono ambienti infernali. Le temperature raggiungono i 35-38 gradi, l’aria è stagnante, non c’è ventilazione e la polvere penetra nei polmoni. E quando i minatori respirano polvere di silice sono esposti a enormi rischi per la salute”, spiega Georgina Jephson, un’avvocata di Johannesburg che insieme allo studio Richard Spoor difende migliaia di minatori in una class action contro trenta compagnie minerarie del Sudafrica. La più grande causa mai intentata contro i gruppi minerari per chiedere giustizia, compensazioni e assistenza sanitaria per i minatori che, a causa del loro lavoro, si sono ammalati di silicosi e tubercolosi.

“Secondo alcuni studi recenti, un minatore su quattro è affetto da silicosi, che è spesso il primo passo verso la tubercolosi”, continua Georgina Jephson. “Le aziende minerarie, in questo caso quelle impegnate nell’estrazione dell’oro, non fanno abbastanza per proteggere la salute dei minatori che sono costretti a sostenere turni massacranti senza le necessarie protezioni”.

Una galleria di una miniera d’oro

Sybaie Goldmines, Carletonville

Un minatore al lavoro

Sybaie Goldmines, Carletonville

Dodici, quattordici ore in un caldo asfissiante che incolla la tuta da lavoro alla pelle. L’aria così pesante che si fatica a respirare, la polvere che si alza a ogni esplosione, il buio che copre la vista, tutto questo fa parte della quotidianità del lavoro dei minatori.
E sono spesso le esplosioni la causa principale delle malattie polmonari che colpiscono la maggior parte di loro. “Mi sono ammalato sul luogo di lavoro, ne sono sicuro”, racconta Tembe Djais nella sua casa in un piccolo villaggio alle porte di Bizana, nell’Eastern Cape. “Ero il capo squadra in una miniera d’oro, mi occupavo di tutte le esplosioni. Entravo per primo nei corridoi appena aperti e respiravo la polvere prima che si fosse posata a terra. Ho deciso di unirmi alla causa contro le aziende minerarie perché appena sono andato in pensione ho cominciato ad accusare forti dolori al torace, a respirare male, a tossire in continuazione. Sono dimagrito, non mangiavo, e mi hanno diagnosticato la tubercolosi. Fortunatamente era quella comune, che risponde ai farmaci, e non una delle sue forme resistenti”.

Ma nonostante sia la prima causa di morte in Sudafrica, e la prima infezione mortale al mondo (più dell’hiv), la tubercolosi non sembra, a detta di ricercatori, medici, docenti e operatori sanitari, ricevere l’attenzione e gli investimenti necessari dai donatori internazionali e delle case farmaceutiche. Queste ultime stanno abbandonando una dopo l’altra gli investimenti nella ricerca sulla tubercolosi all’interno di un più generale re-indirizzamento delle risorse verso malattie croniche piuttosto che infettive.

“La spiegazione è semplice: la ricerca sulla tubercolosi non dà abbastanza profitti”, osserva Nesri Padayatchi vicedirettrice del Centro per il programma di ricerca sull’aids in Sudafrica, partner dell’agenzia delle Nazioni Unite Unaids. “Inoltre nei paesi occidentali è considerata come una malattia del terzo mondo, dei poveri, mentre l’hiv, che dipende soprattutto dai comportamenti dei singoli, è avvertita come un pericolo maggiore”.
È il settore privato ad abbandonare la ricerca sulla tubercolosi, basta leggere i nomi delle aziende che negli ultimi anni hanno deciso di spostare le risorse altrove per averne conferma: la Pfizer ha lasciato nel 2012, l’AstraZeneca nel 2013, la Novartis nel 2014.

Non è quindi un caso se gli investimenti del settore privato nella ricerca sulla tubercolosi siano diminuiti dell’11,8 per cento nel biennio 2012-2013 e di un terzo dal 2011 a oggi. Di questo passo, se i governi non interverranno per colmare il vuoto lasciato dal settore privato, sembra molto difficile che si possa raggiungere l’obiettivo delle Nazioni Unite: sconfiggere l’epidemia di tubercolosi entro il 2030.
Un’epidemia che però tecnicamente non esiste secondo il direttore del programma tubercolosi dell’Organizzazione mondiale della sanità, Mauro Raviglione, perché questa malattia “è ormai diventata endemica, è entrata in equilibrio con le persone, e questo la rende ancora più difficile da sconfiggere senza investimenti nella ricerca”.

Crollo dei finanziamenti

Andamento degli investimenti privati nella ricerca sulla tubercolosi


Ivan Ross, paziente tbc

Township di Hout Bay, Città del Capo