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I made them run away. (Martina Zanin)
I made them run away. (Martina Zanin)
I made them run away. (Martina Zanin)
I made them run away. (Martina Zanin)
I made them run away. (Martina Zanin)
I made them run away. (Martina Zanin)
I made them run away. (Martina Zanin)
I made them run away. (Martina Zanin)

Ricordi che non scappano via

“Se ti fa male un dente, la tua lingua continua ad andare lì. Sei sempre consapevole di una ferita”, mi ricorda Martina Zanin, artista nata nel 1994 a San Daniele del Friuli, che citando il regista Ingmar Bergman racconta il processo creativo e psicologico con cui è arrivata a realizzare il suo ultimo progetto I made them run away.

La storia affonda nel passato dell’artista, cresciuta con la madre e i suoi diversi partner, che non sono mai diventati una figura maschile stabile e di riferimento. Da adulta Zanin si è resa conto della rabbia e del rancore che il suo ambiente familiare aveva sedimentato dentro di lei e ha deciso di affrontare queste emozioni usando la pratica artistica come rimedio catartico.

A Zanin piace usare media differenti: fotografie, testi, video, suoni. Qui crea un intreccio, che si dipana tra passato e presente, tra le vecchie foto della madre strappate per rimuovere un amore finito e quelle scattate tra il 2017 e il 2019 dalla figlia, che cercano di ricreare stati d’animo, associazioni mentali e visive. Nel dialogo tra immagini vecchie e nuove s’inseriscono le pagine del diario della madre, scritti carichi di desiderio e malinconia pensati per quell’uomo che non ha mai avuto.

I made them run away è diventato un libro, pubblicato a ottobre da Skinnerboox. Sfogliandolo colpisce la sequenza di immagini d’archivio e simboliche, nata da un processo creativo nutrito dalla ricerca, dall’immaginazione e dall’istinto. Zanin non lavora seguendo troppe regole, s’immerge in una foto che esiste già e la reinventa come movimento oppure cerca un filo conduttore che non è necessariamente guidato dalla logica. Raccontando la realizzazione degli scatti, prende come esempio la relazione tra due foto nel libro: “La bambina che tocca un pomo d’Adamo è una scena piena di tensione che va a sfogare nell’immagine di un’onda che si infrange su una scalinata. Ne percepisco la sensazione, le emozioni, sento i suoni, distinguo la durezza del pomo d’Adamo e il suono delle onde che sbattono contro la roccia. Non è solo osservare, è penetrare all’interno di un mondo parallelo ed è quello che provo a trasmettere”.

Dopo il libro, il progetto ora è anche in mostra allo Spazio Labò di Bologna, fino al 14 gennaio, con un allestimento a cura di Laura De Marco. Sembrerebbe un lavoro concluso, ma per Zanin non lo è fino in fondo perché i ricordi sono sempre nella nostra testa, cambiano, si trasformano e se decidiamo di non dimenticare, diventano nostri compagni per la vita.

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