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Dal libro Empire roller disco. (Patrick D. Pagnano, Per gentile concessione di Anthology Editions)
Dal libro Empire roller disco. (Patrick D. Pagnano, Per gentile concessione di Anthology Editions)
Dal libro Empire roller disco. (Patrick D. Pagnano, Per gentile concessione di Anthology Editions)
Dal libro Empire roller disco. (Patrick D. Pagnano, Per gentile concessione di Anthology Editions)
Dal libro Empire roller disco. (Patrick D. Pagnano, Per gentile concessione di Anthology Editions)
Dal libro Empire roller disco. (Patrick D. Pagnano, Per gentile concessione di Anthology Editions)
Dal libro Empire roller disco. (Patrick D. Pagnano, Per gentile concessione di Anthology Editions)
Dal libro Empire roller disco. (Patrick D. Pagnano, Per gentile concessione di Anthology Editions)
Dal libro Empire roller disco. (Patrick D. Pagnano, Per gentile concessione di Anthology Editions)
Dal libro Empire roller disco. (Patrick D. Pagnano, Per gentile concessione di Anthology Editions)

Gli ultimi giorni della roller disco

Nel febbraio del 1980 Patrick D. Pagnano, uno street photographer statunitense di origine italiana, entra in un’immensa caverna buia armato solo della sua Leica M3. Siamo a Crown Heights, Brooklyn, New York, e appena i suoi occhi si abituano all’oscurità parte la musica e si accendono le luci. Sull’enorme pista di legno d’acero (più di tre chilometri quadrati di superficie) cominciano a scivolare centinaia di pattinatori e pattinatrici che velocissimi, atletici e flessuosi si muovono a suon di musica. È l’Empire Rollerdrome, il tempio del ballo sui pattini a rotelle, una moda che, dalla metà degli anni settanta a oggi, è andata e venuta ma è comunque rimasta, come un fiume carsico che ogni tanto tende a riaffiorare: un esempio fra tutti, il memorabile video di Blow che Hype Williams ha diretto per Beyoncé nel 2013.

Nel 1980 la roller disco è ancora la moda del momento, ma nel locale di Brooklyn si respira l’aria di una comunità in pericolo che si stringe in uno spazio sicuro, dove è ancora certa di potersi esprimere liberamente e divertire. La rappresaglia del mondo bianco, eteronormativo e veterorockettaro contro la disco music, la Disco demolition night di Chicago, era stata consumata appena l’anno prima: in occasione di una partita di baseball un’enorme cassa piena di album e musicassette di disco music era stata fatta esplodere pubblicamente, poi era cominciata una caotica rissa. È stato l’inizio simbolico di un violento rigurgito anti-disco music che in realtà era un attacco diretto a chi la disco la faceva e la ballava ogni sera: neri, portoricani e persone queer. Nile Rodgers degli Chic, padre fondatore della disco e poi produttore di David Bowie, Madonna e Duran Duran, paragonò la Disco demolition night ai roghi di libri e opere d’arte dei nazisti.

Il 1980 è stato l’anno in cui la disco music, data per spacciata, ha cominciato a riemergere più forte che mai, ibridata con la new wave, l’electro, e il primo hip hop. Si potevano far saltare in aria tutti i dischi di Donna Summer o degli Earth Wind & Fire che si volevano, ma era troppo tardi per fermare la musica: elementi di funk e disco music si trovavano nei pezzi di band bianche da alta classifica come Blondie, Knack e perfino Rolling Stones. Nella New York di Keith Haring, di Jean-Michel Basquiat e di Andy Warhol, una metropoli sporca, pericolosa e per lo più decadente, il basso della disco era il tessuto connettivo che teneva insieme tutti, dalle più marginali creature del sottosuolo alle superstar dell’arte o del jet set che scendevano al Paradise Garage per un brivido di trasgressione underground.

Le foto di Pagnano, scattate in quel grande hangar di Brooklyn e raccolte nel volume Empire roller disco (Anthology Editions), catturano esattamente quel momento storico. E lo fanno con una grazia e un’eleganza che tradiscono un coinvolgimento emotivo che va al di là dell’intento puramente documentario: il fotografo, tra l’altro, era lì per una rivista che non gli pubblicò mai il servizio assegnato. “Non ho mai pensato a me stesso come a un artista”, annotava nei suoi appunti, “sento di essere un cittadino del mondo e devo agire responsabilmente senza isolarmi dalla realtà: la fotografia è semplicemente quello che faccio”.

Agli occhi di un osservatore di oggi, oltre alla grazia e alla bellezza dei corpi che ballano scivolando sul legno lucido, non sfuggono certi dettagli di stile. Pagnano ha fissato nel tempo il crocevia esatto tra gli anni settanta e gli anni ottanta. Vediamo permanenti e foulard, pantaloni scampanati attillatissimi sui fianchi, jeans con impunture impossibili, bellissimi afro e camicie sintetiche con grandi colletti. Ma anche hot pants, scaldamuscoli, magliette rigorosamente dentro ai pantaloni e soprattutto le prime tute Adidas, che stavano diventando l’uniforme di rapper e b-boy. L’unica cosa che manca è la scarpa, quel dettaglio che, si dice, distingue inequivocabilmente i ricchi dai poveri. All’Empire Rollerdrome ai piedi portano tutti i pattini, quelli a stivaletto, con quattro rotelle e il freno davanti.

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