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Dal progetto Nowhere near. Roena, arrivata in Italia dal Gabon per studiare. (Alisa Martynova)
Dal progetto Nowhere near. (Alisa Martynova)
Rifugiati in fuga dai combattimenti in Ucraina verso la Polonia. (Alessio Mamo)
Dalla serie I called out for mountains, I heard them drumming, che ritrae alcuni rifugiati ruandesi in Europa. (Miia Autio)
Dalla serie I called out for mountains, I heard them drumming, che ritrae alcuni rifugiati ruandesi in Europa. (Miia Autio)
Dal progetto partecipativo Now you see me Moria.
Dal progetto partecipativo Now you see me Moria.
Dalla serie No stranger Place. La famiglia Jellinek di Berlino ospita una famiglia di rifugiati siriani, fuggiti da Damasco. (Aubrey Wade)
Empire, Choucha Camp (Tunisia) 2012–14. (Samuel Gratacap)
Dalla serie Dialect ( 2020-2023 ) su un gruppo di giovani migranti marocchini in un centro di accoglienza di Siviglia, in Spagna. (Felipe Romero Beltrán)
Dalla serie Dialect ( 2020-2023 ) su un gruppo di giovani migranti marocchini in un centro di accoglienza di Siviglia, in Spagna. (Felipe Romero Beltrán)

Raccontare le persone

Sentiamo parlare da anni della cosiddetta “crisi dei migranti”: un’espressione di comodo, che usiamo per capirci, ma che è imprecisa, se non addirittura fuorviante, per due motivi: il primo è che la parola “migrante” è estremamente generica. Indica tutte quelle persone che lasciano la loro casa, la loro terra, per spostarsi altrove, ma non ci dice niente su chi sono, da dove vengono e sulle ragioni del loro spostamento. Comprende tutto e tutti, dai profughi ambientali, a quelli che fuggono da una guerra, dai richiedenti asilo a chi si sposta perché nel suo paese non ha da mangiare o, semplicemente, non ha prospettive.

Ma è la parola “crisi” a essere forse più problematica, perché suggerisce un’idea di emergenza, mentre il fenomeno migratorio in Italia, così come in Europa e altrove, è di natura strutturale. Malgrado questo continuiamo a rispondere al fenomeno con misure straordinarie o, appunto, emergenziali.

Questi termini generici si traducono spesso in immagini altrettanto generiche e spersonalizzate, in cui si mostra appunto il “migrante”, come se appartenesse a una categoria umana a sé stante, ridotto a soggetto passivo.

La mostra Out of frame – Ripensare le narrazioni visive delle migrazioni in Europa si pone l’obiettivo di scardinare questi stereotipi, abbandonando le categorie astratte, per concentrare l’attenzione sulle persone e sulle loro storie. Come fa, per esempio, il fotografo colombiano Felipe Romero Beltrán che per più di due anni ha collaborato con un gruppo di ragazzi per ricostruire il loro viaggio dal Marocco alla Spagna, ricreando alcuni dei momenti più difficili della loro vita.

L’esposizione, che rimarrà aperta fino al 26 giugno a Roma, a palazzo Altieri, presenta il lavoro di sei autori – Miia Autio, Felipe Romero Beltrán, Samuel Gratacap, Alessio Mamo, Alisa Martinova e Aubrey Wade – che hanno indagato i fenomeni migratori contemporanei, e il progetto partecipativo Now you see me Moria: un appello a tutti i cittadini europei all’azione in supporto delle persone che vivono rinchiuse nei campi.

“Proponendo progetti che indagano il tema migratorio con linguaggi e approcci fotografici differenti”, spiega la curatrice Giulia Tornari, “la mostra vuole stimolare nell’osservatore una riflessione sul ruolo che la fotografia può assumere quale strumento di comprensione del reale”.

Out of frame è un progetto dell’associazione culturale Zona e fa parte di Bridges: Assessing the production and impact of migration narrative (bridges-migration.eu), che studia le cause e le conseguenze della narrazione sulla migrazione.

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