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Due anni di guerra civile nella Repubblica Centrafricana

Il 14 maggio le milizie armate della Repubblica Centrafricana hanno liberato più di 300 bambini e bambine: usati come soldati, cuochi, messaggeri e schiave sessuali, possono ora tornare a casa, dopo un accordo raggiunto con la mediazione delle Nazioni Unite. L’intesa rientra nell’ambito delle trattative condotte, all’inizio di maggio, con i capi di otto gruppi armati che si sono impegnati, in una cerimonia pubblica nella capitale, a rilasciare dai seimila ai diecimila minori.

Il numero di bambini arruolati come combattenti e lavoratori è cresciuto esponenzialmente negli ultimi due anni, da quando il conflitto ha trascinato il paese in una spirale di violenza. Nel marzo del 2013, il gruppo Séléka, una coalizione di ribelli prevalentemente musulmana che abita le regioni settentrionali del paese, ha deposto il presidente cristiano François Bozizé. Il leader di Séléka, Michel Djotodia, ha assunto il controllo della Repubblica Centrafricana: il nuovo capo di stato, confermato al potere dopo la formazione di un governo di transizione, ha cercato poi di smantellare le milizie ribelli, ma senza successo. Séléka si è riorganizzata e ha ingaggiato una sanguinoso conflitto civile con i combattenti cristiani anti-balaka (in lingua sango, anti machete), ostili al nuovo regime.

Lo scontro tra i due gruppi armati ha avuto tragiche ripercussioni nel paese a maggioranza cristiana e ricco di miniere di diamanti, oro e altre risorse naturali. Villaggi distrutti, esecuzioni sommarie, saccheggi e violenze hanno costretto migliaia di civili ad abbandonare le proprie case, come documentato in un rapporto realizzato da Human rights watch. All’inizio del 2014, i ribelli di Séléka si sono ritirati a est, mentre Djotodia è stato costretto alle dimissioni e sostituito dal presidente di transizione Catherine Samba-Panza, ex sindaco della capitale Bangui. Tuttavia, le atrocità non si sono fermate nella Repubblica Centrafricana.

Le milizie anti-balaka hanno cominciato ad attaccare la minoranza musulmana, mettendo a ferro e fuoco i loro villaggi: al punto che le Nazioni Unite hanno classificato queste aggressioni sistematiche come pulizia etnica. Decine di migliaia di musulmani sono fuggiti in Camerun e Ciad, mentre altre migliaia vivono in campi profughi all’interno dei confini nazionali.

Un rapporto, presentato al Consiglio di sicurezza nel dicembre del 2014, parlava di almeno seimila vittime: “Migliaia di persone sono morte a causa del conflitto. Entrambe le parti hanno commesso abusi e violazioni dei diritti umani. Séléka e glianti-balaka sono responsabili per crimini di guerra e crimini contro l’umanità”, si leggeva nel documento della commissione d’inchiesta Onu.

Nel gennaio del 2015, un gruppo di ex ribelli di Séléka e di miliziani anti-balakahanno raggiunto un accordo per il cessate il fuoco, firmato a Nairobi, in Kenya, alla presenza di François Bozizé e di Michel Djotodia: l’intesa prevedeva la fine delle ostilità, il disarmo, la smobilitazione e il reintegro dei ribelli. Il trattato è stato subito respinto dal governo di Bangui, perché “escluso dai negoziati”. Le ostilità sono così proseguite fino alla firma di un nuovo accordo lo scorso aprile, sottoscritto da Joachim Kokate, in rappresentanza degli anti-balaka, e dall’ex presidente Michel Djotodia per gli ex Séléka. Un processo di riconciliazione che ha consentito anche l’apertura di un nuovo tavolo di trattative per la liberazione di migliaia di bambini soldato.

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