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L’uomo che voleva insegnare l’inglese ai delfini

Un gruppo di delfini vicino alle isole Whitsunday, in Australia. (Tais Policanti, Getty Images)

Peter continua a migliorare il suo atteggiamento durante le lezioni. È più attento, ascolta più di quanto sperassi e si impegna a fondo. Sto lavorando con lui solo su alcune parole. Lui ascolta, ripete, ascolta di nuovo. Manca nella pronuncia ma migliora giornalmente sia l’inflessione che la cadenza. Sembra parlare inglese dal punto di vista del suono generale anche se al momento quello che dice non è comprensibile. Potrebbe essere il brusio di fondo a una festa ma ha tutte le sfumature dell’inglese, e credo che presto lo sarà. Sono molto contenta.

Un commento che potrebbe scrivere una maestra su un suo allievo diligente, ma Peter è un delfino. Per la precisione, un tursiope (Tursiops truncatus) al quale Margaret Howe sta insegnando, o meglio sta tentando di insegnare, l’inglese alla quinta settimana di un progetto “full immersion”: la donna vive insieme all’animale 24 ore al giorno, in una vasca da 110mila litri di acqua salata ideata per l’esperimento.

Lo racconta lei stessa nel diario pubblicato in The mind of the dolphin di John Cunningham Lilly nel 1965. Neurofisiologo americano approdato alla medicina e alla biologia partendo dalla fisica, Lilly aveva lavorato dopo la seconda guerra mondiale al National institute of mental health, dove trascorreva buona parte del suo tempo piazzando elettrodi nel cervello di vari animali, soprattutto macachi: una pratica piuttosto diffusa nel clima teso della guerra fredda, quando si studiavano le possibilità offerte da metodi dipersuasione come il lavaggio del cervello.

Poi, attraverso un collega europeo, Lilly aveva appreso della straordinaria dimensione del cervello dei tursiopi. Così nel 1955 arriva ai Marine studios di St. Augustine in Florida dove conduce i suoi primi esperimenti sui cetacei, tra l’altro registrandone “i dialoghi” composti da click e fischi. Lo racconta il giornalista James Nestor nel suo libro Il respiro degli abissi: la velocità di propagazione del suono in acqua è maggiore circa di quattro volte e mezzo che nell’aria. Rallentando della stessa proporzione le registrazioni dei suoni emessi dai delfini, e mettendone a punto la frequenza, Lilly scopre una grande somiglianza con il nostro linguaggio e conclude che parlano una lingua simile alla nostra ma molto più accelerata.

Un progetto ambizioso
Nella prefazione del suo libro Man and dolphin, Lilly si spinge oltre: “Tra una decina d’anni l’uomo parlerà con un’altra specie: non umana, aliena, forse extraterrestre, marina ma certamente molto intelligente, anche intellettuale. Una previsione ottimistica, lo ammetto”. Fabrice Schnöller, fondatore di Darewin, un progetto che riunisce un gruppo di ricercatori che studiano proprio la comunicazione dei cetacei, commenta così i libri di Lilly: “C’erano delle buone idee, forse un venti per cento, ma il resto era tutta new age”. Ciononostante, nel 1961 Man and dolphin procura allo scienziato grande riscontro mediatico. Flipper, il film di Ivan Tors che presenta il primo caso di mammifero marino addomesticato nella storia del cinema, esce nel 1963 grazie all’incontro del regista con Lilly, che è allora a capo del suo centro di ricerca, il Communications research institute (Cri).

Il centro si trova a St. Thomas, nelle Isole Vergini americane, e annovera tra i suoi finanziatori il dipartimento della difesa e la Nasa, interessata alla comunicazione tra specie diverse nel pieno della corsa allo spazio. È una villa bianca, isolata, sulla costa orientale dell’isola, composta da uffici, laboratori e dalla piscina dove il delfino Peter e Margaret Howe vivono in simbiosi. Howe è una ragazza appassionata che lavora come volontaria. Ma è lì, nell’acqua salata dei tropici, che l’ambizioso progetto comincia a naufragare. Oltre alle ovvie difficoltà della ragazza, che vive immersa fino alle gambe per almeno una dozzina di ore al giorno senza abbandonare la vasca neppure di notte, Peter, delfino maschio nel pieno dell’età riproduttiva, manifesta impulsi sessuali nei confronti della sua insegnante. Margaret, “prendendo il suo pene in mano e lasciando che le si strofini contro”, scopre che può procurargli “una qualche forma di orgasmo, con il corpo che freme, la bocca aperta e gli occhi chiusi”, una pratica che entra nella routine dei due che lei stessa descrive in The mind of the dolphin come rimedio per arginarne le “avances”.

Ma c’è di più: nel suo background professionale Lilly annovera anche l’invenzione di uno strumento per testare la resistenza, la propria oltre a quella di altri soggetti, in condizioni di “deprivazione sensoriale” e isolamento: la floatation tank. Si tratta di una camera perfettamente buia e silenziosa, riempita di acqua calda salata, che ospita un uomo nudo con in testa un cappuccio di lattice, al quale sono collegati gli strumenti per il monitoraggio cerebrale. È un progetto finanziato dai militari interessati allo studio di condizioni simili a quelle degli astronauti nello spazio, o dei piloti di sottomarino in immersione.

La figura di Lilly ha ispirato Ken Russell per il soggetto del film Stati di allucinazione

Gli anni sessanta sono anche l’epoca di un altro tipo di sperimentazione: quella delle sostanze psichedeliche, che Lilly prende molto sul serio mentre trascorre ore a galleggiare nella sua vasca buia tra stati di coscienza alterata sotto l’effetto della dietilammide-25 dell’acido lisergico, al secolo lsd. L’aveva provata la prima volta nel 1963 grazie a Constance Tors, la moglie di Ivan, il regista di Flipper, ma poi comincia ad abusarne. E la sua ossessione nei confronti della sostanza cresce di pari passo alla frustrazione per i risultati ottenuti nell’altra vasca, quella dove nuota Peter, al quale decide di somministrarla per espanderne le capacità cognitive.

Ma il lavoro controverso, archiviato malamente negli ambienti scientifici, di questo scienziato che ha ispirato, tra gli altri, Ken Russell per il soggetto del film Stati di allucinazione (1980), ha avuto un ruolo chiave, e sorprendente, negli eventi che porteranno alla moratoria sulla caccia alla balena e più in generale sull’origine dei movimenti ambientalisti nati a difesa degli oceani. È la tesi sostenuta da Graham Burnett, professore di storia della scienza all’università di Princeton, nel suo libro The sounding of the whale, un imponente lavoro di ricerca che analizza la trasformazione del rapporto dell’uomo con i cetacei nel corso del ventesimo secolo: da mostri grotteschi, fonte di grassi necessari, a totem dei movimenti controculturali.

“Credo che per un numero significativo di persone in Europa e in Nordamerica il cambiamento decisivo nel modo di pensare i cetacei tra il 1960 e il 1975 sia partito dal riconoscerli come possessori di intelligenza”, scrive Burnett. “E l’agente maggiore di questo cambiamento è stato il lavoro di John C. Lilly”: perché ha rilasciato a partire dagli anni cinquanta una serie di dichiarazioni, per quanto stravaganti e infondate, sulle capacità cognitive dei delfini, e perché il suo lavoro è strettamente legato alle risorse e agli strumenti provenienti dagli ambienti militari che hanno avuto e avranno in seguito un ruolo centrale nella ricerca su questi animali, sebbene per motivi profondamente diversi. Ma la sua influenza si è esercitata in modo persino più diretto: “Dopotutto, sulle imbarcazioni di Greenpeace, nessun libro fu più letto negli anni settanta di quanto lo fu Mind of the dolphin”, ricorda Burnett.

Il canto delle balene
Le eccentriche tesi di Lilly compariranno negli anni in molte forme diverse: convogliate nella campagna Save the whales (Salvate le balene) dei primi anni settanta; nell’inchiesta The last of the great whales, pubblicata dalla rivista Scientific American nel 1966; nel testo della Senate joint resolution 115 del 1971 con la quale si chiede al dipartimento di stato americano la moratoria sulla caccia alla balena; e non ultimo in Mind in the waters di Joan McIntyre, attivista di Friends of the earth, una raccolta di saggi del 1974 che comprendeva, scrive sempre Burnett, tutti gli elementi – “pace, consapevolezza, sospensione acquatica, olismo e ‘coscienza cetacea’” –chiaramente riconducibili alle “peregrinazioni” di Lilly nella sua floatation tank. Elementi che già nel 1970 si erano trasformati in fattori di mobilitazione politica.

Il 13 agosto 1971 esce su Science Songs of humpback whales di Scott McVay e Roger Payne, un articolo sulla struttura sonora dei fonemi delle megattere che Burnett definisce “la scoperta più importante del ventesimo secolo”, relativamente ai cetacei. Per chiarirne l’impatto culturale forse basta ricordare che l’album con lo stesso titolo, contenente le registrazioni dei “canti” di queste balene, resta ancora oggi il più venduto nel suo genere, “colonna sonora” della campagna Save the whales. Entrambi gli autori conoscevano Lilly, e Scott McVay, affascinato dal suo lavoro, l’aveva raggiunto per qualche anno nello staff del Cri. Ma le scie di “lillysmo” rintracciate da Burnett nel suo lavoro di ricerca sono innumerevoli. E il capitolo dedicato allo scienziato è denso degli eventi che concludono la trasformazione dei cetacei negli animali simbolici che conosciamo ancora oggi.

E il delfino Peter? L’lsd non produce alcun effetto su di lui. Segnato dal fallimento, ormai a corto di fondi, Lilly è costretto a chiudere il suo centro di ricerca. Alcuni animali vengono liberati in mare, altri trasferiti altrove. Tra questi c’è Peter che di lì a poco smetterà di respirare. In The girl who talked to dolphins, un documentario girato dalla Bbc su questa storia, si parla di suicidio: per i delfini, differentemente dagli uomini, la respirazione è un atto volontario che Peter smette di compiere.

Resistere alla tentazione di umanizzare questi animali, per chiunque abbia avuto il privilegio di interagire con loro, è sempre difficile ma Schnöller nel suo lavoro cerca di fare l’opposto. Il fondatore di Darewin appartiene a quel gruppo di ricercatori che studiano la comunicazione dei cetacei a partire dall’ecolocalizzazione. I suoni servono agli animali non solo, come accade per altri mammiferi, per stimare la forma e la distanza degli oggetti intorno a loro, ma le immagini prodotte dall’eco sono parte fondamentale della comunicazione: “La mia ipotesi è che i cetacei utilizzino un altro sistema sensoriale per comunicare, quindi non c’è modo di comprenderli usando il nostro”, spiega Schnöller. “Siamo molto lontani dalle loro capacità, è un po’ come se cercassimo di vedere con le orecchie. Per capire come percepiscono il mondo, dobbiamo dimenticare il nostro sistema sensoriale e cercare di somigliargli”. E questo forse era proprio quello che cercava di fare Lilly, a suo modo, chiuso nella sua vasca buia.

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