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Il parto naturale

Stefano Ricci per Internazionale

Questo articolo è stato pubblicato il 30 dicembre 2011 nel numero 930 di Internazionale.

Breve sintesi di mie precedenti esperienze simili alla maternità.

Un coniglio a tre anni: affetto, forte senso di tenerezza e di stupore; improvvisa scomparsa del coniglio, i miei genitori mi spiegano che è dovuto andare via perché sentiva tanto la mancanza della mamma; capisco di non essere io la sua mamma: sono delusa, ma elaboro razionalmente la (falsa) situazione e dimentico in fretta.

Un cane a quindici anni: un cocker spaniel color miele, nervoso ed epilettico; un ragazzo con cui esco mi dice che secondo lui il mio cane è omosessuale; mi rendo conto che ha ragione; un giorno lo portiamo dal veterinario per fargli fare il bagno ma non torna più; muore per negligenza del veterinario, lo drogava per lavarlo (quello stronzo) e si era fatto prendere la mano.

Un altro cane a vent’anni, ancora un cocker spaniel, sempre color miele, ce lo regala il veterinario stronzo, il cane ha seri problemi di comportamento; è incapace di obbedire e nessuno riesce a insegnargli niente, fa la cacca sul tavolo della cucina, la pipì sul mio letto, una volta per poco non mi stacca un orecchio, mi portano d’urgenza all’ospedale, mi ricuciono il lobo con cinque punti; ancora oggi non riesco a infilarmi gli orecchini in modo che pendano simmetrici.

Un gatto a venticinque anni, un incrocio, lo compro per dieci sol al mercato, per invidia, perché il gatto randagio che viene a trovarci e a cui mi sono affezionata un giorno preferisce la vicina a me, a quanto pare perché lei gli dà da mangiare cose più buone; vive con J e con me per due anni, decidiamo di andare in Spagna e non sappiamo cosa fare di lui; scomparsa del gatto, nessuno mi spiega niente, non ci sono favole, credo che ci abbia abbandonato lui, prima che lo abbandonassimo noi, J è convinto che sia nel paradiso dei gatti.

Le mie bambole, gli orsetti di peluche, le Barbie e gli altri pupazzi furono per me la vera scuola dell’orrore

Una pianta a trent’anni, la compro da una zingara all’ingresso del mercato delle pulci di Barcellona, non so neanche come si chiama, è ovviamente verde, quando cresce noto che è una pianta rampicante, più di una volta rischia di morire, è chiaro che ha bisogno di essere trapiantata ma non ho mai né il tempo né i soldi per farlo, l’annaffio di tanto in tanto, un giorno trasloco e me la dimentico, un’amica prende il mio posto in quella casa, mi racconta di averla trapiantata, vado a trovare la mia amica e vedo la mia pianta, è fiorita, non è più la mia pianta.

Non c’era da essere molto orgogliosa del mio curriculum come tutrice di esseri viventi. Con le cose inerti la faccenda cambiava, ma non saprei se per il meglio. Le mie bambole, gli orsetti di peluche, le Barbie e gli altri pupazzi furono la mia vera scuola dell’orrore.

Nella mia personale Toy story sottoposi le Barbie a lunghe sessioni sessuali con dei Ken castrati e le resi protagoniste di storie costellate di catastrofi naturali. Spogliai uno dei miei bambolotti, Allan, poi lo smembrai e alla fine lo decapitai come un Túpac Amaru munito di ciuccio. I suoi arti rispuntavano ovunque nella mia stanza ma non tornarono mai più a unirsi.

Da adolescente mi macchiai d’incesto con uno dei miei figli: il Bomboncito della fattoria, un bambolotto con i capelli rossi grande quanto un bambino di tre anni che usavo per masturbarmi. Cos’avrà detto Bomboncito al soldatino di piombo e agli altri suoi fratelli alla fine della giornata, quando tornavano alla vita per raccontarsi le loro peripezie a fianco della ragazzina che dormiva nella stanza? Spero che abbia parlato bene di me. In caso contrario sarebbe stato un ipocrita.

I manuali per le donne in gravidanza parlano molto di come curare la propria alimentazione, evitare il fumo, non bere, fare ginnastica e lottare contro le smagliature, ma nessuno dice niente su Rotten. Nessuno dice: non ti avvicinare! Pericolo! Te ne pentirai.

Quella è stata la prima volta in cui mi sono sentita una donna. O una persona. O un abbozzo di madre con un abbozzo di morale

Questo sito ormai classico è un archivio di immagini e dati macabri. È specializzato nell’orrore e nelle sue manifestazioni più insopportabili: coprofagia, squartamenti, autopsie, suicidi, esecuzioni, massacri, celebrità morte. Si trovano le foto del presunto cadavere di Marylin Monroe e dell’impiccagione di Saddam Hussein. Ma a turbare di più sono i morti anonimi. Ricordavo di aver dato un’occhiata al sito con disgusto qualche anno prima, ma nei giorni successivi al risultato del test di gravidanza mi sono rimessa davanti allo scheletro che dà il benvenuto nella homepage.

Non so se era per il cocktail molotov di ormoni, ma quella “fantastica avventura chiamata gravidanza”, “l’attesa più entusiasmante della tua vita”, “gli indimenticabili nove mesi” avevano scatenato il mio lato più dark. Non ero l’unica, avevo sentito parlare di donne in attesa che non riuscivano a smettere di immaginare il figlio con delle malformazioni. Erano perseguitate dai fantasmi. Chiudevano gli occhi e lo vedevano con qualche deformità.

Ormai ero su Rotten e mi sono lasciata attrarre da un link irresistibile. Diceva: “L’ultimo tabù”. Internet può farti passare da una sensazione a un’altra completamente diversa in un clic. Stai controllando la posta dopo aver sbucciato un mandarino e ti capita davanti un’immagine impossibile: un uomo che mangia un neo-nato. Un neonato fritto. Non so se l’uomo fosse un criminale, un commensale dalle abitudini bizzarre o un pessimo buffone abile con la plastilina, ma ingurgitava un piccolo neonato dorato adagiato su un piatto, masticando il suo minuscolo braccio come se fosse un’ala di pollo croccante. Sembrava troppo reale. Era reale.

Quella è stata la prima volta in cui mi sono sentita una donna. O una persona. O un abbozzo di madre con un abbozzo di morale. Ed è stata la prima volta che ho vomitato, proprio come una donna incinta più sensibile del normale.

Ma non ho vomitato mio figlio. Per farlo avrei dovuto prima ingoiarlo. Come Saturno. Ora che ci penso, l’immagine di Rotten potrebbe essere benissimo un omaggio al quadro di Rubens che si trova al museo del Prado a Madrid. Per il suo realismo è anche peggiore di quello di Goya. Sulla tela il dio Saturno divora uno dei suoi figli, un bambino biondo e paffuto come un cherubino. Gli strappa il petto con un morso. Il neonato sanguina e ha il volto sofferente. Il mito greco racconta che Saturno divorò i suoi figli perché un oracolo l’avvisò che uno di loro lo avrebbe detronizzato. Così avvenne. Zeus si salvò perché sua madre, Gea, lo sostituì con una pietra che avvolse nelle fasce. Poi Zeus costrinse Saturno a vomitare i suoi fratelli.

In quei momenti, tutto l’assunto freudiano del banchetto totemico acquistava un senso: mangiare il padre simboleggia il culmine del desiderio di occupare il suo posto come capotribù. Il padre egoista che vuole per sé tutte le femmine caccia il figlio dalla caverna. Lui torna con i suoi amichetti, lo uccide e lo divora. Immagino che gli uomini primitivi potessero permettersi di essere cannibali quando avevano fame. Non andavano troppo per il sottile.

Io cominciavo a essere divorata. Non c’era il minimo dubbio. Dall’interno verso l’esterno.

Dopo due mesi di gravidanza il feto è perfettamente formato. Ha una bocca enorme, il naso schiacciato e gli occhi ancora senza palpebre, aperti verso l’oscurità più insondabile. I manuali “il tuo bambino mese dopo mese” descrivono con tale minuziosità lo sviluppo dei suoi tratti facciali, degli arti, del sistema digerente e nervoso, che verso sera mi travolgeva la pietà per quelle piccole braccia solcate di vene blu e rosse, tanto quanto la voglia di abbracciare quel povero embrione e di fargli una sciarpa all’uncinetto.

Ma durante la notte s’impadronivano di me i pensieri più bui. La maggior parte degli aborti avvengono in quel periodo, al secondo mese, quando la presenza del feto si rileva chiaramente: così è più facile che il pesciolino cada nella rete. Le sue articolazioni sono ancora flessibili come la cartilagine. Dopo i due mesi è molto pericoloso, perché le ossa del feto sono diventate dure e possono danneggiare le pareti dell’utero. Mentre i manuali mi addolcivano, Google continuava ad alimentare l’immaginario sinistro che il mio stato d’animo reclamava. Ho digitato “aborto a due mesi” e sono apparse foto degne di Rotten. In una si vedeva un braccio minuscolo, perfettamente formato, spesso quanto uno stuzzicadenti, lacero e pieno di sangue. La foto era chiaramente truccata. Il braccio di un embrione di otto settimane non può raggiungere quelle dimensioni, in tutto misura al massimo due centimetri. Anche se ha una forma umana, per vederlo c’è bisogno di un microscopio.

Di solito l’embrione produce nella madre un ormone per evitare il rigetto con cui il corpo reagisce naturalmente alla presenza di un invasore. Intuivo che le nausee erano una reazione del mio organismo alla presenza di un oggetto estraneo non identificato. Come quando assumi qualche droga e senti nausea o voglia di andare al bagno. Il nostro sistema immunitario riconosce la presenza del nemico e lotta per liberarsene. Il nostro corpo è capace di ricorrere ai metodi più tremendi per disfarsi degli intrusi. Se il futuro neonato che si impianta nell’utero non mandasse queste onde per non essere confuso con un corpo estraneo, sarebbe distrutto dalla stessa madre. A volte, però, sembra che la madre non comprenda la lingua degli ormoni o ignori il messaggio. O prema direttamente il tasto “elimina”.

Mi ripromisi di non avere mai più un aborto. Due erano già un record sufficiente per i miei diciott’anni

Secondo i manifesti antiabortisti, l’embrione prova dolore, “si oppone violentemente a essere squartato vivo”. Non posso fare a meno di sentirmi una serial killer. Solo una donna che ha abortito sa cosa significhi. Il rimprovero può arrivare dall’esterno o da se stesse. Ci sono sempre persone intorno, leggi, preti, precetti morali, che ci dicono perché dobbiamo o non dobbiamo soffrire. Ma davvero la questione è quando comincia la vita, se al momento del concepimento, se alla prima o alla ventottesima settimana, quando è un uovo pieno di dna o un feto che può vivere fuori dall’utero, quando è un neonato o un bambino educato tra gli uomini.

Lo scrittore Hernán Migoya sul suo blog ha scritto di essere a favore dell’“aborto postparto”, ora che tutti i suoi amici tranne lui stavano avendo dei figli. Sosteneva che non avrebbe mai avuto bambini perché era lui il suo stesso bambino: “Non sopporterei l’idea che un marmocchio mi togliesse dal centro dell’attenzione, quella altrui e tanto più la mia! Non so a cosa diavolo pensa la gente quando ha figli. Ha tanta fretta di rinunciare a essere il fulcro della propria vita? Ha così tanta voglia di liberarsi di sé?”. Migoya dice che tutti gli artisti sono stati dei genitori orribili, dei genitori figli di puttana. E se l’istinto assassino si risvegliasse molto dopo? Quanti modi esistono per uccidere? Chi denuncia questi crimini?

Avevo sedici anni ed ero innamorata. Non potevamo andare in un albergo perché sembravo troppo piccola. Allora improvvisavamo un letto con delle coperte sul pavimento del piano rialzato di un edificio vicino. Ci portavamo un cartone di vino e spinelli. Era tutto quello di cui avevamo bisogno.

La prima volta che ho fatto l’amore ho perso del sangue. Non so perché alcune donne sanguinano e altre no. Ma ho sentito ragazze raccontare con grande orgoglio di non aver sanguinato. Una rivendicazione femminista per sminuire l’importanza della “deflorazione”? Davo troppa importanza alla questione vaginale? In realtà, più per distrazione che altro, scoprii il clitoride abbastanza tardi e trascorsi metà della mia infanzia a mettermi delle cose nella vagina.

Forse non dovrei dirlo, ma fui commossa dalla traccia dell’imene che, per quanto mi fossi sforzata, non ero riuscita a rompere da sola. Lui dipingeva. Se non fosse diventato così terribilmente dipendente dalle droghe forse sarebbe potuto diventare un buon illustratore. Gli piaceva disegnare e quindi intinse il dito nel mio sangue e tracciò l’iniziale del suo nome sul muro, come se firmasse un quadro. Un gesto talmente reazionario da essere quasi affascinante. Per mesi tornammo nel luogo in cui persi la mia inutile verginità per vedere se i suoi segni fossero ancora lì. E c’erano, anche se ogni volta più scoloriti.

Quando raccontai questa storia di graffiti sanguinolenti alle mie amiche dell’università, illuminate e sessualmente liberate, per poco non mi linciavano.

Vivevamo molto vicino all’istituto peruviano di genitorialità responsabile. Cominciammo a frequentarlo perché la mia vita sessuale era appena all’inizio e non mi sembrava di buon gusto andare dal ginecologo con mia madre per farmi controllare la cistite o i funghi che mi venivano ogni tanto. Credo di non essere mai stata così irresponsabile come allora. Andavo al centro, parlavo con gli psicologi e i consulenti per i giovani, mi lasciavo visitare dai medici, provavo nuovi metodi anticoncezionali. Mi regalavano intere scatole di preservativi, però non li usavamo mai.

Finché successe. Il mio fidanzato lo raccontò a sua madre e lei ci portò da un dottore che aveva lo studio all’ultimo piano di un condominio di San Isidro. Mi stesi sul lettino e mi addormentarono. Non sentii nulla. Io, che ero una ragazzina estremamente frivola (ma mai quanto una conoscente dell’università che mi aveva confessato di averlo succhiato al suo ragazzo in un consultorio come questo subito dopo aver abortito), gli chiesi di mostrarmi quello che mi aveva tolto e il medico mi rispose seccamente che non c’era niente da vedere, che era solo un grumo di sangue.

“Lo voglio comunque vedere”, supplicai.

Il medico si fece da parte e comparve una donna che somigliava molto a Kathy Bates di Misery. Era l’infermiera, aveva in mano una bottiglia che sembrava di vino. Il mio animo da quindicenne era curioso e allegro. Mi sentivo importante e avevo voglia di essere viziata, come quando ti tolgono le tonsille. Mi dissero di non mangiare niente di piccante quel giorno ma mia madre, che non sapeva nulla, per cena mi preparò della carne insaporita con il peperoncino e, visto che mi piaceva molto, la mangiai. Non successe niente. Non sentii niente. Lo raccontai alle amiche come uno dei tanti aneddoti della mia vita: mi sono venute le mestruazioni, mi sono depilata le gambe, ho avuto un aborto. Lo raccontavo perché mi piaceva vedere le loro facce interessate.

La seconda volta che rimasi incinta non fu per errore: lo pianificammo meticolosamente. A quell’epoca ci vedevamo di nascosto. La mia famiglia mi aveva vietato di frequentarlo per proteggermi. Fu nel momento peggiore della sua dipendenza dalle droghe. Io ero già maggiorenne, quindi affrontai i miei genitori, gli dissi che avrei avuto un figlio, che lui avrebbe chiuso con la droga e saremmo stati felici. Mia madre mi disse che avrei dovuto abortire. Mi spiegò piangendo che era per il mio bene, che non dovevo commettere la sciocchezza di avere un figlio alla mia età con un “tossicodipendente”. Ma a me di essere ragionevole non importava. Volevo solo che la mia storia d’amore continuasse e un bambino avrebbe potuto aiutarmi a realizzare quel sogno. Mi chiusi nella mia stanza, mi buttai sul letto e piansi fino ad addormentarmi.

Quando mi svegliai sentii la voce di mio padre. Stava piangendo anche lui e mi sussurrava qualcosa, di sicuro credeva che stessi ancora dormendo, mi pregava di non avere il bambino e mi chiedeva scusa. Alla fine gli dissi che l’avrei fatto. Non sopportavo i loro volti pieni di dolore. Anche se a dire il vero a convincermi fu una telefonata del padre del bambino che mi informava che in quel momento stesso sarebbe entrato in un centro di riabilitazione, che lo dovevo aspettare con nostro figlio, che una volta uscito saremmo stati felici. L’intenzione era buona, ma avrei preferito che mi dicesse che aveva due biglietti aerei per il Messico.

I miei genitori mi portarono in un altro edificio sinistro, stavolta nella zona di Jesús María, il medico era di qualche ong e conosceva i miei genitori. Poco prima di iniziare il raschiamento sentii un’enorme angoscia e urlai di dolore. Ero sveglia. Dissi al medico che non potevo farlo. L’infermiera, una completa estranea, mi abbracciò per pura compassione. Tutto, però, si sarebbe consumato nei minuti successivi. L’aspirazione mi fece molto male e gridai. Pensai che fosse evidente che il neonato e io non volevamo separarci. Il medico mi disse: “Non strillare, l’aborto è illegale in questo paese e i vicini possono lamentarsi delle grida”. Esaurii le mie lacrime in silenzio, trattenendo il dolore e la sensazione che, pur non essendo uno stupro, sicuramente gli si avvicinava molto.

All’uscita tremavo di freddo. Ero sconvolta. I miei genitori mi sostennero, mi portarono a casa e si presero cura di me come se avessi di nuovo il morbillo. Io mi lasciai accudire. Non c’era niente da fare. Il mio era un amore senza speranza. E questo era un secondo tentativo fallito.

Mi ripromisi di non avere mai più un aborto. Due erano già un record sufficiente per i miei diciott’anni. A quanto pare avevo già approfittato abbastanza del mio diritto di donna emancipata e padrona del mio corpo, anche se avevo la sensazione di aver fatto completamente l’opposto.

Quattro anni dopo rimasi di nuovo incinta. Del ragazzo che mi fece dimenticare il mio primo amore, anzi, del ragazzo che mi fece dimenticare cosa fosse l’amore.

Quel giorno presi diverse decisioni per il mio futuro: non avrei mai fatto una maschera per mio figlio, ma di certo gli avrei insegnato a sparare

Quella volta fu lui a portarmi ad abortire. Alcuni giorni prima mi aveva rotto il naso con un pugno. Io l’avevo sottoposto a lunghe sedute di violenza psicologica e infedeltà sistematiche che, nella mia visione del mondo, erano un modo per vendicarmi della sua incapacità di fare l’amore con me dopo la guerra. Odiavo me e odiavo lui, a cosa sarebbe servito avere un figlio? Anche il resto di noi doveva scivolare via attraverso le tubature. Fu un’eccellente iniziativa da parte sua che applaudii solo molto dopo.

A volte mi chiedevo se in futuro avrei potuto avere dei figli, se qualche parte di me non avesse subìto un danno irreparabile. Dato che non credo nell’inferno, se fosse esistito, pensavo, questo sarebbe stato un castigo su misura per me.

Dall’inizio delle mie vacanze a Lima mia madre non fece che viziarmi, prepararmi i miei piatti preferiti, preoccuparsi di me e dei miei sintomi. Come sempre, alle sue dimostrazioni di amore rispondevo con un sarcasmo crudele di ribellione tardiva. Non so perché insieme liberassimo quelle strane energie. Non so se fosse una gara per vedere chi delle due fosse più brava a sottomettere l’altra. Io opponevo resistenza a lasciarmi alle spalle una volta per tutte i litigi dell’adolescenza e a inaugurare un rapporto più maturo con lei. Lei continuava a vedermi come la quindicenne che si copriva la faccia di cipria imitando Michael Jackson.

Come ogni mattina mi misi davanti allo specchio per vedere come mi stavano i vestiti che avevo scelto per quel giorno. Mia madre uscì all’improvviso dalla cucina, mi vide e mi disse: “Dove vuoi andare con quella gonna sopra quei pantaloni. Stanno malissimo”.

Lo disse con un tono così familiare da paralizzarmi, però fui comunque capace di risponderle. Io ero uscita da molti anni, e ormai per sempre, dal suo campo di fragole, ma sembrava che lei non l’avesse capito. La guardai dall’alto in basso, soffermandomi a lungo sulla sua camicia tigrata e i suoi pantaloni extralarge.

“Ti sei vista allo specchio, mamma?”.

Lei abbassò lo sguardo per la prima volta dal mio ritorno, per la prima volta da quando avevamo cominciato questo gioco durato tutta la mia esistenza.

L’avevo ferita.

Stavo per ritirarmi trionfalmente, ma mi accorsi che stava piangendo. Non mi sentii più così vittoriosa.

“Non piangere, per favore”.

“Dove ho sbagliato? Perché sei venuta su così? Dalla tua bocca esce sempre merda”.

Questa era l’opportunità che avevamo tanto aspettato. Lei si sarebbe sfogata, mi avrebbe detto quanto fosse complicato essere madre, tanto o più difficile che essere figlia. Avrebbe giustificato il suo accanimento nei miei confronti raccontandomi dell’ostilità di mia nonna. Ci saremmo abbracciate e ci saremmo chieste perdono.

Avevamo ereditato da mia nonna la tendenza alla critica distruttiva. Entrambe, come lei, potevamo essere molto dolci, ma quando eravamo di cattivo umore diventavamo estremamente dirette, violente e perfino vessatrici.

Nei giorni della mia visita a Lima rimaneva poco di mia nonna, che era stata severa con i suoi figli e aveva viziato i suoi nipoti, che aveva riso delle nostre marachelle, ci aveva offerto il suo profondo sostegno e i suoi piatti: giaceva prostrata nel suo letto in una stanza con una carta da parati che creava un paesaggio primaverile pieno di fiori gialli, senza poter parlare o muoversi, dopo diversi ictus, accudita da mio nonno e da due infermiere. Sarebbe morta poco tempo dopo.

Una volta mia madre mi confessò che sua madre trovava difetti quasi in tutto: un giorno le aveva detto che se continuava a tornare a casa tardi, “come un uomo”, i vicini avrebbero pensato che era una puttana.

Mia madre era cresciuta sentendosi dire queste cose, ma continuò a rientrare tardi e a fermarsi alle assemblee in cui insieme ad altri ragazzi che chiamava “compagni” sognava di fare la rivoluzione che avrebbe messo fine alle ingiustizie, anche se poi doveva tornare a dormire nel suo letto di bambina povera e cattolica. Non ebbe mai paura che sua madre o i vicini credessero che fosse una puttana. Neanche a me faceva paura che lei mi ritenesse una produttrice di merda verbale.

Senza smettere di guardarla presi la mia borsa e me la misi a tracolla davanti alla pancia. Pensai di uscire senza dire una parola, ma non ci riuscii.

Mi avvicinai e le diedi un bacio. Lei rimase in silenzio davanti allo specchio.

La prima immagine che ho di mia madre è di lei che mi punta contro un fucile. Non è una metafora, è la verità. Nella foto in bianco e nero avrà avuto dieci anni, mio nonno l’aiutava a sostenere l’arma e lei guardava un punto lontano, mentre il fucile era diretto verso la macchina fotografica. Il mio vecchio album di foto cominciava così. Non so perché quella foto fosse lì. Credo di averla rubata dall’album di mio nonno. Mi piaceva il contrasto dell’immagine: una bambina vestita a festa che impara a sparare con suo padre. Una bambina che sarebbe diventata mia madre. Nella foto successiva dell’album c’era quella stessa bambina, quasi con lo stesso dolce sguardo, che allatta un neonato. Il neonato ero io. Avevano scattato quella fotografia a mia madre in ospedale, il giorno dopo la mia nascita. Mia madre sembrava stanca ma felice, come nelle pubblicità dei pannolini. Mentre succhiavo assorta, con la mia minuscola mano scura aggrappata al suo petto, solo una testolina nera stretta tra un seno e il mondo, lei guardava mio padre, pettinato secondo la moda degli anni settanta, e gli diceva qualcosa. In un’altra foto mi ero trasformata in un fiore dai petali rosa e lo stelo rosso per una recita scolastica. Ricordo che mia madre mi aveva cucito la maschera e, dato che non era riuscita a trovare le calze verdi richieste, mi aveva preparato con grande amore dei pantaloni di carta crespa verde che si ruppero al primo piegamento, per cui erano rimaste allo scoperto le mie calze rosse. Io mi vergognavo tantissimo; ma quale bambino vestito da fiore non s’imbarazza?

Alla fine trovai la foto che stavo cercando: quella della gita a Chosica con i bambini della mia classe, quando ero in prima elementare, la foto dell’umiliazione. Sullo sfondo i miei compagni, compresa la mia migliore amica, che si divertono facendo il bagno in piscina e ridono a crepapelle; in primo piano io, vestita e con due codini, con l’espressione più triste che avessi mai visto nella vita, abbracciata alla statua di bronzo dell’angioletto che innaffiava la piscina con il suo pene. Avevo il raffreddore. Ricordo che i miei genitori avevano generosamente acconsentito a mandarmi comunque in gita ma non vollero che facessi il bagno in piscina per paura che mi ammalassi di più.

Quel giorno presi diverse decisioni per il mio futuro: non avrei mai fatto una maschera per mio figlio, non l’avrei mai mandato in gita con il raffreddore, ma di certo gli avrei insegnato a sparare.

Il rientro simbolico nella casa di mia madre accelerò quando un lieve disturbo lombare, che già mi faceva soffrire a Barcellona, cominciò a farmi zoppicare per l’infiammazione del nervo sciatico. È abbastanza comune tra le donne che entrano nel terzo trimestre e ne soffre fino al 30 per cento delle gestanti. È un dolore che parte dall’interno della natica e scende giù per la gamba. Non mi sorprese vedere mia madre prendersi carico della figlia zoppa che tornava a dipendere dagli altri dopo anni di autogestione all’estero. La prima cosa che fece fu portarmi nel suo ambulatorio medico di fiducia: il policlinico peruviano-giapponese. Dopo dieci anni di fujimorismo, c’erano cose ancora troppo radicate nelle abitudini delle persone. L’importante era che i prezzi erano bassi e c’era un servizio di terapia di riabilitazione. E quindi eccomi lì, nel bel mezzo delle vacanze, ad aspettare il mio turno in una stanza piena di gente che usava prodotti ortopedici e a parlare con mia madre.

“Quando sei nata avevi l’ittero, eri tutta arancione, ti hanno portata via e non ti ho visto fino al giorno dopo”.

L’ittero si manifesta con un color giallastro anormale, dovuto a un eccesso di bilirubina nel sangue che il fegato di un neonato non riesce a elaborare. Si cura con la fototerapia (esposizione alla luce) e nella sua forma lieve dura solo un paio di giorni. Ne soffrono quasi tutti i bambini, e probabilmente anche mio figlio sarebbe stato tra loro.

“Non sapevo quello che sentivo quando ti ho visto”.

“Non è amore a prima vista?”.

“No. Speravo solo che non ti succedesse niente di male e ti ho aspettato. Per abbracciarti e proteggerti”.

“Una sensazione un po’ animale…”.

“Sì, come un animale con il suo cucciolo. Di sicuro quella notte che hai passato senza di me ti ha fatto sentire la mia mancanza ed è stato lì che è nata la poetessa”.

Mia madre ha sempre creduto che io sia una poetessa. Anche se darebbe di tutto perché io mi rimettessi a comporre poesie e articoli culturali, finisco sempre per farle leggere le cose sporche che scrivo oggi per nascondere il mio lato sdolcinato. Di ritorno dalla clinica, mi misi a frugare di nuovo in uno dei miei bauli. Alla fine trovai il foglio giallastro, del colore dell’ittero. Era una lettera che mia madre mi aveva scritto prima che nascessi, mentre era incinta. Ora lei credeva alla Virgen de las manzanas, agli apu andini e a Deepak Chopra, ma quando mi portava nel suo grembo era un’agguerrita dirigente sindacale che militava con mio padre in un partito di sinistra e io ero il germe di quell’amore rivoluzionario, quasi un’idea in cui credere, un’altra utopia.

La lettera diceva:

Figlio mio o figlia mia,
i tuoi genitori sono politici, fanno politica, ma su questo fronte di lotta le cose non sono facili, poi te lo spiegheremo; ti anticipo che è questa ricerca a mandare avanti e a segnare le nostre vite. Scusaci quindi se le tensioni emotive, i dispiaceri o le collere che sempre segnano il rapporto tra uomini e donne d’azione possono averti colpito. Ma non vogliamo che tu sia un bambino o una bambina triste; non lo siamo neanche tuo padre e io. Sappiamo, e lo avrai notato, vivere momenti in cui torniamo bambini, giochiamo con amore, ridiamo, ci piace guardare un bel fiore che con la sua forma e il suo colore ci trasmette dolci sensazioni. Di questi momenti vorrei dartene molti di più di quanti tu non ne riceverai da noi. Ma sai di cosa devi essere contento? Del fatto che né tuo padre né tua madre vivono una vita scialba; siamo appassionati, e dove ci troviamo non possiamo permettere l’ingiustizia, l’inganno e men che mai la vigliaccheria. Come sarai, bambino mio o bambina mia?

La sera zoppicai fino alla sua camera e mi infilai nel suo letto. Lei dormiva. Le sussurrai all’orecchio o sognai di farlo: “Sono così, mamma, non mi rallegra guardare un fiore, non sono una donna d’azione, ma non sono neanche triste”. Lei mi svegliò presto per fare i miei esercizi di riabilitazione, che consistevano nel rimbalzare seduta su un’enorme palla. Non so che cosa, ma qualcosa non mi faceva più tanto male. Fu così che persi la mia libertà e da quel momento mi abbandonai completamente al gioco di essere sua un’altra volta. Purtroppo non ci rimaneva più molto tempo. Tre giorni dopo sarei tornata in Spagna. Di nuovo fuori dal suo campo di fragole per sempre.

Primavera. Non è una bugia quello che dicono. Alcune donne incinte che entrano nel secondo trimestre e che si sono abituate alle forme rotondeggianti e al loro enorme seno pensano solo al sesso. Io ero una di loro. È vero, dovevo trovare un lavoro il prima possibile, altrimenti non avrei potuto completare i sei mesi lavorativi richiesti per ottenere la maternità e mettermi in regola, ma esorcizzavo la mia ansia perdendomi nelle gallerie online di immagini di donne incinte nude.

Per una donna mediamente eterosessuale vedere corpi di altre donne è comunque molto eccitante, seni e vagine ci mandano su di giri molto di più della vista di un pene eretto. Cominciai scattando foto a me stessa. L’ho già detto: avevo molto tempo libero. Prendevo la mia macchina digitale e mi fotografavo in pose ginecologiche. Mi misi alla caccia di foto di altre donne in gravidanza. Pensai che solo io e altre cicciottelle potessimo provare curiosità per le gestanti. Mi sbagliavo. Scoprii un mondo sotterraneo attorno alle cosiddette “pancione”, inserite all’interno del genere “piaceri strani”, proprio accanto alla zoofilia, alle grasse e alla terza età. A quanto pare noi donne in attesa eravamo una specie pornografica a sé, chiamata “nove lune”. Cosa poteva trovare un uomo di tanto eccitante in una donna in attesa di un figlio? Con le nostre tette enormi coronate da un paio di capezzoli scuri e la pelle tesa del ventre striato dalle smagliature, con il nostro volto angelico e una luce di pienezza negli occhi, noi future madri eravamo come bombe sessuali. Per qualcuno era un surplus erotico. Avevo fortuna.

I titoli delle foto o dei video di donne in dolce attesa svelavano la stessa creatività dei video porno normali: “Scopando all’ultimo mese di gravidanza”, “Bellissima mammina con figa succosa”, “Donna incinta esibizionista”, “Due lesbiche gravide trombano”. Tra gli annunci trovai diversi uomini che cercavano donne incinte per realizzare le loro fantasie. Offrivano “aiuto economico” e promettevano di “viziarle”. Un messaggio diceva: “So che la donna incinta è focosa, ma è timida e non lo ammette”. Altri: “Sono così tenere!”. Un altro: “Sono più sensibili là sotto”. Così, nell’immaginario dell’uomo con il gusto per le gestanti, quelle donne erano esseri vulnerabili e focosi con delle tette enormi. Insomma, la donna ideale.

Qualcuno confessava di essere ossessionato dall’idea di fare sesso con una donna incinta da quando la moglie l’aveva lasciato a pane e acqua per i nove mesi della gravidanza: “Non voleva che la toccassi, le faceva male il seno, si vedeva grassa, le faceva male la testa, le dava noia il mio profumo”. Trovai altre spiegazioni: non dover usare il preservativo era la più stupida; che fosse un modo per fare un trio la più inquietante. Qualcuno lanciava questa domanda sul forum: “Non vi attizza pensare che qualcuno se l’è già sbattuta come si deve?”. Un altro aggiungeva carne al fuoco: “Mi eccita sapere che qualcuno gliel’ha messo dentro senza preservativo ed è venuto dentro di lei. Mi eccita come un maiale”. Infine, c’era un partecipante del forum che si faceva chiamare Doctor Dou che sosteneva: “Le donne incinte verso il sesto mese sperimentano una sensazione di tenesmo retto-anale (una sensazione di vuoto tra l’ano e il retto), simile a una palpitazione intensa, hanno un’enorme voglia di soffocarla e di accogliere in quella zona qualcosa che le riempia del tutto, e per via degli ormoni i muscoli anorettali si distendono e invitano a un coito profondo e sostenuto”.

C’era qualcosa di vero in tutto ciò, ma la realtà era che non tutte avevamo la stessa fortuna. Ci sono donne incinte che hanno la libido molto bassa perché temono di far male al bambino, non accettano l’aumento di peso, si sentono a disagio e per niente sensuali. Inoltre il desiderio oscilla, nei tre trimestri aumenta e diminuisce. All’inizio le nausee e il malessere generale riducono la voglia; verso il quarto mese tornano le energie e il desiderio schizza alle stelle.

Era quello che stava succedendo anche a me. Senza andare troppo lontano, la sera prima – solo perché ero troppo pigra per accendere il computer e guardare un dvd porno e perché mi dispiaceva svegliare J, che dormiva dopo un’estenuante giornata di lavoro – avevo pateticamente soddisfatto le mie voglie con il prezioso aiuto del mio realistico vibratore a forma di pene (nero) guardando il canale 25 della televisione locale catalana, che trasmette porno di pessima qualità tutta la notte, generalmente su uno schermo minuscolo infestato di pubblicità di numeri di telefono con scene che si interrompono dolorosamente sul più bello.

Man mano che la gravidanza procede e si avvicina il parto, il desiderio diminuisce di nuovo. A volte il problema non è la donna incinta ma il marito. Sono entrata in una chat e c’era una donna con la quale il marito non voleva fare l’amore per paura di fare male al bambino: “Ma i miei ormoni non sentono ragioni e mi masturbo tutti i giorni, diverse volte al giorno. E cerco di vedere il mio amante appena posso per soddisfare il mio desiderio”. Una donna incinta con un amante. Questa sì che è bella. Altro che la mia seduta di masturbazione. Quando stavo per chiudere la pagina web la ragazza insoddisfatta mi ha rivolto la parola:

“Ciao, chi sei?”.

“Sono G, anch’io sono incinta”.

“Ah, ok. Hai delle foto?”.

“Ehm… sì. E tu?”.

“Ne ho appena caricata una mia. Mandami una foto tua e io ti invio una foto in cui si vede la mia faccia”.

Nell’immagine la ragazza, incinta di sette mesi e nuda, era sdraiata in qualche posto all’aperto. Io le ho mandato una delle foto più caste che mi ero fatta, una in cui ero in lingerie nera. In cambio lei mi ha spedito altre tre foto in cui mostrava la sua faccia, una faccia molto normale e molto seria. Era un po’ rossa di capelli, anche i suoi peli pubici lo erano. Ho chiamato J per condividere l’esperienza di una chat erotica con una donna incinta. J è stato molto contento ma mi ha detto che la cosa più probabile era che fosse una fregatura per avere delle foto e diffonderle sul web. Mi sono messa a ridere. Ho continuato a chattare con la mia collega incinta, ma siamo arrivate a un punto morto.

“Hai una webcam?”, mi ha chiesto.

“No”.

“Allora ciao. Senza webcam non faccio niente”.

E si è disconnessa. Mi ha mollata lì.

E c’è ancora chi pensa che noi donne incinte siamo tutte tenere.

Il mio parto naturale è cominciato con un’ambulanza.

Prima avevamo riempito la vasca da bagno con dell’acqua tiepida, mi ero spogliata e mi ero immersa. Avevamo acceso delle candele aromatiche e spento la luce. Avevamo anche messo su un po’ di musica. Ma era troppo tardi per fare la hippy. Tanti anni di sofferenza non si cancellano con un colpo di spugna. Ho resistito nella vasca una decina di minuti. Il resto del tempo l’ho passato trascinandomi per terra. Dal letto al divano e dal divano al letto. J ha provato a farmi qualche massaggio, ma io avevo solo voglia di prenderlo a botte. Non mentirò: non ero un esempio di coraggio. Quello che stava succedendo era più grande di me. Ho espulso del liquido. Dovevano essersi rotte le acque. Mi avevano detto che se il liquido era chiaro avevo ancora tempo, ma se era scuro voleva dire che il bambino aveva fatto la cacca e correva il rischio di asfissiarsi. Noi dovevamo correre.

J ha chiamato un taxi. Gli hanno detto che non ce n’erano. Ha chiamato un altro numero e la risposta è stata la stessa. Ha preso l’elenco telefonico e ha composto decine di numeri di taxi con lo stesso risultato. Alcuni dicevano che ci avrebbero messo più di un’ora. J spiegava che la situazione era urgente, che dovevano mollare tutto e venire a prendere la sua compagna partoriente.

“Perché non abbiamo una macchina? Perché non abbiamo chiesto a nessuno di accompagnarci? Perché non abbiamo amici con una macchina?”.

Davanti al dramma del trasporto non mi era rimasto un grammo di humour nero.

“Chiama un’ambulanza”, ho detto a J.

“Le ambulanze trasportano le donne incinte?”.

“Digli che è mezzo fuori, che si vede la testa. Che non c’è un cazzo di taxi in tutta la città.

Bel modo di cominciare il mio tanto sbandierato parto naturale. L’ambulanza era per strada. In meno di cinque minuti hanno suonato alla porta. Sono uscita camminando da sola fino alla porta. Non c’era bisogno che esagerassi. Ero in uno stato abbastanza pietoso. Quelli dell’ambulanza mi hanno fatto salire dietro. J è montato davanti. All’interno dell’ambulanza mi aspettava una di quelle signorine del servizio medico di urgenza. L’ho guardata con diffidenza. A quel punto pensavo che tutte le donne mi volessero mettere un dito dentro. Ed era vero. L’ha fatto. L’altro soccorritore le ha chiesto se ero a buon punto. “È già in posizione”, ha risposto lei. Finalmente una buona notizia. Anche vedere Barcellona da un’ambulanza mi ha fatto sentire meglio. Esibizionismo puro: le sirene suonano e le persone si voltano a guardare, immaginando che dentro ci sia un moribondo. È quasi bello quanto veder passare un carro funebre. Mi sono sentita come il dottor Hannibal Lecter, falsamente ferita e con la voglia di mangiarmi il naso dell’infermiere.

Sono arrivata al reparto maternità in pompa magna, tra le sirene e le luci rosse di un’ambulanza. Sono entrata dalla porta sul retro e ho fatto un ingresso trionfale nella sala del pronto soccorso. Le porte si aprivano al nostro passaggio. Finalmente non ero una malata immaginaria. Mi stavo rifacendo di tutte le volte che ero arrivata in ospedale senza nessun motivo con l’atteggiamento di chi sta vivendo una catastrofe (postumi da sbronza confusi con inizi di infarto). J è stato fermato di nuovo sulla porta e gli è stato vietato l’ingresso. Mi hanno visitato e hanno visto che la dilatazione era aumentata di un solo centimetro. Da due a tre. Sentivo continuamente nella mia testa voci di donne che mi spronavano a difendere fino alla morte il mio parto naturale. La sola eventualità di rimanere lì a vivere il mio benedetto travaglio senza J, circondata da gente stressata, mi faceva tremare. Le contrazioni assunsero la forma di migliaia di proiettili che mi si conficcavano nei fianchi. Se avevo fortuna tra poche ore avrei avuto un nemico in meno al mondo.

Ha solo un segno su un occhio. È una ferita di guerra. Odora di pulito. È molto piccola, delicata e pallida

Adesso sono sul lettino della sala parto. Credo che J sia vestito di verde come uno dei tanti dell’esercito di medici, infermieri e ostetrici che riempiono la stanza. Ci sono circa dieci persone. Che io sappia, nessuno ha pagato il biglietto per vedere lo spettacolo. Tutti mi spronano. Ci sono due donne molto vicino a me, mi affido a loro, ho urgente bisogno di affidarmi a qualcuno.

Mi dicono cose positive, mi danno indicazioni tecniche, respira, spingi, respira. J mi prende la mano, lo guardo con occhi supplichevoli, mi dice che sto andando bene. So che sta facendo uno sforzo enorme per mostrarsi tranquillo, si capisce che è nervoso dal modo in cui il pomo d’Adamo del suo lungo collo si muove quando deglutisce. Mi accarezza la fronte con la mano umida e i nostri sudori freddi si mischiano. Io fisso i suoi occhi così belli, mi vedo attraverso di lui perché è meglio che guardarmi da sola con gli occhi spietati di sempre. Lo osservo e gli credo, è tutto sotto controllo. È un aspetto fondamentale della nostra vita insieme. Mi guarda e guarda là sotto, la porta da dove uscirà nostra figlia.

Non si allontana, non mi lascia, non mi fa cadere. L’ostetrica lo chiama per mostrargli che manca poco. La stanno già vedendo. Vorrei ci fosse uno specchio. Detesto non potermi sdoppiare per avere l’altro punto di vista, che me lo debbano raccontare.

J mi dice che si vede la testa. Mi chiedono di dare un’ultima spinta. Spingo con tutte le mie forze, ma non esce. Mi lacero lievemente, sono due punti che si cicatrizzeranno nel giro di poco. L’ostetrica racconta tutto come una partita di calcio. Di nuovo respiro e spingo. Tutti si congratulano con me al minimo successo, non ci faccio caso, per la prima volta nella vita sono concentrata su qualcosa che non sono solo io. Mi sforzo come mai prima, divento rossa, sudo, mi apro. A fianco il monitor mostra la frequenza cardiaca di mia figlia. Mi metto a guardare le fluttuazioni della sua fragile vita, che dipendono dal fatto che io faccia bene il mio lavoro. Sarà sempre così d’ora in poi.

Credo che tra poco cederò al sentimentalismo e come sempre voglio evitarlo a qualsiasi costo. Ma come sempre non ci riuscirò. Adesso arriva, si fa strada, la sento arrivare, la vedo, è sollevata in aria, infangata delle mie viscere, tiepida, scolorita, con la faccia di una pugile, me la presentano come un cameriere fa vedere una bottiglia di vino, come se potessi dire che non la voglio. Me la stendono addosso. Non è più un prolungamento di me. È un’altra. Piangerò? Se me lo domando è perché non piangerò.

Epilogo

Stanza 525. Fiori. Riconoscimento. La sua pelle è quella di un essere acquatico. Mi sembra che da un momento all’altro potrei trovare un’alga tra le dita dei suoi piedi. Sono tornata alle metafore marine, e allora? È completa. Ha solo un segno su un occhio. È una ferita di guerra. Odora di pulito. È molto piccola, delicata e pallida.

Ha delle mani lunghissime e traslucide come quelle di un vampiro. I suoi capelli sono neri, umidi e oleosi, in realtà somiglia a un cucciolo di eschimese: gli occhi a mandorla, distanti tra loro. Sono due fessure che si aprono come gli occhi di E.T. Probabilmente perché è spaventata, un po’ più di me. Guardare il tuo bambino appena nato è come assumere ecstasy. Un miscuglio di estrema dolcezza, apprensione e voglia di ballare. Ogni volta che torna dai controlli ha l’aria spaventata. Devo andarmene da qui il prima possibile. Odio tutti, voglio uccidere le infermiere, le famiglie e gli altri bambini.

Tengo Magdalena in braccio. J si occupa degli ultimi fogli per le dimissioni. Lo aspetto vicino alla porta. Fuori è una meravigliosa giornata estiva. Il sole splende. All’improvviso si avvicina una donna. È di origine filippina. Non capisco tutto quello che dice. Vuole vedere la mia bambina, per favore, solo un attimo. Gliela mostro. Mi dice che è molto bella. Si mette a piangere. Le domando cosa le succede. Cerco di consolarla. Non so cosa stia accadendo. Mi domanda quand’è nata, se è andato tutto bene. Le dico di sì, grazie. Mi assale la paura, abbraccio stretta Lena, comincio a pensare che da un momento all’altro me la strapperà via e se ne andrà con lei. Sicuramente è una psicopatica. Ecco il finale della dolce storia di una donna incinta ai nostri tempi. Il sequestro della sua bambina appena nata sulla soglia dell’ospedale.

Mi allontano, cerco J con lo sguardo, lui mi ha visto, viene verso di me, ma la donna mi segue, vuole spiegarmi una cosa. Mi raggiunge e mi dice che anche lei ha avuto un bambino, che somigliava tanto al mio, ma è morto qualche giorno fa in quest’ospedale, è nato senza problemi e poi le hanno detto che era morto, erano passati diversi giorni e ancora non le avevano restituito il corpicino. Mi prende la nausea. Le dico che mi dispiace, non posso fare altro.

“È un bambino?”, mi domanda singhiozzando. Le dico di no, è una bambina.

“Il mio era un bambino”, dice. J mi porta via da lì. Sento da lontano la donna che mi grida di prendermi cura di lei.

Siamo nascoste in un armadio. “Papà, vieni”, grida Lena. Ci guardiamo nell’oscurità. Shhh. Non facciamo rumore. Da piccola adoravo nascondermi negli armadi. Nella casa di mia nonna ce n’era uno con la porta scorrevole. L’odore di naftalina, i vestiti appesi che mi sfioravano il volto, starsene immobili, ascoltando i rumori dall’esterno e aspettando che qualcuno mi trovi o almeno mi cerchi. Arriva papà. Ci stringiamo. Siamo pronte per spaventarlo.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

Questo articolo è tratto dal libro Nueve lunas (Random House Mondadori 2009). È stato pubblicato il 30 dicembre 2011 nel numero 930 di Internazionale.

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