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Perché un attentato in Burkina Faso e perché proprio ora

Militari di guardia davanti all’hotel Splendid a Ouagadougou, il 18 gennaio 2016. (Joe Penney, Reuters/Contrasto)

Venerdì 15 gennaio 2016 sia l’hotel Splendid e il bar ristorante Le Cappuccino, nel centro di Ouagadougou, sia il nord del Burkina Faso sono stati scenari di attentati jihadisti. Il bilancio finora parla di 29 morti, decine di feriti e il rapimento, avvenuto a Djibo, alla frontiera con il Mali, dei coniugi australiani Arthur Eliot e Joséphine Kemeth.

La carneficina di Ougadougou è stata rivendicata da Al Mourabitoun, un movimento armato affiliato ad Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi). Il rapimento di Djibo è opera dell’Emirato del Sahara, un gruppo jihadista maliano, a sua volta succursale di Aqmi. Questi terribili eventi hanno aperto gli occhi dei burkinabè sulla vulnerabilità del loro paese di fronte alla follia omicida della galassia terrorista e, più in particolare, dei movimenti jihadisti che, dalla caduta del regime di Gheddafi nel 2011, furoreggiano praticamente in tutta la regione sahelo-sahariana, avendo come epicentro il nord del Mali.

I burkinabè hanno deciso di dotare il loro paese di una vera e propria democrazia

Per questo motivo l’immagine del Burkina, a lungo presentato come un’isola di pace, al riparo dalla furia jihadista in un oceano regolarmente insanguinato dai pazzi di Allah, non regge più. Le due grandi domande che uno si potrebbe fare sono le seguenti: perché anche il Burkina Faso è stato colpito così duramente e perché ora?

Prima di provare a dare una qualsiasi risposta occorre ricordare che non è la prima volta che il paese viene colpito dai jihadisti, anche se mai si era verificato un attacco della portata di quello di venerdì scorso. Sul perché sia stato preso di mira il Burkina, ci sono alcuni elementi che possono suggerire una risposta.

Il primo è che il paese ospita sul suo territorio alcune strutture occidentali che agiscono nel quadro della lotta al terrorismo nella regione. Le forze speciali francesi, come noto, stazionano sul territorio burkinabè, a partire dal quale, in caso di necessità, vengono lanciate operazioni antiterroristiche in altri paesi. È successo, per esempio, in occasione dell’attacco jihadista contro l’hotel Radisson di Bamako, in Mali. Da questo punto di vista, gli attentati del 15 gennaio possono essere visti come una rappresaglia.

Il secondo elemento da considerare, per dare una risposta alla stessa domanda, è legato al fatto che i burkinabè hanno deciso, dopo la caduta di Blaise Compaoré, di dotare il loro paese di una vera e propria democrazia. Un obiettivo che si sta trasformando in realtà grazie alle elezioni del 29 novembre 2015. I jihadisti, chiaramente, non possono rassegnarsi alla democrazia. Da questo punto di vista si può dunque comprendere che non siano disposti a lasciar crescere la democrazia nel “paese degli uomini integri”.

Il paese paga il prezzo dei compromessi del regime di Blaise Compaoré con la galassia jihadista

La seconda grande domanda che è possibile farsi a proposito di questi attentati è perché essi abbiano avuto luogo adesso. Ecco alcuni elementi su cui riflettere.

Il primo è che oggi il paese non si è ancora ripreso dall’instabilità del periodo di transizione, tanto che – nonostante l’elezione di Roch Marc Christian Kaboré – non tutti i gangli dell’apparato statale sono ancora in grado di funzionare a pieno regime. Un simile contesto aumenta l’instabilità del paese. Il secondo elemento è relativo alla caduta di Compaoré. Quest’ultimo, durante tutto il periodo in cui è rimasto al potere, aveva offerto riparo e copertura nel paese a molti terroristi. A ciò si aggiunge il fatto che i negoziati per la liberazione degli ostaggi in mano ai terroristi erano diventati un vero e proprio giro d’affari che faceva la fortuna dei notabili del vecchio regime e di alcuni di questi terroristi.

La caduta del loro gansoba (”tutore”, nella lingua nazionale moré) Compaoré potrebbe quindi aver significato per loro la rinuncia alla gallina dalle uova d’oro. Da questo nasce il loro odio ormai manifesto nei confronti del paese e dei suoi nuovi dirigenti. Da questo punto di vista, si può dire che il paese paga il prezzo dei compromessi del regime di Blaise Compaoré con la galassia jihadista.

Gli osservatori accorti sapevano che, prima o poi, questi compromessi avrebbero potuto rivoltarsi contro il paese. I membri del Movimento del popolo per il progresso (Mpp) hanno denunciato, in un comunicato, le responsabilità del clan Compaoré negli attacchi di venerdì scorso. Non va quindi scartata l’ipotesi di un’azione di destabilizzazione del nuovo regime, pianificata da lungo tempo, da parte di Compaoré che ha potuto contare sulla mano dei jihadisti e sul sostegno di alcune personalità politiche della sottoregione.

Ciò detto, è probabile che questi attacchi, al di là delle vittime provocate, bloccheranno il rilancio dell’economia promesso dalle nuove autorità e dissuaderanno molti investitori che avevano visto nella normalizzazione politica del paese un’opportunità di fare buoni affari. Se così fosse, i terroristi si fregherebbero le mani. In quest’ottica il nuovo governo non dovrà limitarsi a reagire ma dovrà, per esempio, prendere delle misure offensive, d’accordo coi paesi partner e i vicini e puntare sia sulla sicurezza sia sulla prevenzione.

Nel frattempo i burkinabè devono arrendersi al fatto che sarà necessario convivere con la minaccia terroristica, senza per questo dare l’impressione di rassegnarvisi. E per farlo sarà necessario ricorrere alla cultura del senso civico e della vigilanza a tutti i livelli. La posta in gioco è la difesa di una casa comune, ovvero il Burkina Faso. E nessuno deve tirarsi indietro.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano del Burkina Faso Le Pays.

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