×

Fornisci il consenso ai cookie

Internazionale usa i cookie per mostrare alcuni contenuti esterni e proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso, consulta questa pagina.

Nelle favelas di Buenos Aires si uccide più che in Messico

Una favela di Buenos Aires, in Argentina, il 5 novembre 2014. (Diego Levy, Bloomberg/Getty Images)

Alle sei di mattina di un giorno di settembre del 2013, due gang di “transas” (narcotrafficanti di basso livello) hanno cominciato a spararsi con pistole, mitragliatrici e fucili tra due case distanti meno di cinque metri l’una dall’altra nella “villa” (favela) più pericolosa di Buenos Aires, la Zavaleta.

La precaria dimora di Roxana Benegas è finita al centro di una pioggia di 105 proiettili. Roxana ha detto ai suoi figli di buttarsi a terra. Lei e gli altri abitanti della zona hanno chiamato la polizia più di dieci volte, ma gli agenti appostati ai limiti del quartiere hanno risposto dicendo di sentire solo il rumore della pioggia che stava cadendo quel giorno. Alle 9.30, uno sparo ha ucciso uno dei figli di Roxana, Kevin, di nove anni.

Al livello nazionale l’Argentina è uno dei tre paesi con meno omicidi dell’America Latina

Tre anni dopo, in mezzo alle case cadenti dove prima si vendevano solo canne di erba, cocaina o pasticche, c’è una foto di Kevin nella piazza con i giochi per bambini costruita dall’organizzazione di quartiere La Garganta Poderosa. Quattro agenti sorvegliano plaza Kevin, che si chiamava già così in onore di un altro bambino morto quattro anni prima per un altro sparo. Sotto lo sguardo dei poliziotti, a pochi metri dalla piazza, in un vicolo della favela, cinque transas chiacchierano tra loro.

Secondo l’ultimo rapporto della corte suprema argentina, nel 2013 il tasso di omicidi nelle favelas della città autonoma di Buenos Aires (il territorio della capitale, periferia esclusa) è stato di 23,2 ogni centomila abitanti. Un tasso più alto della media della capitale (6), e del 6,6 del paese, che fa dell’Argentina uno dei tre paesi con il minor tasso di omicidi di tutta l’America Latina.

Secondo l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite, basato su dati del 2012, se le villas di Buenos Aires fossero uno stato a parte sarebbero al settimo posto per la violenza della regione, subito dopo il Brasile (con 25,2 omicidi ogni centomila abitanti) e prima del Messico (21,5 nel 2012, 16 nel 2014). Le favelas di Buenos Aires sono più violente anche di Rosario, la terza città argentina dove la lotta tra gang di narcotrafficanti ha portato il tasso di omicidi a 20,8 ogni centomila abitanti.

Nel dibattito pubblico in Argentina si parla soprattutto delle vittime dell’insicurezza nei quartieri delle classi alte e medie, ma sono le classi basse a soffrire di più. Si parla molto anche degli omicidi legati alle rapine, che però nella capitale rappresentano solo il 14 per cento dei reati, mentre il 44 per cento degli omicidi avviene duranti liti e risse, il 7 per cento nel corso di conflitti familiari e il 3 per cento durante interventi della polizia, compresi i casi di “grilletto facile” (a danno di presunti delinquenti).

Ma non tutte le favelas di Buenos Aires sono pericolose, spiega Julián Axat, coordinatore delle dieci agenzie territoriali di accesso alla giustizia (Atajo) che la procura generale argentina ha aperto nei quartieri poveri per migliorare l’assistenza alla popolazione.

L’importanza dell’operato comunitario
Il complesso di Villa 21, 24 e di Zavaleta, dove è stato ucciso Kevin, è quello in cui ci sono stati più omicidi nel 2013. Il secondo è quello di Villa 1-11-14, un territorio che ha colpito papa Francesco al punto da spingerlo a parlare di “messicanizzazione” dell’Argentina. Quando era arcivescovo di Buenos Aires, il pontefice visitava spesso 21-24-Zavaleta. Una situazione molto diversa è quella di Villa 31, la favela più antica e popolosa della città, in cui in otto anni il tasso di omicidi è sceso da 19 a 10 ogni centomila persone grazie “alla maggiore presenza statale, all’operato comunitario, alla presenza di organizzazioni sociali e politiche e al crescente processo di ‘urbanizzazione’”, spiega il procuratore Axat.

‘Dove non c’è lo stato, i conflitti sono risolti con le sparatorie e la polizia è quasi assente’

Un’abitante di Zavaleta, dove porte e finestre sono spesso protette dalle inferriate, dice che ci sono delle differenze anche tra il suo quartiere e il 21-24: “Qui non c’è un consiglio di quartiere e praticamente non ci sono organizzazioni sociali e politiche, ma molte persone restano perché ci sono le loro famiglie, i loro amici, le loro scuole”. Anche il procuratore fa differenza tra Villa 21-24, dove si trovano la sede di Atajo e la Casa della cultura, e la Zavaleta, “dove non c’è stato, i conflitti sono risolti con le sparatorie e la polizia è quasi assente. Si ha l’impressione di vivere in una zona dove vige l’impunità”.

L’avvocato della famiglia di Kevin, Luciano Ortiz Almonacid, punta il dito contro la polizia e non solo contro i narcotrafficanti che hanno ucciso il bambino. Nel novembre del 2015, due trafficanti sono stati condannati a sette anni di prigione come partecipanti secondari all’omicidio del bambino, mentre altri quattro sono ancora latitanti. C’è anche un prefetto sotto processo per inadempimento dei suoi doveri di funzionario. Storie di una Buenos Aires violenta che i turisti non vedono e non visitano.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

pubblicità