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In ricordo della cineasta guerrigliera Valentina Pedicini

Valentina Pedicini con il premio per il miglior documentario alla Festa del cinema di Roma, il 16 novembre 2013. (Vittorio Zunino Celotto, Getty Images)

A volte le registe e i registi usano un’espressione un po’ abusata per spiegare come e perché sia nato un loro film. “È stata come un’urgenza”, dicono, “questa storia doveva essere raccontata”. E c’è del vero, senza questo tipo di urgenze molte storie non raggiungerebbero mai il grande pubblico del cinema, e alcune infatti vengono dimenticate. Valentina Pedicini, morta a 42 anni il 20 novembre 2020, queste urgenze le sentiva davvero.

Autrice di tre documentari – My Marlboro city (2008, disponibile sul sito della scuola di cinema Zelig di Bolzano insieme ai suoi primi lavori), Dal profondo (2013) e Faith (2019) – e del film Dove cadono le ombre (2017), riusciva a trasmetterle a spettatrici e spettatori. Per lei il cinema era lavoro, ma era basato anzitutto sul valore della relazione. Aveva una capacità empatica rara, e un percorso di pratica e militanza femminista di lungo corso che la aiutava. Manteneva il patto di sorellanza creato con le protagoniste dei suoi lavori – donne, per lo più – e i loro percorsi.

Invisibili, lasciate ai margini o relegate in una nicchia, punite da distribuzioni poco lungimiranti, in Italia le registe come lei che rifiutano il dogma eteropatriarcale non hanno un pubblico vasto. Ma a Pedicini, forte della buona risposta ottenuta fin da subito con i suoi lavori, è andata diversamente. Non ha vissuto quella forma di autocensura che porta molte autrici e molti autori a smettere di raccontare storie di persone che a loro volta si discostano dalla norma, convinti che i produttori o il pubblico non capirebbero e finanzierebbero altro.

Un suo riferimento – come ha raccontato il 28 novembre al Torino film festival la sceneggiatrice Francesca Manieri – era Le guerrigliere, romanzo fondamentale del femminismo francese pubblicato da Monique Wittig nel 1969. Se si guarda la sua filmografia si capisce perché.

Nel 2013 Pedicini sceglieva di raccontare l’unica minatrice donna in Italia, Patrizia Saias. E lo faceva con un documentario di 72 minuti, ben oltre i cinquanta minuti che molti non superano per avere più possibilità di vendere il prodotto alle tv. Fra i suoi film, Dal profondo è quello che ha ottenuto il maggior consenso e i premi più ambiti: il Solinas, quello alla Festa del cinema di Roma, il Nastro d’argento e la selezione per la cinquina ai David di Donatello.

“Ci sono storie in cui i numeri non sono soltanto fredde annotazioni matematiche, ma prefigurano esistenze in pericolo”, scriveva nelle note di regia per restituire l’idea di quello che lei e la troupe avevano condiviso sottoterra con Patrizia Saias e gli altri lavoratori. “Ci sono film che intercettano quelle esistenze e che spaventati dalla progressione numerica che precipita verso lo zero, sentono l’urgenza di raccontare. Dal profondo tiene insieme questi numeri e cerca di raccontarne il significato”. I numeri erano: 150 minatori, una donna fra loro, due anni di preparazione per ottenere l’accesso alla miniera, quattro componenti della troupe che ci hanno passato 26 giorni.

Le radici
Parlando dei suoi esordi, Pedicini si definiva “una regista meridionale, nata a Brindisi”. E in effetti ha sempre portato con sé, nella sua vita e nel suo modo di fare cinema, il coraggio delle donne del sud e l’attaccamento alla sua terra. A 18 anni si trasferisce a Roma, dove parallelamente all’attività politica nei collettivi femministi, si dedica agli studi di dialettologia e linguistica italiana.

Il suo esordio nel cinema di finzione avviene proprio nella sua regione. Nel 2016 torna in Puglia per avviare con un gruppo di adolescenti e in accordo con le loro famiglie un lavoro su omofobia e lesbofobia. L’obiettivo è realizzare Era ieri, cortometraggio sulla scoperta di sé. Nella cartella stampa la regista parlava di un mondo capovolto. In questi mondi si spingeva per raccogliere storie che sapeva che altri non avrebbero voluto guardare e far guardare. Ne parlava a proposito dell’inquadratura più importante del cortometraggio:

Era ieri si apre e si chiude con l’inquadratura di un mare capovolto. La scelta di questa immagine non è solo metaforica (il mondo di Jo, la protagonista, verrà stravolto in una sola lunga ultima giornata d’estate), ma credo rappresenti anche un mio modo di fare cinema. Fare un film per me vuol dire scoprire, ancor prima di raccontare, qualcosa di nuovo ed inaspettato su di me e sull’ambiente e le persone con cui entro in contatto.

Guardare il mondo con occhi diversi, osservare la realtà in modo originale, inconsueto. Sperimentare senza giudicare. “Volevo che lo spettatore facesse un percorso insieme a Jo, che vivesse con lei la difficoltà dello scegliere se stessi e della non omologazione”, diceva. Era una visione che la guidava anche nel giudizio che dava sul cinema italiano: “Fatte rare eccezioni, come Vergine giurata di Laura Bispuri (la sceneggiatura è di Francesca Manieri, cosceneggiatrice anche di Era ieri, ndr), i film di Alice Rohrwacher, quelli di Claudio Giovannesi e di pochi altri mi sembra che il cinema italiano continui a costruire un immaginario di periferie, droghe, machismo, che vede come protagonisti sempre e solo gli uomini, e in cui raramente si mette in discussione l’ordine precostituito”.

Nel 2017 gira Dove cadono le ombre, il suo primo lungometraggio di finzione (disponibile su Raiplay). Un lavoro che si misura con una storia passata sotto silenzio, un altro film tutt’altro che convenzionale. Soggetto e sceneggiatura li scrive nuovamente con Francesca Manieri. Il cuore del racconto è il tentativo di sterminio del popolo nomade degli jenisch, avvenuto in Svizzera tra il 1926 e il 1973. All’epoca, oltre alla ferocia subita dagli adulti, centinaia di loro bambini furono rinchiusi in istituti psichiatrici per la loro rieducazione, subendo violenze fisiche e psicologiche. Una vicenda conosciuta grazie alla testimonianza di una sopravvissuta, la scrittrice e poeta Mariella Mehr. “I protagonisti del film sono tutti prigionieri: del passato, dei ricordi, dell’ideologia, della menzogna (…) Anna identità non archiviabile, Anna la resistente, Anna personaggio glaciale è la stella attorno alla quale si muovono gli altri personaggi”.

Il film non è stato del tutto compreso, ma Pedicini ci teneva molto. Come ha raccontato l’aiuto regista Marcella Libonati nel corso dell’omaggio al festival di Torino, la sera prima dell’inizio delle riprese l’autrice aveva detto alla troupe: “Ho tra le mani la responsabilità emotiva ed etica di una storia vera che seguo da quattro anni”.

Nel 2019 con Faith torna al documentario e ai monaci shaolin di fede cristiana che aveva già raccontato in Pater noster più di dieci anni prima. Fra i critici c’è chi non ha capito l’invito ad abbandonare gli stereotipi su quella comunità, che per alcuni è basata solo su una scelta masochistica di prigionia. Pedicini ha lavorato com’era sua abitudine: sospendendo i giudizi, rispettando ogni identità, ascoltando. Tutti processi alla base di ogni suo film.

È possibile vedere gratuitamente “Era ieri” sul sito del festival V-art di Cagliari, dal 14 al 18 dicembre.

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