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In Siria l’unico accordo che serve è quello tra siriani

Una manifestazione di ribelli e civili per il quinto anniversario della guerra in Siria, ad Aleppo, il 15 marzo 2016. (Abdalrhman Ismail, Reuters/Contrasto)

Ufficialmente l’obiettivo del cessate il fuoco entrato in vigore in Siria il 27 febbraio è la distribuzione di aiuti umanitari nelle aree sotto assedio. Sei di queste, più Deir Ezzor, l’area petrolifera controllata dal gruppo Stato islamico (Isis), sono ancora inaccessibili: sono proprio quelle circondate dell’esercito di Bashar al Assad. D’altra parte, che questo non fosse un cessate il fuoco ma la capitolazione dei ribelli è apparso chiaro quando i siriani hanno provato a segnalare le violazioni della tregua telefonando al numero verde attivato dagli Stati Uniti: all’altro capo del filo i centralinisti non parlano arabo.

Ormai quello che accade sul terreno in Siria è irrilevante. E così ora, a sorpresa, al termine dei 15 giorni di prova, Vladimir Putin ha annunciato il ritiro di gran parte del contingente russo. La nostra missione è compiuta, ha dichiarato. Possiamo andare via. Ma la Russia non era intervenuta per sradicare l’Is? Non si era deciso di fermare gli scontri tra Assad e i ribelli per poi, tutti insieme, attaccare l’Is?

Il nemico escluso dall’accordo

Quello siriano è il cessate il fuoco più singolare di sempre. Non solo esclude i bombardamenti, e cioè la principale delle armi, perché sono mesi che la guerra in Siria non è più una guerra di cecchini ma di bombe e missili, ma esclude il Fronte al nusra e altri imprecisati “gruppi terroristici”: praticamente, esclude il nemico. In teoria è vero che il Fronte al nusra è la filiale locale di Al Qaeda, ma in Siria i nomi al momento contano poco, perché è in atto un rimescolamento generale di combattenti e strategie. A essere stato escluso dal cessate il fuoco è sostanzialmente Jaish al fatah, il Fronte della vittoria, la principale forza ribelle rimasta a combattere contro il governo siriano.

Oltre al Fronte al nusra, Jaish al fatah comprende gruppi molto diversi, alcuni laici e altri islamisti – e spesso islamisti, come Ahrar al Sham,la cui interpretazione dell’islam è molto lontana da quello che noi occidentali associamo al termine Al Qaeda. A differenza del Fronte al nusra, che negli ultimi giorni è stato contestato nelle aree controllate dai ribelli, questi gruppi possono contare su un forte sostegno popolare. E hanno ben chiara una cosa: se rispetteranno la tregua nelle prossime settimane sarà solo per riorganizzarsi, non per arrendersi. E in fondo perché dovrebbero arrendersi? Negli ultimi mesi chi si è fidato dei cessate il fuoco locali offerti da Assad ed è tornato a Homs o a Damasco è sparito nel nulla. Per i combattenti l’alternativa alla guerra è la morte. Perché mai dovrebbero arrendersi?

Una tregua così, senza una reale mediazione, quanto può durare?

Secondo molti diplomatici, l’intesa tra la Russia e gli Stati Uniti che è alla base dei nuovi negoziati di Ginevra è la prima vera speranza di pace dall’inizio della guerra. Ma in Siria non è necessaria un’intesa: è necessaria una mediazione. L’Onu dovrebbe tentare di ottenere concessioni da entrambe le parti. E invece Assad non si è smosso di un millimetro. Al contrario: in un’intervista alla tv tedesca ha dichiarato che la rivoluzione è stata un complotto. Che non è mai esistita. Che nessuno ha mai realmente contestato il suo regime. Dopo cinque anni e 500mila morti, Assad è ancora convinto di non avere responsabilità.

L’unica vera speranza di pace è che i siriani sparsi in Turchia, in Libano, in Germania, i siriani che davanti alla follia dei barili esplosivi e delle teste tagliate hanno scelto di stare dalla parte della ragione e andare via, tornino e costruiscano un’alternativa sia ai ribelli sia ad Assad. Ma perché mai dovrebbero? Nonostante le apparenze, sul terreno non è cambiato niente. Ancora adesso nessuna delle due parti può davvero vincere, perché ognuna sarà sempre abbastanza forte, e non solo al livello militare ma anche politico e sociale, da impedire all’altra di governare e minare la stabilità.

L’equilibrio su cui si fonda questa tregua trova le sue ragioni all’esterno della Siria. Per la Turchia in questo momento la priorità è frenare i curdi, ormai autonomi sia in Iraq sia in Siria, e l’Arabia Saudita è impantanata tra lo Yemen e il crollo del prezzo del petrolio, sua prima fonte di reddito. E mentre i ribelli perdevano i loro principali sostenitori, Assad beneficiava dell’intervento di Putin e soprattutto del disimpegno degli statunitensi, che grazie all’accordo con l’Iran possono smarcarsi dal Medio Oriente: adesso sono amici sia di Riyadh sia di Teheran, e Washington potrà tutelare i propri interessi a prescindere da chiunque prevalga tra sunniti e sciiti.

Ma all’interno della Siria non è cambiato niente. E una tregua così, senza una reale mediazione, che è in realtà l’imposizione della resa al più forte in una guerra in cui il più forte cambia ogni sei mesi, quanto può durare? Prima o poi anche Hezbollah andrà via, non solo la Russia. E Assad tornerà a essere ostaggio delle mille milizie a cui si è affidato mentre il suo regime si sfaldava, e che hanno creato un’economia di guerra e contrabbando che taglia trasversalmente le alleanze, le differenze etniche e religiose, e non ha bisogno di vinti e vincitori. Per Assad ha importanza solo che la mattanza continui.

Cinque anni e cinquecentomila morti: eppure, a poche ore dall’inizio della tregua, i siriani erano già tornati in piazza contro Assad. Perché in Siria i nomi contano poco, e possiamo anche chiamarlo presidente, ma Assad non è che il sindaco di Damasco. L’unica intesa che davvero può chiudere questa guerra non è tra russi e statunitensi, ma tra siriani.

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