×

Fornisci il consenso ai cookie

Internazionale usa i cookie per mostrare alcuni contenuti esterni e proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso, consulta questa pagina.

Puntare su Assad per salvare la Siria è un’illusione

Aleppo dopo un bombardamento delle forze governative siriane, il 17 ottobre 2016. (Abdalrhman Ismail, Reuters/Contrasto)

In Bosnia, un colpo di mortaio sul mercato di Sarajevo cambiò il corso della guerra, convincendo l’Onu a intervenire. In Siria diciamo: la tregua regge, c’è solo qualche colpo di artiglieria.

Ufficialmente, il problema è lo scontro tra la Russia e gli Stati Uniti. In realtà, il problema in Siria è l’opposto: è la loro intesa. Da quando i jihadisti sono diventati più forti dei ribelli, il mondo ha deciso che tutto è meglio della sharia. Anche i barili esplosivi. Anche il gas, anche il fosforo: Bashar el Assad è il male minore. Ma ormai il male minore, in Siria, dipende da dove stai, e non importa se sei sunnita o sciita, cristiano o musulmano: se vieni da Raqqa, dal territorio controllato dal gruppo Stato islamico (Is), il male minore, certo, è Assad. Ma se vieni da Aleppo, tutto per te è meglio di Assad.

Tutto è meglio che essere ucciso.

E invece Assad, per la comunità internazionale, è un punto fermo. Non è uno stinco di santo, si dice: però la sua Siria è una Siria che ancora funziona. Che ha bisogno di riforme, e profonde: ma se non altro, è una Siria che esiste ancora. E dunque, intanto, salviamo il salvabile. Perché di là dal fronte, invece, cosa c’è? Macerie. Macerie, e oltre 1.500 gruppi armati. Un numero che è il risultato non delle ultime scissioni, tra l’altro, ma delle ultime fusioni: si sono uniti perché sono a un passo dal tracollo, un anno fa erano duemila.

Non ha senso dire che Assad controlla più territorio o più popolazione: Assad ormai non è che il sindaco di Damasco

In realtà, le cose per Assad non sono affatto diverse. Sono solo taciute. Quello che ci ostiniamo a definire “esercito di Assad” non è altro che un improbabile agglomerato di aerei russi, miliziani di Hezbollah, miliziani iraniani, mercenari di ogni tipo. Profughi afghani forzati a combattere. Sia il regime sia i ribelli, ormai, hanno la stessa struttura: decine e decine di gruppi armati che al fondo, rispondono solo agli ordini dei propri comandanti. E soprattutto, decine di sostenitori stranieri. Ognuno con una propria agenda. Una propria guerra. Quando la Russia è intervenuta, un anno fa, Assad era agli sgoccioli, aveva appena annunciato che l’esercito si sarebbe concentrato sulle aree più strategiche, e ritirato dalle altre: i suoi 300mila soldati si erano ormai ridotti a 150mila, di cui molti impegnati in retate per acchiappare i disertori. Se oggi Assad è sul punto di vincere, è grazie alla fanteria di Hezbollah e ai bombardamenti della Russia. Cosa succederà quando prima o poi, inevitabilmente, andranno via?

Non ha senso dire che Assad controlla più territorio, più popolazione, calcolare percentuali, colorare mappe, qui i ribelli, lì il regime: Assad ormai non è che il sindaco di Damasco.

Quando la guerra, nel 2013, è entrata in stallo, con le linee del fronte fondamentalmente ferme, Assad ha capito che il suo esercito, male addestrato, male equipaggiato, e soprattutto, per niente motivato, non sarebbe mai stato sufficiente a vincere. E ha autorizzato gli imprenditori a istituire milizie private a difesa delle loro aziende. Da quel decreto sono nati molti dei gruppi armati che oggi chiamiamo “esercito di Assad”: perché gli imprenditori hanno presto scoperto che la guerra è il migliore degli affari. In particolare gli assedi. Il più noto dei checkpoint, in Siria, è il Wafideen di Ghouta, vicino Damasco: è stato ribattezzato Hajez al Milyon, perché frutta un milione di lire siriane all’ora, circa quattromila euro. Ed è tutto legale. Il governo non ha più risorse per pagare gli stipendi, e quindi i soldati, a rotazione, sono assegnati ai checkpoint: dove possono, diciamo così, trattenere due dollari per ogni chilo di cibo in entrata.

Terribilmente semplice ed efficace
Nonostante l’Onu abbia distribuito in questi anni il 71,5 percento degli aiuti umanitari nelle aree sotto il controllo di Assad, il 78,1 percento dei siriani sotto assedio è assediato dal suo esercito. All’inizio, non era che una scelta tattica. Un assedio richiede pochi uomini, richiede poche armi: è terribilmente semplice e terribilmente efficace. Eppure, in Siria nessun assedio si è mai concluso con la resa dei ribelli. Anzi: nessun assedio si è mai concluso, in assoluto, neppure dopo la resa dei ribelli, perché molti checkpoint sono gestiti da chi ha interesse non a vincere questa guerra, ma a continuarla. Non a caso a Madaya, come denunciato da Siege Watch, i morti per fame sono cominciati solo quando il checkpoint è stato affidato a Hezbollah, che non è in Siria per denaro.

E ha rapidamente strangolato la città.

Quello che chiamiamo “il governo di Assad” è in realtà il governo di uomini come Abu Ayman al Manfush, il padrone di Ghouta. Che non è neppure vicino Damasco, è Damasco, perché è a dieci minuti d’auto dal centro, cinque chilometri. Solo che in centro un chilo di riso costa 60 centesimi, a Ghouta, di là dal checkpoint, costa 18 euro. E così un chilo di zucchero. Così un chilo di pane: 15 centesimi da una parte, dieci euro dall’altra. Mentre i funzionari dell’Onu aspettano diligenti da Assad le autorizzazioni per i convogli degli aiuti umanitari, bloccati al checkpoint, Abu Ayman al Manfush a Ghouta fa tranquillamente avanti e indietro con i suoi camion. Vende cibo e gasolio, compra latte e formaggio. E guadagna circa diecimila euro al giorno. Oltre allo stipendio dei suoi dipendenti, paga anche lo stipendio di larga parte dei dipendenti pubblici. Non è semplicemente “un uomo del regime”. Abu Ayman al Manfush è il regime.

Né ha senso rassicurarsi che, se non altro, sono milizie laiche. A Palmira, l’assalto al gruppo Stato islamico è stato guidato da Suhail al Hassan, descritto dai suoi ammiratori come un amante della poesia. Non è poesia: è il Corano, incita i suoi soldati dicendo che è arrivato il momento del Messia. Suhail al Hassan è un jihadista quanto i jihadisti dell’Is: solo sciita, invece che sunnita.

Non si tratta di eccezioni: è così in tutta la Siria. La battaglia di Aleppo che in questi giorni è sulle prime pagine di tutto il mondo è condotta dalle Tiger forces. Non sono famosi solo per avere riconquistato larga parte della città, ma anche, e soprattutto, per il contrabbando di petrolio con l’Is. Sono “l’esercito di Assad”: ma non combattono la sua stessa guerra.

Puntare su Assad, credere che Assad, nonostante tutto, sia il garante della stabilità della Siria, non significa solo puntare sul cavallo sbagliato. Significa puntare su un cavallo che non esiste.

pubblicità