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L’accordo sul Ceta ha dato un nuovo eroe alla sinistra europea

Paul Magnette, il ministro-presidente della Vallonia, incontra i giornalisti a Bruxelles, il 27 ottobre 2016. (Yves Herman, Reuters/Contrasto)

Il 30 ottobre il Canada e l’Unione europea hanno firmato a Bruxelles l’Accordo economico e commerciale globale (Ceta) che stabilisce una zona di libero scambio tra i due. Si sono concluse così due settimane di passione scatenate dal veto del parlamento della regione belga della Vallonia, che ha fatto slittare la firma del trattato, inizialmente prevista per il 27 ottobre.

Conseguenza imprevista della federalizzazione spinta del Belgio voluta dai nazionalisti fiamminghi, che invece ora premevano per l’adozione rapida del Ceta, il veto vallone è frutto dello scrupoloso scrutinio del testo fatto dai deputati e dai loro esperti in più di un anno. Alla fine, ha spiegato il ministro-presidente della regione, il socialista Paul Magnette, hanno concluso che l’accordo non forniva sufficienti garanzie in materia di agricoltura, di norme sociali e ambientali e di protezione giuridica, poiché avrebbe imposto di fatto gli standard canadesi meno elevati alle imprese e ai consumatori europei.

In particolare ha suscitato ampie riserve il previsto ricorso a tribunali arbitrali privati (Investor-state dispute settlement, Isds, un sistema comune negli accordi con stati dai sistemi giudiziari imprevedibili) nelle cause mosse dalle imprese contro gli stati. L’Isds consentirebbe infatti a una multinazionale che investe in un paese straniero di denunciare uno stato che ha una politica contraria ai suoi interessi dinanzi a dei giudici privati. Una misura prevista anche dal controverso accordo di libero scambio in discussione tra l’Ue e gli Stati Uniti (Ttip), e fra i principali motivi di stallo dei negoziati su quest’ultimo. Gli Isds si applicherebbero ai 21 dei 28 paesi dell’Ue – tra i quali la Francia e la Germania – che non hanno nessun meccanismo di arbitrato con il Canada, spiega Le Monde in un dossier molto completo sul Ceta.

Le autorità federali belghe e quelle europee sono state maldestre e hanno sottostimato la determinazione (e la preparazione) di Magnette e dei suoi

Al rifiuto vallone sono seguiti dieci giorni di intense pressioni su Magnette da parte dei leader di mezza Europa, a cominciare da un altro socialista, il presidente francese François Hollande, e di diversi commissari europei. Perfino il primo ministro canadese, il popolare e apprezzato in Europa Justin Trudeau, ha chiamato il premier belga, Charles Michel, per metterlo al corrente del sentimento di “umiliazione” provato dal Canada nel sentirsi definito il “cavallo di Troia degli Stati Uniti”. Trudeau, un liberale come lo stesso Charles Michel, ha più volte minacciato di ritirarsi dai negoziati e, a un certo punto, ha anche mandato a Namur, sede del governo vallone, la ministra per il commercio estero Chrystia Freeland, che è però tornata a mani vuote dopo una visita lampo di qualche ora.

Malgrado le pressioni e gli ultimatum della commissione e del consiglio europei, Magnette, soprannominato Wallonix in riferimento agli irriducibili galli di Asterix, ha retto. Determinanti sono anche stati il sostegno del leader del Partito socialista (Ps) belga, l’ex premier Elio Di Rupo, e dei suoi compagni di coalizione, della maggioranza della popolazione francofona belga e le migliaia di messaggi di sostegno via email e sui social network. I consulenti giuridici del governo vallone hanno continuato a lavorare sul testo finché, nel primo pomeriggio del 27 ottobre, fuori tempo massimo quindi rispetto al momento ufficiale previsto per la firma dell’accordo in presenza dei leader dei ventotto e di Trudeau, a Bruxelles, il governo belga ha annunciato che era stato raggiunto un accordo con la Vallonia.

Tutto è negoziabile tranne il negoziato
L’indomani il parlamento federale lo ha approvato e domenica 30 Trudeau e il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk lo hanno firmato. Al Ceta, che rimane intatto, sono state aggiunte tre “dichiarazioni interpretative” , ma giuridicamente vincolanti, sulla protezione sociale, sulle importazioni agricole e sugli Isds. Questi sono stati sostituiti da tribunali permanenti, detti Investment court system (Ics), formati da giudici nominati dagli stati, cui è stato aggiunto un grado di appello.

Il Ceta può ora essere applicato provvisoriamente, tranne per gli Ics, poiché il governo belga si è impegnato a portare la questione davanti alla Corte di giustizia dell’Ue per avere il suo parere su questo punto. Per l’entrata in vigore formale occorre la ratifica del parlamento europeo (probabilmente non prima dell’inizio dell’anno prossimo) e dei parlamenti nazionali e locali europei che ne hanno la competenza – in tutto una quarantina. Un processo che potrebbe impiegare anni e che potrebbe riservare altre sorprese, in particolare in Germania, in Lussemburgo e in Austria, dove i movimenti contrari al Ceta e al Ttip sono vivaci almeno quanto in Belgio e dove l’opposizione è molto influente al livello regionale.

Nella vicenda, le autorità federali belghe e quelle europee sono state particolarmente maldestre e hanno sottostimato la determinazione (e la preparazione) di Magnette e dei suoi. Entrambe hanno ignorato le riserve espresse dal governatore della Vallonia oltre un anno fa alla commissaria per il commercio Cecilia Malmström e al governo federale belga.

Delle riserve che, osserva il corrispondente a Bruxelles di Le Monde Jean-Pierre Stroobands, “evidentemente per pigrizia o ignoranza della realtà del complicato Belgio, non sono state prese sul serio” dalla commissione. Malgrado lo scambio di informazioni tra Bruxelles e Namur sui negoziati, Commissione e governo federale hanno preferito aspettare l’ultimo momento per negoziare. Una tattica che di solito funziona, perché aggiunge la pressione morale della scadenza internazionale che si avvicina e degli ultimatum autorevoli, ma che non ha funzionato in un contesto – quello belga – nel quale il negoziato a oltranza fa parte della cultura politica e nel quale “tutto è negoziabile, tranne il negoziato”.

Più politica nell’Unione europea
Il grande vincitore del braccio di ferro tra la piccola Vallonia, con i suoi 3,6 milioni di abitanti, e praticamente il resto del mondo è naturalmente Paul Magnette, 46 anni, diventato icona della socialdemocrazia, dell’opposizione al neoliberismo imperante, e della democrazia contro l’opacità e l’arroganza dei meccanismi negoziali europei e internazionali.

Nel suo sentito discorso al parlamento vallone – prendete il tempo di guardarlo: è un modello di pedagogia e di alta politica – Paul Magnette, ex docente di diritto europeo all’Università libera di Bruxelles, ha tessuto le lodi del “processo democratico” con il quale il Ceta è stato esaminato dai rappresentanti (associazioni, sindacati, partiti, ong) della società civile vallone e ribadito di “non essere ostile al commercio internazionale”, ma di voler difendere alcune questioni di principio.

“C’è un problema nel modo con il quale sono negoziati i trattati commerciali”, ha affermato Magnette, riferendosi anche al Ttip e alle trattative in seno all’Organizzazione mondiale del commercio.

Vogliamo regole sociali, economiche e ambientali che trasferiscano nelle relazioni tra gli stati ciò che siamo riusciti a costruire all’interno dei nostri paesi in decenni di lotte sociali. Vogliamo che il Ceta sia l’occasione per fissare nei trattati commerciali degli standard elevati al punto che diventeranno la norma europea, anche per i negoziati futuri. È questa la posta in gioco.

Citando la necessità della trasparenza nella cosa pubblica evocata da Kant, Magnette ha anche criticato “l’opacità dei negoziati” sul Ceta, che si sono svolti a porte chiuse per più di sei anni.

La figura di Magnette, arrivato in politica sul tardi e ora considerato come l’erede naturale di Di Rupo alla testa dei socialisti francofoni, è interessante anche perché atipica nel paesaggio politico europeo contemporaneo: europeista convinto – ha scritto diversi saggi sull’Europa, tra cui Contrôler l’Europe. Pouvoirs et responsabilité dans l’Union européenne (Controllare l’Europa. Poteri e responsabilità nell’Ue, Ulb/Iee editore 2003) e Une Europe des élites ? Réflexions sur la fracture démocratique de l’Union européenne (Un’Europa delle élite? Riflessioni sulla frattura democratica dell’Ue, Ulb/Iee 2007) – non parla per slogan e punta realmente a ricucire lo strappo tra le istituzioni europee e i cittadini, una delle maggiori cause di stallo attuale dell’Unione.

La sua visione dell’apertura e della trasparenza nella discussione pubblica europea si ispira anche al filosofo politico tedesco Jürgen Habermas, con il quale condivide la necessità di “portare più politica nell’Ue” a colpi di pedagogia e coinvolgendo istituzioni e cittadini, come sottolinea De Standaard.

Il fatto di essere “un intellettuale dal ragionamento molto costruito, impregnato del pensiero politico europeo e specialista delle questioni di democrazia”, come l’ha definito Vaia Demortzis, del Centro belga di ricerca e di informazione sociopolitica, gli ha consentito di reggere, da un lato, l’enorme pressione politica durante le due settimane di passione intorno al Ceta, dall’altro, di sperimentare concretamente proprio sul Ceta le sue teorie sul funzionamento della democrazia europea. Delle teorie che ha in parte tentato di applicare a Charleroi, la città operaia oggi simbolo del degrado postindustriale della Vallonia e della corruzione nel Ps locale, di cui è sindaco dal 2012, da ministro federale (energia e clima) e, dal 2014, da presidente della Vallonia, diventata il suo laboratorio politico personale.

La vicenda del Ceta ha anche ricordato che i parlamenti hanno e possono avere ancora un ruolo centrale nelle democrazie occidentali: quello di garantire che le leggi corrispondano effettivamente all’interesse pubblico e di fungere da cinghia di trasmissione tra cittadini e istituzioni internazionali, nell’interesse di entrambi.

Infine, ha probabilmente cambiato il modo in cui sono negoziati i trattati commerciali internazionali: anche se i trattati europei gli affidano questo mandato, la Commissione non potrà più discuterli per conto suo a porte chiuse, senza rendere conto pubblicamente dello stato dei negoziati ai parlamenti degli stati membri e, più largamente, all’opinione pubblica. E già questo è un passo avanti notevole sulla via di un’Europa più trasparente e democratica.

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