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La sfida che Wikipedia ha vinto

Ali Balikci, Anadolu Agency/Getty Images

Il ventesimo compleanno di Wikipedia, online dal 15 gennaio 2001, non poteva cadere in un momento migliore (o peggiore, dipende dal punto di vista). Mentre sui social network divampa una tempesta che squarcia il velo sull’insostenibilità di un potere mediatico così esteso e privo di controlli, la serena fortuna dell’enciclopedia “libera e collaborativa” pare rappresentare la resistenza di un’altra idea della rete, vicina alla cultura (o controcultura) delle origini. In realtà tutto è più contraddittorio, ovviamente. Wikipedia stessa è campo di conflitti continui e pare non solo sopravvivere ma avvantaggiarsi della sua capacità di suscitare controversie.

Tra i princìpi fondamentali rivendicati dalla loquace comunità dei wikipedians c’è che “non si può cambiare definitivamente nulla in Wikipedia”, ironica ma anche rischiosa rivendicazione di una conoscenza in continuo movimento, costituzionalmente aperta al principio di riesame. Sta di fatto che il perenne lavoro di discussione e pubblica revisione delle voci è uno degli aspetti più equivoci e insieme spettacolari dell’enciclopedia (la voce massacri delle foibe, a lungo oggetto di un’appassionata contesa, presenta attualmente una ponderosa scheda con circa 220 note, cinquanta libri in bibliografia, il rinvio a venti altre voci collegate) e in un certo senso costituisce la radice della sua affidabilità.

Perché ci fidiamo di Wikipedia è infatti la seconda domanda cruciale da porsi davanti al suo straordinario successo. La prima sarebbe: perché la usiamo? Ma qui la risposta può essere più semplice: è gratuita, amichevole, accessibile e comunque è sempre in cima alla pagina che ci appare se cerchiamo notizie su Lyndon B. Johnson o sulla battaglia di Teutoburgo (anzi, come corregge pedantemente Wikipedia, battaglia della foresta di Teutoburgo).

Oltre le risposte ovvie
Perché dunque crediamo a Wikipedia al punto di aver trasformato il sogno del gestore di un dominio abbastanza oscuro come bomis.com (di cui l’attuale voce di Wikipedia non tace nemmeno l’identità ambigua), che aspirava a entrare nei primi cinquanta o cento siti più popolari – proponendosi di raccogliere 20mila dollari in un mese per cominciare, e incassandone 30mila in una settimana – nel quinto più visitato al mondo con 5,7 miliardi di visite al mese: cioè – a parte Baidu, popolare motore di ricerca cinese ma solo cinese – nell’unico che compete globalmente con i tre giganti Google, YouTube e Facebook?

La ragione è forse più complessa e anche interessante di quanto non dicano le risposte più ovvie. Sì, certo, la rete delle microdonazioni e il rifiuto della pubblicità rivendicati dal cofondatore dell’enciclopedia Jimmy Wales garantiscono l’indipendenza o almeno inibiscono il sospetto populista di qualche potere forte che orienti l’enciclopedia. Anzi, certi poteri – non tutti – Wikipedia pare poterli sfidare con successo come mostra la clamorosa e sottovalutata vicenda della Turchia, dove un anno fa la corte costituzionale ha imposto, dopo quasi mille giorni, la revoca del blocco dell’enciclopedia ritenendolo una violazione dei diritti umani.

E certo, contro ogni profezia ostile, il meccanismo del controllo affidato a una comunità di competenze funziona sufficientemente bene: se non ha forse ancora raggiunto l’affidabilità di enciclopedie più strutturate, è ben al di sopra della scarsa affidabilità quotidiana del giornalismo e dei mezzi di comunicazione di oggi. Appare ampiamente vinta dunque la sfida che per primo in Italia indicò un giornalista acuto che molto ci è mancato in questi anni come Franco Carlini, scrivendone sul Corriere della Sera nientemeno che il 12 settembre 2001, a meno di otto mesi dalla nascita di Wikipedia, ma esattamente il giorno dopo l’attentato alle torri gemelle.

Il limite principale: la difficoltà ad applicare altrove questo modello

All’estremo opposto potremmo indicare il mix di allegra confusione e di ordinata strutturazione che favorisce la serendipità, ossia il casuale incontro con tutte le diramazioni della propria ricerca, esaltando un piacere che le enciclopedie tradizionali solo parzialmente potevano esaudire. L’esito è una realtà multigenerazionale (la voce, oggi tautologica, “Vent’anni” tiene insieme Massimo Ranieri e i Måneskin) e multilinguistica (le oltre trecento lingue usate) se non compiutamente multiculturale (una certa centralità bianca maschile è ancora evidente, se è vero per esempio che le biografie femminili rappresentano solo il 17 per cento del totale).

Ma la vera qualità di Wikipedia e la ragione per cui il suo successo è globale – non solo dal punto di vista editoriale o digitale – sta in un fatto apparentemente banale. La collaborazione degli autori delle voci è gratuita e anonima. Cioè pare seccamente contraddire le due grandi motivazioni che alimentano ogni impresa contemporanea, ossia il denaro e l’esibizione di sé. Tanto la ricompensa economica quanto quella psicologica le sono estranee: né la ricchezza materiale né la soddisfazione narcisistica possono essere compiutamente perseguite scrivendo voci per Wikipedia.

Poi certo, una qualche soddisfazione intellettuale ed emotiva non può che essere connessa al piacere di aggiungere una voce o di sistemarne un paio. Ma non viene in nessun modo capitalizzata. Da questo punto di vista, Wikipedia rappresenta l’esempio più clamoroso dello spirito collaborativo del volontariato contemporaneo. Ma resta il fatto che conosciamo autori di ambiziosi volumi venduti in qualche centinaio di copie, rispettiamo editorialisti che in pochi anni hanno dimezzato il loro pubblico, veneriamo artisti di impossibile popolarità ma non sappiamo nulla dell’autore (o più probabilmente gli autori e le autrici) della voce Italia, audacemente sintetica nelle prima quaranta righe, sufficientemente dettagliata nelle decine di pagine seguenti e sicuramente consultata da cifre inimmaginabili di utenti.
Senza il riconoscimento di questo spirito peculiare non si afferra a pieno la singolarità dell’esperienza Wikipedia e il suo valore editoriale, culturale e forse politico. E non se ne comprende il limite principale: la difficoltà ad applicare altrove questo modello, come fosse inevitabilmente destinato a restare una macchina celibe e irripetibile.

Lo dimostra meglio di tutti l’insuccesso del “social network non tossico” che da tempo Jimmy Wales prova a lanciare (attualmente wt.social non supera i 500mila iscritti nel mondo). Del resto rimane faticosa l’accettazione della cosiddetta wikiquette, mix di deontologia scientifica e buona educazione che tutti gli utenti dell’enciclopedia dovrebbero seguire. E persino per chi coltiva le più tenaci invidie e motivate nostalgie hippie, lo spirito del Wikilove – con i connotati di collegialità e mutua comprensione che implica – sembra difficilmente proponibile a comunità leggermente più renitenti come quelle che si agitano nell’universo di questo secolo.

“Non è un caso se da vent’anni non nasce una nuova Wikipedia”, dice Evgeny Morozov. Forse nell’epoca della ferocia social (e/o della censura) Wikipedia è soprattutto un felice anacronismo. Se sia il residuo luminoso (e riuscito) del sogno svanito, o la prefigurazione di un futuro ancora possibile, possiamo presumere di non saperlo. Ma la contraddizione tra Wikipedia e lo spirito egemone dei tempi che con gratuita larghezza la consultano e la saccheggiano è evidente. Bisognerebbe essere almeno grati e consapevoli di tenere aperta questa feconda contraddizione ogni volta che con indifferenza si ricorre alla sua amichevole autorità.

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