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Le lezioni del virus

Un manifesto per informare i cittadini sul coronavirus a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, 14 aprile 2020. (Mahmoud Khaled, Epa/Ansa)

Se nel 1984 Michel Foucault fosse sopravvissuto all’aids e fosse rimasto in vita fino all’invenzione della triterapia, forse oggi avrebbe 93 anni: avrebbe accettato di rinchiudersi nel suo appartamento di rue de Vaugirard? Il primo filosofo della storia a morire di complicazioni generate dal virus dell’immunodeficienza acquisita ci ha lasciato alcune delle nozioni più efficaci per riflettere sulla gestione politica dell’epidemia. Nozioni che, in mezzo al panico e alla disinformazione, si rivelano utili come una buona mascherina cognitiva.

La cosa più importante che abbiamo imparato da Foucault è che il corpo vivente (e dunque mortale) è l’oggetto al centro di ogni politica. Non esiste politica che non sia una politica dei corpi. Ma per Foucault, il corpo non è un organismo biologico già dato sul quale il potere agisce in un secondo momento. Il compito dell’azione politica consiste proprio nel fabbricare un corpo, nel metterlo al lavoro, nel definirne le modalità di produzione e di riproduzione, nel prefigurare le modalità di discorso con cui questo corpo s’immagina fino a quando non è in grado di dire “io”.

Tutta l’opera di Foucault può essere interpretata come un’analisi storica delle differenti tecniche attraverso le quali il potere gestisce la vita e la morte della popolazione. Tra il 1975 e il 1976, anni in cui pubblica Sorvegliare e punire e il primo volume della Storia della sessualità, Foucault usa la nozione di “biopolitica” per parlare del rapporto che il potere stabilisce con il corpo sociale nella modernità. Descrive la transizione da quella che chiama “società sovrana” alla “società disciplinare” come il passaggio da una società che definisce la sovranità in termini di ritualizzazione della morte a una società che gestisce e massimizza la vita delle popolazioni in funzione dell’interesse nazionale. Per Foucault, le tecniche di governo biopolitico si sono diffuse come una rete di potere che ha oltrepassato la sfera legale o punitiva per diventare una forza orizzontale e tentacolare, attraversando la totalità del territorio e penetrando infine nel corpo individuale.

Ditemi come la vostra comunità sta costruendo la sua sovranità politica e io vi dirò che forme assumeranno le sue epidemie e come le affronterete

Durante e dopo la crisi dell’aids, diversi autori hanno ampliato e radicalizzato le ipotesi di Foucault esplorando la relazione tra biopolitica e immunità. Il filosofo italiano Roberto Esposito ha analizzato le relazioni tra la nozione politica di “comunità” e la nozione biomedica ed epidemiologica di “immunità”. La comunità e l’immunità hanno una radice comune, munus, in latino l’imposta (il dovere, la legge, l’obbligo, ma anche il dono) che qualcuno ha dovuto pagare per vivere o far parte della comunità. La comunità è cum (con) munus: un gruppo umano vincolato da una legge e un obbligo comuni, ma anche da un “dono”, ovvero da qualcosa che non ha un prezzo. Il nome immunitas è un termine privativo che deriva dalla negazione di munus. Nel diritto romano, l’immunità era una dispensa o un privilegio che esentava qualcuno dall’obbligo dei compiti che sono comuni a tutti. Chi era stato esonerato era “immune”.

Roberto Esposito insiste sul fatto che ogni biopolitica è immunologica: implica una definizione della comunità e una gerarchia tra chi viene esonerato da tasse e donazioni e chi la comunità percepisce come potenzialmente pericoloso, che sarà escluso in un atto di protezione immunologica. È il paradosso della biopolitica: ogni atto di protezione comporta una definizione immunitaria della comunità, con cui la collettività si concede il potere di decidere di sacrificare una parte della popolazione, a beneficio di un’idea della propria sovranità. Lo stato d’emergenza è la normalizzazione di questo insostenibile paradosso.

Immunità e politica
A partire dall’ottocento, con la scoperta del primo vaccino contro la varicella e gli esperimenti di Pasteur e Koch, la nozione d’immunità ha lasciato la sfera giuridica e ha preso un significato medico. L’individuo moderno inteso come un corpo libero e indipendente non è solo un’utopia dell’economia liberale, ma anche un modello d’immunità biopolitica. Le democrazie europee liberali e patriarcal-coloniali dell’ottocento hanno costruito l’ideale dell’individuo moderno non solo come un libero agente economico (maschio, bianco, eterosessuale), ma anche come un corpo immune, radicalmente separato, che non deve nulla alla comunità. Per Esposito, il modo in cui la Germania nazista caratterizzava parte della propria popolazione (gli ebrei, ma anche i rom, gli omosessuali, i disabili) come corpi che minacciavano la sovranità della comunità ariana è un esempio paradigmatico dei pericoli della gestione biopolitica immunitaria.

Questa concezione immunologica della società non si è conclusa con il nazismo: al contrario, è sopravvissuta negli Stati Uniti e in Europa, legittimando le politiche di gestione delle sue minoranze razzializzate e delle popolazioni migranti. È questa politica immunitaria che ha plasmato la comunità europea di oggi, il mito di Schengen e i dispositivi violenti dispiegati dall’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera.

Nel 1994, in Flexible bodies, l’antropologa Emily Martin dell’università di Princeton, negli Stati Uniti, ha analizzato la relazione tra immunità e politica nella cultura statunitense durante la crisi della poliomielite e dell’aids e ne ha tratto delle conclusioni pertinenti per l’analisi della crisi attuale. L’immunità del corpo, afferma Martin, non è un fatto biologico indipendente dalle variabili culturali e politiche. Al contrario, ciò che intendiamo per immunità è costruito collettivamente attraverso criteri sociali e politici che producono alternativamente sovranità o esclusione, protezione o stigmatizzazione, vita o morte.

Se ripensiamo alla storia di alcune delle pandemie degli ultimi cinque secoli attraverso il prisma offerto da Michel Foucault, Roberto Esposito ed Emily Martin, è possibile elaborare un’ipotesi che potrebbe assumere la forma di un’equazione: ditemi come la vostra comunità sta costruendo la sua sovranità politica e io vi dirò che forme assumeranno le sue epidemie e come le affronterete. Le epidemie materializzano all’interno del corpo individuale le ossessioni che dominano la gestione politica della vita e della morte delle popolazioni in un determinato periodo. Per dirla con Foucault, un’epidemia radicalizza e sposta le tecniche biopolitiche applicate al territorio nazionale immettendole nell’ambito dell’anatomia politica, all’interno e al di sopra del corpo individuale. Al tempo stesso, un’epidemia consente di estendere all’insieme della popolazione le misure politiche d’immunizzazione che fino a quel momento erano state violentemente applicate a coloro che erano considerati stranieri sia all’interno sia ai confini del territorio nazionale.

La gestione politica delle epidemie mette in scena un’idea di comunità, rivela le fantasie immunitarie di una società e mette in luce i sogni onnipotenti (e i fallimenti) della sovranità politica. L’ipotesi di Foucault, Esposito e Martin non ha nulla a che fare con le teorie del complotto. Non si tratta dell’idea ridicola secondo cui il virus sarebbe stato inventato in laboratorio o farebbe parte di un piano machiavellico per diffondere politiche ancora più autoritarie. Al contrario, il virus non fa che riprodurre, materializzare, estendere e intensificare per l’intera popolazione le forme dominanti di gestione biopolitica e necropolitica già esistenti. Ogni società può dunque essere definita dall’epidemia che la minaccia e dalla sua organizzazione quando si manifesta.

Prendete, per esempio, la sifilide. L’epidemia colpì la città di Napoli per la prima volta nel 1494. L’impresa coloniale europea era appena cominciata. La sifilide segnò l’inizio della distruzione coloniale e delle future politiche razziali. I britannici la chiamavano “la malattia francese”, i francesi dicevano che era “la malattia napoletana” e i napoletani che veniva dall’America, che era stata portata dai colonizzatori infettati dagli “indiani”. Il virus, diceva Jacques Derrida, è sempre lo straniero, l’altro, quello che arriva da altrove. Infezione sessualmente trasmissibile, la sifilide ha materializzato nei corpi dei secoli che vanno dal cinquecento all’ottocento le forme di repressione ed esclusione sociale che hanno dominato la modernità patriarcal-coloniale: l’ossessione per la purezza razziale, il divieto dei cosiddetti matrimoni misti tra persone di classi sociali e “razze” diverse e le molteplici restrizioni che pesavano sulle relazioni sessuali ed extraconiugali.

Al centro di questa utopia della comunità e il modello dell’immunità sociale dalla sifilide c’è il corpo bianco borghese sessualmente confinato all’interno della vita coniugale come nucleo riproduttivo del corpo nazionale. Così, la prostituta diventò il corpo vivente che condensava tutti gli abietti significanti politici: donna attiva e spesso razzializzata, corpo al di fuori delle leggi nazionali e del matrimonio, che ha fatto della propria sessualità il suo mezzo di produzione, la lavoratrice del sesso fu mostrata, controllata e stigmatizzata come il vettore principale della diffusione del virus. Ma non fu la repressione della prostituzione o il confinamento delle prostitute in case chiuse statali (come immaginato da Restif de la Bretonne) a fermare la sifilide. Al contrario. Il confinamento delle prostitute le rese solo più vulnerabili alla malattia. A sradicare quasi del tutto la sifilide fu la scoperta degli antibiotici e soprattutto, nel 1928, della penicillina, ma anche un decennio di profonde trasformazioni delle politiche sessuali in Europa, con le rivolte dei movimenti di colonizzazione, l’accesso al voto delle donne bianche, le prime depenalizzazioni dell’omosessualità e una relativa liberalizzazione dell’etica del matrimonio eterosessuale.

Già prima del virus, stavamo attraversando un cambiamento sociale e politico profondo

Mezzo secolo dopo, l’aids sarà per la società neoliberale eteronormativa del novecento ciò che la sifilide era stata per la società industriale e coloniale del quattrocento. I primi casi comparvero nel 1981, proprio quando l’omosessualità aveva smesso di essere considerata una malattia psichiatrica, dopo essere stata per decenni oggetto di persecuzione e discriminazione sociale. La prima fase dell’epidemia interessò quelli che all’epoca venivano chiamati 4H: homosexuals, haitians, hemophiliacs eheroin users (omosessuali, haitiani, emofiliaci ed eroinomani). In seguito all’elenco fu aggiunto hookers (prostitute). L’aids rimodellò la griglia di controllo dei corpi e aggiornò le tecniche di sorveglianza della sessualità forgiate dalla sifilide e che negli anni sessanta e settanta i movimenti a favore della decolonizzazione, delle donne e dell’omosessualità avevano contribuito a smantellare. Come nel caso delle prostitute durante la crisi della sifilide, la repressione dell’omosessualità servì solo a far aumentare il numero dei decessi.

A trasformare l’aids in malattia cronica è stata la depatologizzazione dell’omosessualità, l’affrancamento farmacologico del sud del pianeta, l’emancipazione sessuale delle donne, il loro diritto a dire di no a pratiche sessuali senza preservativo e l’accesso delle popolazioni interessate alle triterapie. Il modello di comunità/immunità dell’aids è legato al fantasma della sovranità sessuale maschile intesa come un diritto non negoziabile alla penetrazione, mentre ogni corpo penetrato (in forma di omosessualità, femminilità, analità) è percepito come privo di sovranità.

Ora torniamo alla nostra situazione attuale. Molto prima della comparsa del covid-19, avevamo già avviato un processo di mutazione planetaria. Già prima del virus, stavamo attraversando un cambiamento sociale e politico profondo quanto quello che aveva colpito le società con la sifilide. Nel quattrocento, con l’invenzione della stampa e l’espansione del capitalismo coloniale, siamo passati da una società orale a una società scritta, da una forma di produzione feudale a una forma di produzione industriale-schiavista e da una società teocratica a una società governata da accordi scientifici in cui le nozioni di sesso, razza e sessualità sarebbero diventate dei dispositivi di gestione della vita e della morte delle popolazioni.

Una cabina per l’isolamento nell’ospedale Santa Ana a Manila, nelle Filippine, 14 aprile 2020.

Oggi stiamo passando da una società scritta a una società ciberorale, da una società organica a una società digitale, da un’economia industriale a un’economia immateriale, da una forma di controllo disciplinare e architettonica a forme di controllo prostetico e mediatico-cibernetico. Ho definito “farmacopornografico” il tipo di gestione e produzione del corpo ma anche della soggettività sessuale in questa nuova configurazione politica. Il corpo e la soggettività contemporanea non sono più regolati solo dal loro passaggio attraverso istituzioni disciplinari (scuola, fabbrica, caserma, ospedale) ma soprattutto da una serie di tecnologie biomolecolari che entrano nel corpo con microprotesi e tecnologie di sorveglianza digitale.

Nel campo della sessualità, la modifica farmacologica di coscienza e comportamento, il consumo di massa di antidepressivi e ansiolitici, la globalizzazione del consumo della pillola contraccettiva, così come la produzione di triterapie, di terapie preventive per l’aids o il consumo di Viagra sono alcuni degli indicatori della gestione biotecnologica. L’estensione planetaria di internet, la diffusione dell’uso di tecnologie informatiche mobili, l’uso dell’intelligenza artificiale, lo scambio a banda larga d’informazioni e lo sviluppo di dispositivi globali di sorveglianza informatica satellitare sono altri indicatori di questa nuova gestione digitale semio-tecnica. Se li ho definiti pornografici, è perché non funzionano più attraverso la repressione e il divieto della sessualità (masturbatoria o altra), ma si servono dell’incitamento al consumo e della produzione costante di un piacere regolamentato e quantificabile. Più consumiamo e più siamo sani, meglio siamo controllati.

La mutazione in corso potrebbe anche essere il passaggio da un regime patriarcal-coloniale ed estrattivista, da una società antropocentrica e in cui una piccola parte della comunità umana planetaria si permette di esercitare una politica di predazione universale, a una società capace di ridistribuire l’energia e la sovranità. Durante e dopo questa crisi, quali sono le vite che vogliamo salvare sarà al centro del dibattito. È nel contesto di questa mutazione, di questa trasformazione delle modalità di comprensione della comunità (una comunità che oggi è l’intero pianeta, non c’è più separazione possibile) e dell’immunità, che il virus opera e che viene organizzata la strategia politica per affrontarlo.

Ciò che ha caratterizzato le politiche governative degli ultimi vent’anni, rispetto alle finte idee di libertà di movimento che hanno dominato il neoliberismo dell’era Thatcher, è stata la ridefinizione degli stati nazione in termini neocoloniali e identitari e il ritorno all’idea della frontiera materiale come condizione per il ripristino dell’identità nazionale e della sovranità politica. Israele, gli Stati Uniti, la Russia, la Turchia e l’Unione europea hanno guidato la progettazione di nuove frontiere che, per la prima volta da decenni, non sono state solo monitorate o sorvegliate, ma anche ridefinite dalle decisioni di erigere muri, costruire dighe e difenderle attraverso misure non biopolitiche, ma necropolitiche, con tecniche di esclusione e di morte.

Non c’è bisogno di braccialetti biometrici: lo smartphone è diventato il miglior braccialetto, nessuno se ne separa nemmeno per dormire

La società europea ha deciso di costruirsi collettivamente come una comunità totalmente immune, chiusa a est e a sud, mentre proprio l’est e il sud, in termini di risorse energetiche e di produzione di beni di consumo, sono il suo magazzino. La costruzione di questa immunità politica è passata attraverso un delirio neosovranista. L’Europa ha chiuso la frontiera in Grecia e ha costruito i più grandi centri di detenzione a cielo aperto della storia su territori che confinano con Turchia e Mediterraneo: a Ceuta, a Melilla, a Calais, sull’isola di Lampedusa. La distruzione dell’Europa è cominciata paradossalmente con la costruzione di questa comunità europea immune, aperta all’interno e totalmente chiusa a stranieri e migranti.

Quello che viene testato oggi su scala planetaria attraverso la gestione del covid-19 è un nuovo modo di concepire la sovranità in un contesto in cui l’identità sessuale e quella etnica (fino a oggi gli assi della segmentazione politica del mondo patriarcal-coloniale) sono disgiunte. Il covid-19 ha spostato su un piano individuale le politiche di frontiera in atto sul territorio nazionale o all’interno del superterritorio europeo. Il corpo, il tuo singolo corpo, come spazio di vita e come rete di potere, come centro di produzione e di consumo di energia, è diventato il nuovo territorio all’interno del quale si esprimono le violente politiche di frontiera che progettiamo e testiamo da anni sugli “altri”, assumendo la forma di misure di barriera e di guerra al virus. La nuova frontiera necropolitica si è spostata dalle coste della Grecia verso la porta di casa tua. Oggi Lesbo comincia sul tuo pianerottolo. E la frontiera non smette di chiudersi su di te, ti spinge sempre più verso il tuo corpo. Calais oggi ti esplode in faccia. La nuova frontiera è la mascherina. L’aria che respiri deve essere solo tua. La nuova frontiera è la tua epidermide. La nuova Lampedusa è la tua pelle.

Le politiche di frontiera e le severe misure di confinamento e immobilizzazione che in questi ultimi anni abbiamo applicato ai migranti e ai rifugiati, considerandoli virali per la comunità, oggi sono riprodotte all’interno del territorio nazionale, applicate a tutta la popolazione, riscritte sui corpi individuali. Per anni abbiamo messo migranti e rifugiati nei centri di detenzione, un limbo politico senza diritti e senza cittadinanza, sale d’attesa permanenti. Ora siamo noi quelli che vivono in centri di detenzione dentro le nostre stesse case.

Le epidemie, con il loro appellarsi a uno stato d’emergenza e imponendo misure estreme senza eccezioni, sono grandi laboratori d’innovazione sociale, l’occasione per una riconfigurazione su larga scala delle tecniche dei corpi e delle tecnologie del potere. Foucault ha analizzato il passaggio dalla gestione della lebbra alla gestione della peste come il processo attraverso il quale le tecniche disciplinari di spazializzazione del potere sono state impiegate nella modernità. Se la lebbra veniva trattata con misure strettamente necropolitiche che escludevano il lebbroso e lo condannavano se non alla morte quantomeno alla vita al di fuori della comunità, la reazione all’epidemia di peste inventò la gestione disciplinare e le sue forme di “inclusione esclusiva”: la rigorosa segmentazione della città e il confinamento di ogni corpo in ogni casa.

Le diverse strategie che i paesi hanno adottato per gestire la diffusione del covid-19 mostrano due tipi completamente differenti di tecnologie biopolitiche. Il primo, che opera principalmente in Italia, in Spagna e in Francia, applica rigide misure disciplinari che per molti aspetti non sono così diverse da quelle usate contro la peste. Si tratta del chiudere in casa tutta la popolazione. È utile rileggere il capitolo di Sorvegliare e punire sulla gestione della peste in Europa per rendersi conto che da allora le politiche francesi di gestione delle epidemie non sono molto cambiate. A funzionare qui è la logica della frontiera architettonica e il trattamento dei casi d’infezione nelle classiche enclavi ospedaliere. Una tecnica che non ha ancora dimostrato di essere del tutto efficace.

La seconda strategia, messa in atto tra gli altri da Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Giappone, consiste nel passare da tecniche moderne di controllo disciplinare e architettonico a tecniche “farmacopornografiche”: qui l’accento è posto sulla rilevazione della carica virale degli individui attraverso la moltiplicazione dei test e il monitoraggio digitale costante e severo dei pazienti attraverso i loro dispositivi mobili. Telefoni e carte di credito diventano strumenti di sorveglianza che consentono di seguire i movimenti individuali del corpo potenzialmente portatore del virus. Non abbiamo bisogno di braccialetti biometrici: lo smartphone è diventato il miglior braccialetto, nessuno se ne separa nemmeno per dormire. Un’applicazione gps informa la polizia dei movimenti di ogni corpo sospetto. La temperatura e il movimento del singolo corpo sono sorvegliati da tecnologie mobili e osservati in tempo reale dall’occhio digitale di uno stato ciberautoritario. Qui la società è una comunità di ciberutenti e la sovranità è prima di tutto dominio digitale e gestione dei dati.

Biosorveglianza autorizzata
Nelle ultime settimane, la Apple e Google hanno firmato un accordo per il lancio di una nuova applicazione per gli smartphone che permette di tracciare il covid-19. Se l’utente del telefono risulta positivo, l’app lo notificherà alle pubbliche autorità. A quel punto sarà allertata qualunque persona il cui smartphone negli ultimi 14 giorni sia stato nelle vicinanze del telefono della persona infetta. Ma queste politiche d’immunizzazione non sono una novità e in passato sono state messe in campo non solo per la ricerca e la cattura di presunti terroristi: dall’inizio degli anni 2010, per esempio, Taiwan ha legalizzato l’accesso a tutti i contatti dei telefoni cellulari nelle applicazioni d’incontri sessuali al fine di “prevenire” la diffusione dell’aids e della prostituzione online. Il covid-19 ha legittimato ed esteso queste pratiche statali di biosorveglianza e di controllo digitale standardizzandole e rendendole “necessarie” per mantenere una certa sensazione d’immunità. Nel frattempo, gli stessi stati che mettono in atto misure estreme di sorveglianza digitale non prevedono ancora di vietare il traffico né la produzione industriale di uccelli e di mammiferi né di ridurre le emissioni di CO2. A essere aumentata non è l’immunità del corpo sociale, ma la tolleranza dei cittadini al controllo cibernetico da parte dello stato e delle imprese.

La gestione politica del covid-19 come forma di amministrazione della vita e della morte traccia i contorni di una nuova soggettività. Ciò che sarà stato inventato dopo la crisi, sarà una nuova utopia della comunità immunitaria e una nuova forma di controllo di massa dei corpi umani. Il soggetto delle società tecnopatriarcali neoliberali che il covid-19 sta costruendo non ha pelle, è intoccabile, non ha mani. Non scambia beni materiali né paga con denaro. È un consumatore digitale con una carta di credito. Non ha labbra né lingua. Non parla dal vivo, lascia un messaggio vocale. Non si riunisce e non si collettivizza. È radicalmente individuale. Non ha volto, ha una maschera. Per esistere, il suo corpo organico è nascosto dietro a una serie indefinita di mediazioni semio-­tecniche, una serie di protesi cibernetiche che sono anch’esse maschere: l’indirizzo email, l’account Face­book, Instagram, Skype. Non è un agente fisico, ma un teleproduttore, è un codice, un pixel, un conto in banca, una porta con un nome, un indirizzo al quale Amazon può spedire gli ordini.

Il covid-19 ha anche reso visibile una cartografia di zone improduttive del corpo sociale all’interno della nuova gestione farmacopornografica, che risultano obsolete nel nuovo regime di produzione tecno-digitale. Sono zone che erano già state lasciate dall’altra parte della frontiera biopolitica e che oggi appaiono doppiamente vulnerabili: gli anziani, le persone che non saranno più in grado di trasformarsi in soggetti tecnocibernetici, in particolare quelle che sono state istituzionalizzate nelle industrie della morte note come case di riposo, i corpi considerati disabili, in particolare quelli che sono stati istituzionalizzati dentro le industrie della morte note come residenze per disabili e i corpi criminalizzati e rinchiusi nelle industrie della morte note come prigioni, tutti universi paralleli completamente al di fuori della bolla di internet. Gli istituti di detenzione, di cui fanno parte gli ospedali, appaiono ormai non come enclavi di mantenimento dell’ordine sociale e della disciplina, ma come maglie fragili di una catena biopolitica in mutazione.

Uno dei cambiamenti biopolitici fondamentali nelle tecniche farmacopornografiche che caratterizzano la crisi del covid-19 è che il domicilio personale, l’abitazione, la casa privata, e non le istituzioni tradizionali di confinamento e di normalizzazione della società (ospedale, fabbrica, prigione, scuola), appaiono come il nuovo centro di produzione, consumo e controllo politico. Non si tratta solo di fare della casa il luogo dove il corpo viene confinato, come era durante la gestione della peste. Il domicilio personale è diventato il centro dell’economia del teleconsumo e della teleproduzione. Lo spazio domestico esiste ormai come un punto in uno spazio di cibersorveglianza, un luogo identificabile su una mappa di Google, un’immagine riconoscibile da un drone.

Se qualche anno fa mi sono interessato alla Playboy mansion, il maniero gotico di Chicago e poi la casa di Los Angeles dove viveva Hugh Hefner, il fondatore della rivista Playboy, è perché già in piena guerra fredda era un laboratorio dove s’inventavano nuovi dispositivi di controllo farmacopornografico del corpo e della sessualità. Dalla fine del novecento questi dispositivi si sono diffusi in occidente e oggi, con la crisi del covid-19, sono stati estesi all’insieme della popolazione mondiale. Mentre facevo le mie ricerche su Playboy, sono rimasto colpito dal fatto che Hugh Hefner, uno degli uomini più ricchi del mondo, avesse passato quasi quarant’anni senza uscire di casa, indossando solo pigiami, vestaglie e pantofole, bevendo bibite gassate e mangiando barrette di cioccolato. Hefner diresse e produsse la rivista più importante degli Stati Uniti senza mai lasciare la sua casa e nemmeno il suo letto. Collegato a una videocamera, a una linea telefonica diretta, alla radio e a un impianto stereo, il letto di Hefner era una vera e propria piattaforma di produzione multimediale.

Il suo biografo, Steven Watts, ha definito Hefner un “recluso volontario dentro il suo paradiso”. Fan dei dispositivi di archiviazione audiovisiva d’ogni tipo, Hefner, ben prima di possedere un cellulare, Face­book o WhatsApp, inviava più di venti cassette audio e video al giorno con consigli e messaggi, che andavano dalle interviste in diretta alle istruzioni per la pubblicazione della rivista. Ricoperta di pannelli di legno e tende spesse, ma attraversata da migliaia di cavi e piena di quelle che all’epoca erano considerate tecnologie di telecomunicazione all’avanguardia (e che oggi ci sembrerebbero arcaiche come il tam tam), la mansion era al tempo stesso completamente impenetrabile e del tutto trasparente. Hefner aveva installato una telecamera a circuito chiuso nel maniero, dove viveva anche una decina di modelle della rivista, e dalla sua postazione di controllo poteva accedere a tutte le stanze in tempo reale. Il materiale filmato dalle telecamere di sorveglianza finiva anch’esso sulle pagine della rivista.

Le misure biopolitiche di gestione del contagio imposte durante la crisi del covid-19 ci hanno trasformato tutti in lavoratori orizzontali

La rivoluzione biopolitica silenziosa condotta da Playboy, al di là della trasformazione della pornografia eterosessuale in cultura di massa, significò la rimessa in discussione della divisione che aveva fondato la società industriale dell’ottocento: la separazione delle sfere di produzione e di riproduzione, la differenza tra fabbrica e casa e con essa la distinzione patriarcale tra mascolinità e femminilità. Playboy creò una nuova enclave di vita: l’appartamento per scapoli interamente connesso alle nuove tecnologie di comunicazione così che il nuovo produttore semio-tecnico non dovesse uscire né per lavorare né per fare l’amore, attività che comunque erano diventate indistinguibili. Il suo letto rotondo era al tempo stesso la sua scrivania, il suo ufficio di direttore della rivista, un set fotografico, uno studio televisivo e un luogo d’incontri sessuali.

Playboy anticipò il discorso contemporaneo sul telelavoro e la produzione immateriale che la crisi del covid-19 ha trasformato in dovere nazionale. Hefner definiva questo nuovo produttore sociale il “lavoratore orizzontale”. Il vettore d’innovazione sociale messo in moto da Playboy promuove l’erosione (e poi la distruzione) della distanza tra lavoro e svago, tra produzione e sesso. A questo proposito, Playboy s’interrogava anche sulla differenza tra le sfere maschili e femminili, facendo del nuovo operatore multimediale “un uomo domestico”, cosa che all’epoca sembrava un ossimoro. Il biografo di Hefner ci ricorda che questo isolamento produttivo aveva bisogno di un sostegno chimico: Hefner era un consumatore di dexedrina, un’amfetamina che elimina la stanchezza e il sonno. Per cui, paradossalmente, l’uomo che non si alzava dal letto non dormiva molto. Il letto come nuovo centro operativo multimediale era una cella farmacopornografica: poteva funzionare solo grazie alla pillola contraccettiva, ai farmaci per mantenere la produzione a un livello elevato e alla connessione a banda larga per sostenere il flusso costante di codici semiotici diventati l’unico vero cibo.

Vi ricorda qualcosa? Non somiglia stranamente alle vostre vite confinate? Pensiamo agli slogan del presidente francese Emmanuel Macron: siamo in guerra, non lasciate il vostro domicilio e telelavorate. Le misure biopolitiche di gestione del contagio imposte durante la crisi del covid-19 ci hanno trasformato tutti in lavoratori orizzontali. Lo spazio domestico di ognuno di noi oggi è mille volte più tecnologico del letto girevole di Hefner nel 1968. Il telelavoro e i dispositivi di telecontrollo sono a portata di mano.

In Sorvegliare e punire, Michel Foucault analizza le celle di confinamento unipersonale dei monaci come vettori che servirono a modellare il passaggio dalle tecniche sovrane e sanguinarie di controllo del corpo e della soggettività di prima del settecento ad architetture e dispositivi di confino disciplinari come nuove tecniche di gestione dell’intera popolazione. Le architetture disciplinari erano versioni secolarizzate delle celle monastiche all’interno delle quali l’individuo moderno fu costruito come un’anima intrappolata dentro a un corpo, un’anima letterata in grado di leggere le istruzioni dello stato. Quando lo scrittore Tom Wolfe andò a trovare Hefner, scrisse che viveva in una prigione morbida come il cuore di un carciofo. Si potrebbe dire che durante la guerra fredda la Playboy mansion e il letto girevole di Hefner funzionarono come spazi di transizione dentro ai quali inventare il nuovo soggetto profetico e iperconnesso. Questa mutazione si è diffusa e amplificata con la gestione della crisi del covid-19: i nostri mezzi di telecomunicazione portatili sono i nostri nuovi carcerieri e i nostri stessi interni domestici sono diventati la nostra prigione molle e iperconnessa del futuro.

Tutto questo potrebbe essere una brutta notizia o una grande opportunità. È proprio perché i nostri corpi sono le nuove enclavi del biopotere e i nostri appartamenti le nuove celle di biovigilanza che oggi più che mai bisogna inventare nuove strategie di emancipazione cognitiva e di resistenza, avviare nuove forme di antagonismo.
Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, la nostra salute non dipenderà dal confine né dalla separazione, ma da una nuova concezione della comunità che includa tutti gli esseri viventi, da un nuovo equilibrio con gli altri esseri viventi del pianeta. Abbiamo bisogno di un parlamento di corpi planetari, un parlamento non definito in termini di politiche d’identità o di nazionalità, un parlamento di corpi (vulnerabili) che vivono sul pianeta Terra. Il covid-19 e le sue conseguenze ci esortano a superare una volta per tutte la violenza con cui abbiamo definito la nostra immunità sociale.

La guarigione e il recupero non possono essere un puro gesto immunologico di ritiro dal sociale, di chiusura della comunità. La guarigione e la cura non possono che essere un processo di trasformazione politica. Guarire in quanto società significherà inventare una nuova comunità al di là delle politiche d’identità e di frontiera con cui fino a oggi abbiamo prodotto la sovranità, ma anche al di là della riduzione della vita alla biosorveglianza cibernetica. Restare in vita, mantenerci in vita come pianeta, di fronte al virus ma anche a ciò che potrà succedere, significa mettere in atto nuove forme di cooperazione planetaria. Così come il virus muta, se vogliamo resistere alla sottomissione anche noi dobbiamo subire una mutazione.

Dobbiamo passare da una mutazione forzata a una mutazione decisa da noi. Dobbiamo operare una riappropriazione critica delle tecniche biopolitiche e dei loro dispositivi farmacopornografici. Prima di tutto, è necessario modificare la relazione del nostro corpo con le macchine di biovigilanza e biocontrollo. Dobbiamo imparare collettivamente a modificarle. Dobbiamo imparare anche a disalienarci. I governi chiedono il confino e il telelavoro. Sappiamo che quello che stanno chiedendo è la decollettivizzazione e il telecontrollo. Usiamo il tempo e la forza del confino per studiare le tradizioni di lotta e di resistenza delle minoranze che fino a oggi ci hanno aiutato a sopravvivere. Spegniamo i telefoni, scolleghiamo internet. Facciamo il grande blackout di fronte ai satelliti che ci osservano e riflettiamo insieme sulla rivoluzione in arrivo.

(Traduzione di Tiziana Lo Porto)

Questo articolo è uscito sul numero 1356 di Internazionale. Compra questo numero|Abbonati

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