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Un narcisista alla guida dell’hip-hop arabo

Yassin Alsalman, in arte The Narcicyst, in un ritratto del 2013. (Hassan Hajjaj, Taymour Grahne Gallery)

Se dopo l’11 settembre non è stato facile essere arabi, dopo l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti avere non solo un nome arabo ma anche un’origine irachena è stato ancora più complicato. Figuriamoci se poi, oltre a essere arabo e iracheno, vivi in Nordamerica e fai musica underground: in pratica sei segnato a vita.

Così non è stato per The Narcicyst (Narcy per gli amici), musicista canadese-iracheno, punta di diamante dell’hip-hop arabo contemporaneo. Con il suo stile “dandy”, carismatico e inconfondibile, mescola sapientemente le sue origini con la musica e il linguaggio dell’hip-hop mondiale. Ed è diventato la voce di riferimento per i tanti giovani arabi della diaspora, senza patria come lui.

Narcy, al secolo Yassin Alsalman, è nato 33 anni fa a Dubai da genitori iracheni originari di Bassora, città da cui sono dovuti fuggire negli anni settanta. Dopo i primi anni negli Emirati Arabi Uniti, la famiglia Alsalman si trasferisce a Montréal, in Canada, dove Yassin ottiene la cittadinanza canadese. Gli anni successivi li passa tra gli Emirati e il Canada, dove si trasferisce definitivamente nel 2000 e ottiene un master in media studies alla Concordia University.

Dopo l’11 settembre le persone hanno cominciato a trattarci diversamente

Oggi, con quattro album all’attivo (in cui canta in arabo-iracheno e in inglese), alcuni editoriali per la Cnn, un libro sull’identità araba nell’hip-hop, centinaia di concerti in giro per il mondo, collaborazioni con i più importanti artisti arabi attivi sulla scena internazionale, e una cattedra in storia dell’hip-hop all’università, The Narcicyst è diventato un nome di tutto rispetto nel panorama musicale mondiale.

Ma è anche un’ispirazione per i tanti musicisti e artisti arabi della diaspora, che si destreggiano come lui tra due culture e per i quali affermarsi in un mondo sempre più pieno di muri e barriere non è mai un processo indolore.

Al tempo di Saddam Hussein essere originari dell’Iraq non era esattamente un buon biglietto da visita. Ma dopo l’11 settembre le cose sono peggiorate: “A causa della nostra origine araba non potevamo viaggiare liberamente come volevamo, neanche negli Stati Uniti”, mi spiega Yassin Alsalman a Firenze, dove l’ho incontrato in occasione del suo primo concerto italiano, all’ultimo Middle East Now festival. “Io sono canadese, ho la cittadinanza canadese. Eppure sono stato fermato in aeroporto più di dieci volte, forse quindici”.

L’hip-hop ha permesso a Yassin e ai suoi amici iracheno-canadesi di esprimere il loro disagio nei confronti di un mondo che considera la cultura araba sinonimo di terrorismo e morte: “Dopo l’11 settembre le persone hanno cominciato a trattarci diversamente. E più ce ne rendevamo conto e più ci chiedevamo: ‘Perché ci trattano così ora? Vivo da sempre in questo paese, non sono una minaccia!’. Ma era tutto inutile”. I suoi testi dell’epoca erano estremamente politicizzati: “Volevo dire al mondo che non eravamo dei terroristi. Il mio approccio era artistico ma i miei testi erano più sarcastici, cercavo di avvicinare le persone alla mia musica con l’ironia per poi far vedere loro la realtà buia in cui ci trovavamo a vivere”.

La frustrazione e la rassegnazione di quel dopo 11 settembre è tutta in questo video della canzone P.H.A.T.W.A., in cui Yassin canta:

We went from supported to subordinate
Can’t afford it, ordered
My motherland smothered and mortared
Morbid, at borders
I’m sorted out from beardless cats
That boarded the plane as I was boarding
Then detained, I can’t call it
Mic Check when they search my Jordans
It hurts like mourning so…
(Pump pain and oil while they murder).

A distanza di più di dieci anni, Yassin vede quanto gli è accaduto come un dono e una maledizione: “Quella esperienza ci ha messo addosso molta pressione, ma allo stesso tempo ci ha permesso di imparare tanto sulla nostra società. Ci ha insegnato come esprimerci al meglio per far capire alle persone da dove veniamo e cosa facciamo. Soprattutto ci ha permesso di condividere la ricchezza della cultura da cui proveniamo”.

Anche i suoi testi recenti sono cambiati: il suo ultimo album, uscito a maggio con il titolo World war free, è caratterizzato da tratti più intimisti e riflessivi. Il pubblico si fa privato, le canzoni accolgono le sue esperienze personali, come la recente paternità, o criticano la società consumista di oggi. Rise, una delle canzoni dell’album, è anche il titolo di un corto musicale da lui prodotto, in cui il protagonista è un giovane in carriera che ha perso se stesso e la sua anima più creativa.

Artista eclettico, il suo ultimo progetto multimediale si chiama We are the medium: un collettivo di artisti, musicisti e produttori indipendenti nati nella diaspora, o a cavallo tra più mondi, che vuole proporre la propria narrazione e avviare collaborazioni tra artisti di tutto il mondo. Ne fanno parte anche l’artista calligrafo francotunisino eL Seed e il vignettista sudanese (ma che vive in Qatar) Khalid al Baih. “La nostra esperienza di non appartenenza a nessun luogo fa di noi dei cittadini del mondo moderno”, continua Yassin. “Forse siamo un esempio di dove sta andando il mondo, siamo una generazione di persone nuove. Viviamo nell’internationality e se il mondo non capisce questo nuovo fenomeno è destinato a cadere in mille pezzi”.

The Narcicyst non è l’unico musicista arabo o di origini arabe ad aver conquistato il successo internazionale: dalla francomarocchina Hindi Zahra, ai libanesi Mashrou’ Leila e Yasmine Hamdan, passando per la tunisina Emel Mathlouthi, il siriano Samer Saem Eldahr (aka Hello Psychaleppo) e il duo libanese-egiziano composto da Zeid Hamdan e Maryam Saleh, i club europei hanno imparato ad apprezzare il mix di sonorità e linguaggi che collegano le due sponde del Mediterraneo a suon di jazz, tarab, electro-funk, oud, reggae e dabka, tra arabo, berbero, inglese e francese.

Eppure The Narcicyst è scettico su questo fenomeno: per lui “l’innamoramento culturale e musicale” da parte dell’Europa, e dell’occidente in generale, nasconde una certa vena orientalista mai esaurita e si traduce nell’appropriazione culturale dell’identità “superficiale” dell’altro, il nemico del dopo 11 settembre. “Quando vai in guerra contro qualcuno, e sto parlando soprattutto delle potenze occidentali, il nemico diventa esotico e sexy tutto d’un tratto. Diventa qualcuno che vuoi farti piacere. Vuoi assaggiare i felafel, l’hummus, indossare la kefiyyah, farti un tatuaggio con le lettere arabe. Ti interessa la superficie della cultura del tuo nemico, la sostanza la scarti. Credo che l’appropriazione culturale del mondo arabo e del Medio Oriente sia stata una conseguenza della guerra”.

Forse però c’è un modo per far accettare veramente le culture “subalterne” nel circuito internazionale, sostiene Yassin: attraverso la cultura pop. Quando un fenomeno diventa riconoscibile come pop culture, il pubblico è più disposto ad recepirlo.

Chissà se l’hanno capito quei giornalisti che continuano a chiedergli “cosa si prova a essere iracheni oggi”. La risposta di Yassin “Narcy” Alsalman non può che essere una: “Non lo so, so solo che fa parte di ciò che sono”. E rivela tutta la semplicità di un giovane nato da una parte del mondo, originario di un’altra, cresciuto in un altro angolo ancora, che fa solo hip-hop.

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