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Il Kenya aspetta il ritorno dei turisti

Ragazze di un villaggio vicino a Watamu aspettano il ritorno dei pescatori nella spiaggia della Blue lagoon.

Antony o “Pomodoro”, come lo chiamano gli amici, passeggia sulla spiaggia di Watamu mentre aspetta i clienti per un’escursione al largo della Turtle bay, un’area dove le tartarughe marine vanno a deporre le uova da gennaio a settembre, e poi scompaiono nelle acque dell’oceano Indiano per riposarsi tra una nidificazione e l’altra. Ma il cielo di maggio, in piena stagione delle piogge, è troppo minaccioso perché i turisti dei pochi resort aperti sulla spiaggia si avventurino al largo su una barca che non promette molta stabilità tra le onde dell’oceano.

Antony raccoglie informazioni: “Quanti siete? Tutti italiani? Quanto vi fermate? Oggi pomeriggio posso portarvi a vedere la laguna e a fare snorkeling”. In alta stagione il mare diventa cristallino e con la bassa marea appare una striscia di sabbia che gli italiani, i turisti più numerosi di questa regione, hanno soprannominato Sardegna 2, meta ambita di escursioni da Watamu e da Malindi. Me la cavo dicendo che non sono la responsabile del gruppo, ma cedo a una passeggiata “per andare a vedere le scimmie”, che aspettano, anche loro, turisti o abitanti del luogo, per un morso di frutta.

Watamu, che in swahili significa “gente dolce”, è una cittadina di circa mille abitanti sulla costa meridionale del Kenya; più a sud, a 105 chilometri, c’è Mombasa, la seconda città più grande del paese dopo Nairobi; più a nord, a 20 chilometri, c’è Malindi. Siamo nella contea di Kilifi, dove si vive di pesca, ma soprattutto di turismo, grazie alle spiagge bianchissime, alla ricchezza della fauna e della flora nella riserva marina della costa e alla possibilità di raggiungere in meno di quattro ore i parchi dello Tsavo est e ovest, famosi per i safari, che insieme coprono una superficie pari a sette volte quella della Valle d’Aosta.

Voi italiani sapete come fare le vacanze, gli inglesi leggono tutto il tempo

Sulla spiaggia che va dalla Blue lagoon alla Turtle beach, le cui acque fanno parte della marina, si affaccia una lunga fila di strutture turistiche e ville: da una parte ci sono quelle di proprietà italiana e dall’altra quelle gestite dagli inglesi. Una separazione geografica, ma anche culturale, che Antony, esperto beach boy dell’alta stagione, sottolinea così: “Voi italiani sapete come fare le vacanze, gli inglesi leggono tutto il tempo”. E in alta stagione, tra gli italiani che praticano tutte le attività sportive offerte dagli hotel e gli inglesi con un romanzo in mano, in spiaggia “non si può camminare”, raccontano gli amici di Antony, che provano a vendermi collane e statuette a un ottimo prezzo “perché sono l’unica cliente”.

Dove sono finiti i turisti?

I beach boy, come gli albergatori della regione, sono le vittime dei temuti “avvisi” dei ministeri degli esteri dei paesi occidentali, che sconsigliano ai connazionali di partire per il Kenya per timore di attentati terroristici. Dopo il massacro del centro commerciale Westgate di Nairobi nel 2013 e l’ultimo attacco di Al Shabaab contro l’università di Garissa nell’aprile del 2015, in cui sono morti 148 studenti, anche il sito del ministero degli esteri italiano Viaggiare sicuri invita a essere “vigili”, a “limitare la presenza e, a titolo cautelativo, di effettuare solo viaggi ritenuti necessari”, citando tra le città più a rischio Mombasa, Malindi e, ovviamente, la capitale Nairobi.

Un duro colpo per il settore turistico del paese, dove il flusso di turisti da gennaio a maggio del 2014 è diminuito del 4 per cento rispetto allo stesso periodo del 2013 e le stime di quest’anno rischiano di essere aggiornate ancora più al ribasso, secondo il Kenya tourism board. In Kenya il turismo vale il 12 per cento del pil (dieci anni fa era il 14,7 per cento), subito dopo l’agricoltura, con il 10,4 per cento della forza lavoro impiegata nel settore secondo i dati del 2014. Secondo una ricerca del Business monitor international, il valore dell’industria turistica diminuirà del 10 per cento tra il 2015 e il 2019: gli “avvisi” sul terrorismo spaventano anche gli investitori, che stanno lasciando il Kenya, a favore di altre destinazioni.

Mombasa e Garissa sono a 400 chilometri di distanza, ma passeggiando davanti alla baia della Blue lagoon, sembrano mille. “Certo che siamo preoccupati per Al Shabaab, stanno ammazzando la nostra gente”, dice Antony. È difficile sentirsi in pericolo nelle tranquille vie di questa città, dove il ritmo del traffico è scandito dai viaggi nei colorati tuk tuk, i taxi a tre ruote diffusi anche in Asia, e dai boda-boda, i mototaxi, il cui nome deriva dalla necessità di trasportare merci dal confine del Kenya a quello dell’Uganda, border-to-border, per l’appunto.

“Perché dopo gli attentati di Parigi non è stato emesso un avviso per limitare i viaggi in Francia?”, si chiedono gli albergatori della regione. Tra loro Massimo Cheli, general manager di Medina Palms, un hotel di lusso sulla costa di Watamu. Cheli è nato in Italia, ma ha vissuto in Kenya fin dall’infanzia grazie alle attività di produzione e commercio di tè gestita dai genitori, come vicino di casa della scrittrice Kuki Gallmann nella regione della Rift valley.

In un paese con un pil che cresce al ritmo del 5,3 per cento all’anno, gli hotel possono contare su un nuovo tipo di turista: il keniano

Con il suo accento bolognese, da cui traspare un’inflessione british dovuta alle scuole frequentate, Cheli conferma lo stato di crisi del turismo in Kenya, ma, assicura, “in questi due anni abbiamo mantenuto tutti i 130 dipendenti, senza licenziare nessuno”. In un paese dove la disoccupazione raggiunge il 40 per cento, e “il costo della manodopera è basso”, ammette Cheli, non ha senso risparmiare mandando via qualcuno, che con molta probabilità è la principale fonte di reddito della famiglia.

In realtà, in un paese con un pil che cresce al ritmo del 5,3 per cento all’anno, secondo i dati del 2014, gli hotel possono contare su un nuovo tipo di turista: il keniano. “Sono l’80 per cento della nostra clientela in questi ultimi mesi”, spiega Cheli, grazie anche all’aumento dei voli tra Mombasa e Nairobi. “I keniani ricchi hanno voglia di spendere”, conferma il direttore del Medina Palms, e hanno cominciato a farlo viaggiando, mangiando e cercando il lusso nei resort sulla costa, che ora rimangono aperti anche in bassa stagione grazie a questo nuovo flusso. Sono politici, banchieri e anche giudici – da queste parti viene in vacanza il procuratore generale keniano – che decidono di investire acquistando case private dove riposarsi nei weekend fuggendo dalla caotica capitale. Parliamo del 10 per cento dei keniani che detiene il 38 per cento delle ricchezze del paese, dove la popolazione che vive sotto la soglia di povertà è il 43,4 per cento.

Malindi, divertimenti separati

La crisi si sente anche a Malindi, dove “welcome to Kenya” si dice “benvenuti in Kenya”: gli italiani sono la comunità di espatriati più numerosa, almeno tremila in alta stagione, su duemila iscritti all’Anagrafe italiani residenti all’estero (Aire) in tutto il Kenya, tra lavoratori del settore alberghiero, proprietari di ville (2.500 le proprietà italiane nel distretto di Malindi), turisti occasionali e pensionati che scelgono l’oceano Indiano per passare sei mesi all’anno al sole.

Le loro storie sono raccontate sul portale Malindikenya.net, dove, insieme alle notizie di cronaca locale, in questi ultimi mesi compaiono numerosi gli annunci di “superoccasioni” di ville in vendita o in affitto sulla Casuarina road, l’area residenziale con le abitazioni e i resort di lusso della città. Negli anni settanta, per primo Franco Rosso ha cominciato a portare qui gli italiani, per “fargli vedere questi posti prima che potessero cambiare”. Il pioniere dei tour operator vive a Lugano, ma torna spesso in Kenya, paese in cui ha lasciato il cuore e anche qualche business, con le strutture della Planhotel group, controllate dalla sua famiglia.

“Da lunedì a lunedì ogni sera potevi andare in una festa diversa”, dice sognante Maurizio Arena, general manager dell’hotel Diamond Dream of Africa, che racconta come la “Rimini d’Africa” abbia attratto fin dagli anni ottanta migliaia di nostri connazionali per “il clima” e la possibilità “di vivere da milionari con poco”. Arena, 46 anni, viene da Roma, e quando parla del Kenya lo fa con grandi sorrisi, esprimendo solo entusiasmo per la vita che conduce qui. Si è trasferito a Malindi tre anni fa per lavoro, con la moglie e le due bambine, che frequentano una scuola internazionale, insieme ad altri piccoli expat italiani, cinesi, inglesi, indiani.

E se gli italiani lasciano Malindi la colpa è di Al Shabaab, ma anche della crisi economica e della paura di “ebola”, che le agenzie di viaggio hanno aggiunto alla lista, già lunga, dei rischi in cui i turisti potrebbero incorrere in questo paese, nonostante sia lontano migliaia di chilometri dai luoghi in cui nel 2014 è scoppiata l’epidemia. In più, ci sono episodi di piccola e media criminalità, furti e rapine a mano armata contro i turisti, dovuti a una povertà diffusa (nel distretto di Malindi la popolazione che vive sotto la soglia di povertà raggiunge il 76 per cento) e ai flussi migratori dalla Somalia che aumentano la domanda di lavoro a fronte di un’offerta sempre più bassa.

Elefanti rossi nel parco dello Tsavo est.

Per ricordare i bei tempi davanti a una tazzina di caffè “come si deve”, gli italiani rimasti a Malindi vanno al Pata Pata, aperto da Mario Mele dopo aver tentato l’avventura in Egitto qualche settimana prima della primavera araba. Una domenica in televisione danno una partita di calcio e se non fosse per il clima, troppo caldo per un maggio italiano, potremmo essere veramente a Rimini.

Vicino al Pata Pata c’è un centro commerciale della catena Nakumatt, aperto nel 2012. Prima di entrare bisogna superare i controlli al metal detector: misure di sicurezza attivate un anno fa, spiega Mohamed Bawazir, del Kenyan tourism board, che “non hanno nulla a che vedere con Al Shabaab”. Nel Nakumatt il reparto pasta è fornitissimo e in città le insegne dei negozi hanno nomi italiani, la vita è scandita dalla presenza di turisti nelle spiagge e negli hotel.

Ma in questo periodo per la maggior parte sono chiusi, e per trovare un bar in cui rinfrescarsi con una dawa – che in swahili vuol dire medicina – una specie di mojito con il miele invece dello zucchero di canna e la vodka al posto del rum, bisogna aspettare le serate della Champions league. Scopriamo anche che i pub a cui gli stranieri hanno accesso “non sono quelli in cui va la popolazione locale”, dice Mohamed. “Ci sono posti in cui non posso andare neanch’io”, ammette. Keniani e italiani sono legati a doppio filo da una relazione alimentata dallo stesso interesse per il business del turismo, ma, a quanto pare, il loro tempo libero è vissuto in modi e spazi differenti.

Una strada di Malindi.

Negli anni ottanta (è il 1988 quando Rosso apre il primo hotel a Malindi, il Tropical Village), gli italiani hanno imparato a conoscere il Kenya in vacanza, poi se ne sono innamorati e quando hanno potuto ci hanno investito dei soldi comprando una villa sul lungo mare di Casuarina road. “Case con cucine più grandi degli hotel”, ricorda Maurizio Arena. Alcune case si sono anche trasformate in ristoranti e infine in hotel, per ospitare i vip attratti dalla vita mondana promessa da locali e discoteche nella privacy di una struttura lontana dalla spiaggia.

Non solo italiani

Prima degli italiani però a Malindi arrivarono gli arabi, nel tredicesimo secolo, e i portoghesi, anzi, un portoghese, Vasco da Gama, che nel 1498 visitò la città prima di raggiungere il Kerala, in India. Il passaggio dell’esploratore è segnato da una colonna come segnale di aiuto ai naviganti, sormontata da una croce in pietra di Lisbona. Il monumento si trova su un’altura da cui si ammira una baia in cui i pescatori di Malindi sono immersi nella seconda attività del paese, praticata anche da Hemingway prima di inoltrarsi nei safari, un po’ più cruenti rispetto a quelli fotografici proposti oggi ai turisti, raccontati nel romanzo Verdi colline d’Africa.

E nelle vie della città vecchia, sono le comunità yemenita e indiana a condurre gli affari, ma anche a influenzare la vita religiosa, scandita dagli orari delle preghiere nelle trenta moschee della città, dove i musulmani (l’11 per cento dei fedeli in Kenya), i cristiani e gli hindu convivono in pace.

Parlando di Garissa, i musulmani in Kenya si sentono doppiamente vittime: “Ci considerano responsabili, mentre in realtà abbiamo sempre condannato gli atti di Al Shabaab e anche i nostri affari ne sono danneggiati”, spiega Ustadh Ramadan, 27 anni, insegnante in una madrasa (scuola coranica) di Malindi.

Tutta l’economia della città è legata all’industria del turismo: “Qui una volta vendevamo anche 15-20 smartphone al giorno, oggi al massimo uno”, si lamenta il proprietario yemenita di un negozio di telefonia mobile, dove comunque i clienti fanno la coda per comprare le ricariche di Airtel e Safaricom, tra le principali compagnie di telefonia mobile del Kenya, grazie a cui l’economia letteralmente “gira” da cellulare a cellulare grazie al sistema di pagamento mobile mPesa, con cui i keniani pagano anche la spesa al negozio sotto casa.

Il futuro nel turismo ecosostenibile

Tra Watamu e Malindi però la ricchezza è anche e soprattutto quella delle riserve naturali. La costa keniana non può competere con il mar dei Caraibi o quello di Zanzibar, dove si stanno spostando gli investimenti degli albergatori italiani, ma un’alternativa alla moda di una vacanza tra i vip, ormai superata, potrebbe offrirla l’ecoturismo. Il parco marino di Watamu, il più vecchio del Kenya, si estende per 213 chilometri quadrati e ospita più di seicento specie di pesci e di rettili, e centinaia di tipi di coralli.

Con un po’ di fortuna, durante le escursioni in barca si possono avvistare anche delfini e squali balena. Il parco è gestito in parte dai community groups, gruppi autogestiti di cittadini che lavorano insieme a progetti sul territorio distribuendo i profitti tra gli associati, come in una cooperativa informale.

La foresta di mangrovie di Mida Creek, a Watamu.

Il Community recycling centre di Watamu è gestito da uno di questi gruppi e finanziato da privati, tra cui alcuni hotel della città come il Medina Palms, che ci tiene alla sua reputazione di struttura rispettosa dell’ambiente. Nato nel 2009 con alcuni volontari che si occupavano di raccogliere i rifiuti sulle spiagge, il centro oggi coinvolge 24 persone nelle attività di riciclo di plastica (recuperata in collaborazione con gli alberghi della costa), per la produzione di oggetti di uso quotidiano e la vendita dei trucioli ai centri di smaltimento rifiuti. I ricavati tornano alla comunità.

Un altro esempio è il Dabaso creek conservation group, che cura e protegge la foresta di mangrovie di Mida creek, prima sfruttata dalla popolazione per ricavarne legname, poi scoperta come patrimonio naturale per l’ecoturismo. Il gruppo organizza gite in piroga tra mangrovie e fenicotteri, e offre uno spazio di ristorazione dove assaggiare i granchi pescati nelle acque basse dell’insenatura.

E ancora il centro di conservazione dei serpenti, sempre a Watamu, che ospita 76 specie di questi rettili e funziona come il più grande produttore di siero antiveleno in Africa. O il Turtle watch, unico centro di cura e recupero delle tartarughe marine dell’Africa orientale, che, oltre a occuparsi degli animali che a migliaia ogni anno nidificano sulle spiagge di Watamu, lavora con le scuole per l’educazione dei più giovani alla conservazione dell’ambiente, in aula ma anche “sul campo”. L’esperienza di riportare all’oceano una tartaruga salvata e curata dai volontari del centro è un momento unico che vale ore di lezione alla lavagna. Ed è accessibile anche ai turisti.

Anche la sicurezza è materia della comunità. Giovanni Parazzi, console onorario di Watamu, figlio di italiani, nato in Etiopia (anzi, “in Abissinia”, come tiene a precisare) ha fondato il Watamu against crime, associazione di cittadini che aiuta la polizia locale e le aziende di vigilanza privata a tenere sotto controllo la delinquenza della città, perché “senza lavoro aumenta il crimine”, spiega Parazzi, che incontriamo ospite di Cheli nel Medina Palms.

Per far tornare la voglia ai turisti di viaggiare in Kenya, e dimenticare i consigli dei ministeri degli esteri, l’ufficio del turismo nazionale si è inventato anche una campagna sui social media, in cui gli abitanti spiegano perché amano il loro paese, con l’hashtag #whyIloveKenya. “Amo il mare, le spiagge e anche girare in bicicletta nella foresta di Arabuko Sokoke”, dice Parazzi nel video girato per la campagna. E avverte i turisti che un pericolo, anche molto ingombrante, in questa regione c’è: “Devo stare attento agli elefanti, perché ce ne sono molti”. Per ora, più dei terroristi.

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