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LE VITE DIETRO L’ETICHETTA

La frase made in Bangladesh è diventata un simbolo del paese, ma cosa pensiamo quando la leggiamo sulle etichette dei nostri vestiti?

I mezzi d’informazione occidentali tendono a presentare un quadro monodimensionale delle fabbriche d’abbigliamento: pessime condizioni di lavoro, donne piegate su macchine da cucire che lavorano molte ore per un salario irrisorio, datori di lavoro senza scrupoli la cui negligenza provoca disastri come quelli del Rana Plaza, che ha ucciso quasi 1.200 persone e ne ha ferite migliaia.

Ma le statistiche raccontano anche un’altra storia: dagli anni ottanta il pil del Bangladesh è cresciuto ogni anno del 5-6 per cento, un fenomeno legato allo sviluppo dell’industria dell’abbigliamento. Oggi il Bangladesh è il secondo produttore di abiti nel mondo, patria di quasi cinque milioni di operai e operaie che producono i vestiti esposti nei negozi di H&M, Zara, Mango, Levi’s o Primark.

Dopo decenni di crescita, oggi il settore produce oltre tre quarti dei guadagni derivanti dall’esportazione e il 14,5 per cento del pil. Il lavoro in fabbrica ha strappato milioni di bangladesi alla povertà che sono riusciti a guadagnare abbastanza da mandare i figli a scuola.

Ma questo fenomeno è ancora relativamente nuovo: fino al 1980 l’industria dell’abbigliamento in Bangladesh non esisteva. Come è successo in Europa agli albori dell’industrializzazione, il lavoro in fabbrica ha portato grandi mutamenti sociali, cambiando i rapporti tra uomini e donne, creando nuove classi sociali e nuovi stili di vita.



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Questo è un progetto di On Our Radar, reso possibile grazie al finanziamento dell’European Journalism Centre (EJC), Innovation in Development Reporting (IDR)

Prodotto, filmato e diretto da:

Davide Morandini, Paul Myles

Editing:

Davide Morandini

Fotografia:

Davide Morandini, Paul Myles

Post-produzione fotografica:

Nicola Avanzinelli

Interactive concept:

May Abdalla, Isacco Chiaf, Davide Morandini, Paul Myles

Web design e sviluppo:

Isacco Chiaf, Manuele Sarfatti

Collaboratori e traduttori:

Nahidul Hassan Nayan, Imran Rahman, Farah Tanzir

Ricerca:

Jesse Jeune

Musica:

19 Sound

Un ringraziamento speciale alla squadra della fondazione AWAJ, a Olivia Windham Stewart e a Florence Myles.

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