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Cos’è il fondo salva stati e perché è diventato un capro espiatorio

Una sede della Banca d’Italia, a Roma, ottobre 2018. (Alessia Pierdomenico, Bloomberg/Getty Images)

In queste settimane in Italia è esplosa un’accesa polemica politica intorno alla riforma del Meccanismo europeo di stabilità (Mes), il “fondo salva stati” nato per soccorrere i paesi dell’eurozona in difficoltà che non riescono ad accedere ai mercati finanziari. Parte dell’opposizione (la Lega) e parte del governo (il Movimento 5 stelle) contestano aspramente l’accordo – tra accuse di alto tradimento e minacce di far saltare la maggioranza – che pure è stato approvato in una prima versione nel dicembre del 2018 e poi rivisto nel giugno del 2019, quindi in un periodo in cui entrambi i partiti facevano parte del primo governo Conte e con i loro ministri partecipavano al tavolo dei negoziati.

Dopo tutto questo tempo il Mes è balzato al centro dell’attenzione solo ora, ma per gran parte dell’opinione pubblica è un oggetto misterioso di cui non si comprende né la natura né tanto meno l’utilità, e forse proprio per questo è perfetto per la propaganda di chi vuole guadagnare consensi elettorali o per nascondere dietro una minaccia esterna le proprie responsabilità. Fare un po’ di chiarezza sul Mes, invece, permetterebbe di capire che questo strumento, con i punti critici che di certo non mancano, è importante per l’Italia e per l’intera eurozona.

Il Mes è stato creato nel 2012 come successore dell’European financial stability facility (Efsf). Si tratta di un fondo che ha il compito di prestare soldi ai paesi dell’eurozona che perdono l’accesso al mercato dei capitali e quindi rischiano l’insolvenza. Ha un capitale di 700 miliardi di euro, di cui 80 già versati dai paesi membri in base al pil e alla popolazione (la Germania è il maggior contribuente con il 26,9 per cento, l’Italia è al 17,8 per cento e ha versato 14 miliardi di euro) e 620 che devono essere a disposizione. Il Mes prende in prestito soldi sui mercati e finanzia a condizioni favorevoli i paesi in crisi di liquidità che ne fanno richiesta. In passato lo ha già fatto per la Grecia, la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda e Cipro. È un prestatore di ultima istanza per i governi dell’euro o, se si vuole, una sorta di assicurazione che si può usare in caso di bisogno.

Secondo alcuni, le nuove regole spingeranno molti investitori a non prestare più soldi ai paesi con i conti in rosso come l’Italia

Oltre a concedere dei prestiti (l’unico strumento che finora ha usato), il Mes può aprire delle linee di credito a cui un paese possa ricorrere in caso di necessità. Nella versione attuale del fondo, l’accesso a una linea di credito prevede la sottoscrizione di un memorandum of understanding (Mou, memorandum d’intesa), in cui vengono poste delle condizioni (di solito riforme e misure correttive dei conti pubblici). La riforma, invece, prevede che l’accesso a una prima forma di linea di credito sia possibile senza memorandum ai paesi che risultano in regola con le regole europee di finanza pubblica. Per tutti gli altri c’è la Enhanced conditioned credit line (Eccl), che invece richiede il memorandum e comunque delle condizioni. In questo caso la riforma (che sarà firmata nel 2020) favorisce un numero ristretto di paesi, di cui senza dubbio non fa parte l’Italia, e limita notevolmente l’uso dello strumento.

Un punto particolarmente spinoso della riforma è la possibilità di ristrutturare (cioè rinegoziare) il debito del paese in crisi con il cosiddetto Private sector involvement (Psi), in pratica un accordo con i creditori per rimborsare solo una parte del debito. Questo strumento è stato già usato con la Grecia. La riforma cerca di facilitare la ristrutturazione introducendo le clausole di azione collettiva (Cacs) single-limb, cioè la possibilità di ristrutturare l’intero debito con l’approvazione di una maggioranza qualificata di tutti i creditori. Attualmente il Mes richiede invece due maggioranze (le Cacs double-limb, una per la totalità dei creditori e una per ogni serie di titoli emessi), che in sostanza permettono a piccoli gruppi di creditori o a un creditore che possiede molti titoli di stato di bloccare ogni ristrutturazione (fattore che ha reso molto difficile la ristrutturazione del debito greco).

Secondo alcuni, le nuove Cacs spingeranno molti investitori a non prestare più soldi ai paesi dell’eurozona, soprattutto a quelli con i conti in rosso come l’Italia, facendo aumentare gli interessi dei titoli di stato e quindi scatenando davvero una crisi di liquidità. Ma non si tiene conto che la diffidenza degli investitori è alimentata soprattutto dall’affidabilità del debitore. La riforma del Mes, infatti, prevede che un’eventuale ristrutturazione sia decisa solo dopo una valutazione della sostenibilità del debito di un paese che ha chiesto aiuto al fondo. Si valuta se, grazie agli aiuti del Mes e alle misure di correzione del bilancio, un paese sarà in grado di evitare l’insolvenza. Solo in caso di valutazione negativa si potrà richiedere una ristrutturazione prima di concedere il prestito.

Potere di veto
Innanzitutto, quindi, la riforma esclude una ristrutturazione automatica, come invece avevano proposto i paesi nordeuropei. Inoltre la valutazione, affidata al Mes e alla Commissione europea, resta un atto di carattere politico. Il Mes risponde ai ministri delle finanze europei, che nel caso dell’Italia, oltre ai dati tecnici, non potrebbero non tener conto delle gravi conseguenze di una crisi del debito italiano per tutta l’eurozona. Come ha spiegato il governatore della Banca d’Italia, Vincenzo Visco, in un’audizione alla camera dei deputati, il Mes è guidato da un consiglio dei governatori, composto dai ministri delle finanze dell’eurozona, che assume all’unanimità le principali decisioni. Inoltre, nel consiglio la Germania, la Francia e l’Italia hanno quote superiori al 15 per cento e quindi possono porre il loro veto anche sulle decisioni prese in condizioni d’urgenza.

Un ultimo aspetto rilevante della riforma è il suo collegamento con l’unione bancaria europea, il progetto di unificazione delle normative bancarie attraverso il meccanismo di vigilanza unico (Mvu) e il Meccanismo di risoluzione unico (Mru, un fondo per la risoluzione ordinata delle banche in crisi), già realizzati, e il sistema europeo di assicurazione dei depositi (Edis), ancora in discussione. Il nuovo Mes potrà concedere prestiti all’Mru nel caso in cui questo esaurisca le sue risorse. Smentendo chi sostiene che i soldi italiani del Mes serviranno a salvare le banche tedesche e francesi, il governatore Visco ha precisato che l’eventuale esborso sarà possibile solo dopo il coinvolgimento diretto di azionisti, obbligazionisti ed eventualmente depositanti oltre i 100mila euro, in misura pari ad almeno l’8 per cento del passivo della banca risolta. In ogni caso il Mes potrà coprire al massimo il 5 per cento del passivo della banca in risoluzione.

In origine la riforma doveva essere approvata dai capi di stato e di governo dell’eurozona al vertice previsto il 12 e 13 dicembre. Il 5 dicembre, dopo una lunga notte di trattative, i ministri delle finanze dell’Eurogruppo hanno deciso di rinviare la firma al primo trimestre del 2020. Inoltre si sono accordati affinché ogni paese abbia una certa discrezionalità sui meccanismi del processo di ristrutturazione e quindi sulle nuove Cacs. Molto probabilmente la riforma del Mes sarà approvata così com’è, salvo piccole correzioni finali.

Una cosa fin d’ora è certa: potrà anche avere degli elementi che penalizzano l’Italia, ma non può essere usata come capro espiatorio. Se in futuro Roma dovesse essere costretta a chiedere aiuto al fondo, la colpa non sarebbe certo dei soliti burocrati europei o dei paesi ricchi dell’eurozona, spesso additati come nemici della patria dalla propaganda populista e da politici che vogliono sviare l’attenzione degli elettori dalle proprie responsabilità. Lo stato delle finanze pubbliche italiane è addebitabile al comportamento del governo attuale e di quelli passati. Parlare dei rischi del Mes, spesso dicendo cose false e fuorvianti, non fa che rafforzare negli altri paesi europei e tra gli investitori la convinzione che l’Italia sia inaffidabile e sull’orlo dell’insolvenza. Invece sarebbe meglio concentrarsi su come rilanciare l’economia e rendere sostenibile o eventualmente ridurre il debito pubblico prima di essere costretta davvero a ricorre agli aiuti europei.

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