×

Fornisci il consenso ai cookie

Internazionale usa i cookie per mostrare alcuni contenuti esterni e proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso, consulta questa pagina.

Chi ha mandato in rovina gli Stati Uniti?

Santa Monica, California, 2015. (Jake Michaels, The New York Times/Contrasto)

Di questi tempi sono pochissimi gli argomenti sui cui gli statunitensi sembrano d’accordo. Le fratture sociali e politiche vengono da lontano, ma negli ultimi dieci anni la crisi economica, l’elezione del primo presidente afroamericano e l’ascesa politica di Donald Trump, che ha basato tutta la sua strategia politica sulle divisioni culturali, hanno accentuato la polarizzazione e hanno ridotto, quasi azzerato, il terreno comune dei partiti e degli elettori di schieramenti diversi.

Ma c’è una cosa su cui la maggioranza degli americani sembra concordare, ed è la convinzione che il paese stia andando nella direzione sbagliata. Tutti i sondaggi condotti in questi anni arrivano alla stessa conclusione: circa due terzi degli americani erano e sono pessimisti sul futuro del paese.

Non solo quando al potere ci sono presidenti impopolari come Donald Trump (che è ben visto solo dal 37 per cento degli americani) ma anche quando il paese è guidato da leader come Barack Obama (che nell’ultima parte del suo mandato ha avuto un indice di popolarità intorno al 50 per cento); segno che il pessimismo non è il frutto dalla situazione politica del momento ma di un senso di sfiducia che viene da lontano. Un sentimento alimentato prima di tutto dall’idea che gli Stati Uniti siano in una fase di declino economico che i loro leader politici non sono in grado di contrastare.

Tutta colpa dei millennial?
Così, mentre l’influenza di Washington nel mondo continua a ridursi, l’opinione pubblica e i politici discutono per trovare il colpevole. In molti hanno cominciato a puntare il dito contro i millennial, la cosiddetta generazione Y, cioè le persone nate tra l’inizio degli anni ottanta e la fine degli anni novanta. Sparare sui millennial è diventato lo sport preferito dei commentatori di destra e sempre più spesso anche di quelli della sinistra tradizionale. I ventenni e i trentenni sono praticamente accusati di aver ucciso qualsiasi cosa: le catene di ristoranti, l’industria automobilistica, il matrimonio, il settore immobiliare, il football, le aziende che producono tovaglioli, le banche, le catene di abbigliamento, il golf, il petrolio.

Questo, sostengono i critici, dipende dal fatto che quella dei millennial sarebbe una generazione autoreferenziale ed egoista, che ha sostituito l’attivismo politico tradizionale con quello frenetico e sterile che si fa attraverso i social network, che con le sue abitudini di consumo e imprenditoriali ha mandato in pensione settori economici tradizionali per investire su modelli che non producono ricchezza né posti di lavoro.

Come in ogni scontro generazionale, alla base delle critiche c’è l’incapacità della vecchia generazione di capire la cultura di quella nuova, a sua volta alimentata, soprattutto oggi, da un senso di nostalgia che cancella gli aspetti peggiori della società di ieri e sottolinea le criticità di quelle di oggi.

I dati dimostrano che la generazione dei millennial è per certi versi la più altruista mai esistita

È curioso, per esempio, notare che molte delle accuse mosse oggi ai millennial sono identiche a quelle che i giovani degli anni sessanta e settanta ricevevano dai loro genitori. Un esempio. Simon Sinek, consulente di marketing che tiene discorsi motivazionali in giro per il mondo, è autore del libro Millennials in the workplace (i millennial sul posto di lavoro) in cui scrive: “Sono cresciuti in un mondo di gratificazioni istantanee. Se vuoi comprare qualcosa lo ordini su Amazon e lo ricevi il giorno dopo. Puoi abbuffarti di programmi tv senza neanche dover aspettare una settimana. Possono avere successo in tutto tranne che sul lavoro e nelle relazioni, che sono processi lenti, difficili e sgradevoli”.

Ecco cosa dicevano due poliziotti nella serie tv Dragnet, del 1967: “Sono cresciuti con la gratificazione istantanea. Premi un tasto e hai l’intrattenimento istantaneo, schiaccia sette tasti e hai la comunicazione istantanea, schiaccia un pedale e hai il trasporto istantaneo, tira fuori una carta e hai soldi istantanei. Ma ci sono problemi che non puoi risolvere così velocemente”.

Tra l’altro i dati dimostrano che la generazione dei millennial è per certi versi la generazione più altruista mai esistita. Pur essendo entrati nel mercato del lavoro mentre l’economia era sull’orlo del collasso e pur essendo affossati dai debiti di studio, nel 2015 l’85 per cento dei millennial ha fatto donazioni, e il 70 per cento si è impegnato a raccogliere soldi per cause sociali.

Su queste e altre valutazioni si basa il contrattacco dei millennial contro i loro padri e nonni, i cosiddetti baby boomer, le persone che sono nate dopo la seconda guerra mondiale e hanno vissuto in un paese che per almeno tre decenni ha continuato a progredire a livello economico.

Tra i più radicali e interessanti atti d’accusa nei confronti dei baby boomer c’è quello di Bruce Gibney, scrittore e investitore che nel 2015 ha pubblicato un articolo dal titolo “Una generazione di sociopatici: come i baby boomer hanno tradito l’America”. Gibney accusa le persone nate dopo la guerra di aver compiuto un “saccheggio generazionale”: hanno saccheggiato l’economia nazionale, riducendosi continuamente le tasse, finanziando due guerre attraverso il deficit, ignorando i cambiamenti climatici, assistendo immobili alla morte dell’industria manifatturiera e lasciando che fossero le generazioni successive a dover sistemare il casino che loro hanno creato.

Gibney spiega che all’inizio degli anni ottanta i baby boomer della classe media, in grande maggioranza bianchi, sono diventati la maggioranza dell’elettorato, e negli anni seguenti hanno consolidato il loro dominio sulla politica nazionale. Ma l’evoluzione demografica degli Stati Uniti farà in modo che nei prossimi anni i baby boomer smetteranno di essere la maggioranza a vantaggio dei millennial e dei postmillennial, le persone nate dopo il 2000, due generazioni molto meno bianche rispetto a quelle precedenti.

Ma questo non basterà a trasformare l’economia e la politica nazionale. La svolta, secondo Gibney, arriverà quando i millennial non solo andranno a votare in massa ma entreranno in politica per svecchiare le istituzioni locali e nazionali. Fino a quel momento la politica continuerà a essere dominata dagli interessi dei baby boomer, e il risultato sono leggi come la riforma fiscale appena approvata dal congresso, il cui elemento più preoccupante non sta nel fatto che arricchisce ulteriormente chi è già ricco, ma nel tentativo di scaricare sulle generazioni future i costi di un debito pubblico e di un modello economico insostenibili.

pubblicità