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La settimana in cui Donald Trump ha dichiarato guerra agli immigrati

Una manifestazione contro la politica sull’immigrazione di Donald Trump a Los Angeles, California, settembre 2017. (David McNew, Getty Images)

“Perché permettiamo a tutte queste persone che vengono da paesi di merda di arrivare qui?”, avrebbe detto il presidente statunitense Donald Trump durante un incontro con alcuni parlamentari. La frase è stata riportata dal Washington Post e poi confermata da NbcNews. Secondo la Cnn Trump avrebbe anche detto “perché abbiamo bisogno di altri haitiani? Cacciateli via” e che gli Stati Uniti dovrebbero accogliere persone che arrivano dalla Norvegia, o al limite dall’Asia, perché possono dare una mano all’economia americana. Dopo la pubblicazione del retroscena la Casa Bianca ha rilasciato una dichiarazione in cui si dice che “il presidente combatterà sempre per il popolo americano”, ma non ha smentito le frasi riportate dai mezzi d’informazione.

All’incontro erano presenti molti deputati e senatori che stanno lavorando per presentare un progetto di legge che regolarizzi i cosiddetti dreamers, gli immigrati irregolari arrivati negli Stati Uniti da bambini e che oggi studiano, lavorano, hanno messo su famiglia, insomma sono perfettamente integrati nella società. Finora i dreamers sono stati protetti dall’espulsione grazie al programma Daca, introdotto tramite decreto da Barack Obama. Qualche mese fa Trump ha cancellato il provvedimento e ha dato sei mesi di tempo al congresso per regolarizzare la posizione dei dreamers. Se l’accordo non dovesse essere trovato, circa 800mila persone potrebbero essere espulse in paesi dove praticamente non hanno mai vissuto e che non conoscono.

Non è cambiato nulla dal maggio del 2015, quando Trump lanciò la sua candidatura sostenendo che i messicani sono stupratori

Finora Trump ha sempre detto che accetterà la regolarizzazione dei dreamers in cambio di provvedimenti che per i democratici sono irricevibili: stanziamento di 18 miliardi di dollari per costruire un nuovo muro al confine con il Messico, più fondi per la polizia di frontiera e alcune misure per rendere più facili le espulsioni.

È probabile che le pressioni da varie parti della società e il fatto che la grande maggioranza degli americani sia favorevole alla regolarizzazione dei dreamers convinceranno Trump e i repubblicani a cercare una soluzione ragionevole, ma questa vicenda, come anche le frasi sulla provenienza dei migranti e la decisione di cancellare i visti temporanei per 200mila salvadoregni arrivati dopo il 2001, fanno capire quale sia l’approccio di quest’amministrazione alle politiche migratorie. Il principale criterio usato da Trump per decidere chi può entrare e chi deve restare fuori è, semplicemente, il colore della pelle.

Non è cambiato nulla dal maggio del 2015, quando Trump lanciò la sua candidatura sostenendo che i messicani sono “stupratori”, o da quando, circa sei mesi fa, disse che “tutti gli haitiani hanno l’aids” e che i nigeriani, una volta visti gli Stati Uniti, “non torneranno mai nelle loro baracche”. Non è un caso che Trump abbia fatto riferimento proprio alla Norvegia, un paese a grande maggioranza bianco che l’estrema destra statunitense ha sempre visto, insieme agli altri stati scandinavi, come un modello di conservazione della purezza razziale.

Ogni volta che il presidente fa una dichiarazione di quel tipo, negli Stati Uniti e nel resto del mondo si scatena un’indignazione sacrosanta ma anche rischiosa, perché finisce sempre per spostare il dibattito sui tratti psicologici di Trump e per confinare il problema alla sua inadeguatezza personale, ignorando invece gli effetti delle politiche messe in atto finora. Anche se i suoi sforzi sono stati disordinati, goffi e spesso controproducenti (come nel caso dei decreti per impedire l’ingresso nel paese alle persone provenienti da alcuni paesi a maggioranza musulmana, firmati appena entrato in carica ma subito bloccati dai tribunali), nel giro di un anno Trump è riuscito a sabotare politiche migratorie consolidate, a mettere in discussione un sistema per molti versi difettoso, ma che in fin dei conti è sempre stato basato sull’idea che gli Stati Uniti avessero bisogno di migliaia di nuovi immigrati ogni anno (anche e soprattutto di quelli poco qualificati e generalmente provenienti da paesi poveri) per compensare l’invecchiamento della popolazione statunitense e restare competitivi a livello economico.

Meno ingressi
Quest’amministrazione ha introdotto dei cambiamenti che stanno avendo conseguenze enormi, non solo per gli immigrati che arrivano negli Stati Uniti e per quelli che già ci vivono da irregolari, ma anche per il modo in cui il resto del mondo vede gli Stati Uniti.

Per prima cosa, il semplice messaggio di chiusura e intransigenza ha fatto calare di molto gli ingressi e in generale la volontà di tante persone di cercare una nuova vita negli Stati Uniti, come dimostra il fatto che gli attraversamenti al confine con il Messico sono diminuiti del 70 per cento sotto la presidenza di Trump.

Poi c’è stata la decisione di ridurre drasticamente il numero di rifugiati che gli Stati Uniti accolgono ogni anno, una decisione nata, per stessa ammissione di Trump e dei suoi collaboratori, per impedire l’ingresso di musulmani, che il presidente considera tutti potenziali cavalli di Troia per portare il jihadismo negli Stati Uniti. Ancora più importante è stata la scelta di sguinzagliare in tutto il paese gli agenti della polizia per il controllo delle frontiere, un cambiamento radicale rispetto a quello che succedeva durante l’amministrazione Obama, che chiedeva alle forze di polizia di non prendere di mira gli irregolari che studiano e lavorano e ai tribunali di dare la priorità per le espulsioni agli immigrati irregolari condannati per reati violenti. Oggi invece chiunque non abbia i documenti in regola rischia di essere arrestato o espulso, con il risultato che in tutto il paese si moltiplicano le storie di genitori arrestati a casa davanti ai loro figli e di famiglie distrutte, di lavoratori prelevati durante il turno, e di imprenditori accusati di favorire l’immigrazione irregolare.

Proprio qualche giorno fa c’è stata la maggiore retata da quando Trump si è insediato: gli agenti hanno fatto irruzioni in 98 negozi della catena 7-Eleven in 17 stati, arrestando 21 persone. Queste azioni stanno seminando il panico tra i circa undici milioni di immigrati irregolari che vivono negli Stati Uniti, che sempre più spesso decidono di lasciare il paese e sconsigliano ai familiari e ai conoscenti di emigrare negli Stati Uniti.

A tutto questo si aggiunge la decisione di non rinnovare i permessi di soggiorno temporanei concessi a 200mila salvadoregni dopo che il loro paese era stato colpito da un grave terremoto. Nella maggior parte dei casi si tratta di persone che lavorano regolarmente negli Stati Uniti e che non hanno più legami con il Salvador, un paese dilaniato dalla violenza e che basa buona parte della sua economia sulle rimesse che arrivano dagli Stati Uniti.

C’è una linea politica e culturale molto evidente che collega questi provvedimenti alle frasi inaccettabili di Trump sugli immigrati. Entrambi servono da chiamata alle armi per i suoi elettori (Fox News ha difeso le frasi di Trump dicendo che si tratta semplicemente del modo in cui parlano le persone comuni) al fine di raggiungere quello che è sempre stato il principale obiettivo di quest’amministrazione: contrastare i cambiamenti demografici e ritardare il momento in cui i bianchi saranno la minoranza. Su questo Trump finora ha avuto successo, e facendolo sta trasformando la società e anche il modo in cui gli statunitensi vedono loro stessi.

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