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I test per entrare all’università sono un rebus

Andrea Chu, Getty Images

La fine dell’estate è il momento del numero chiuso. Gli esami di maturità sono per molti studenti solo l’anticipazione di quella che è la prova più dura: la selezione per l’ingresso all’università. Il ministero dell’istruzione ha creato un sito apposta, Universitaly, per gestire le iscrizioni alle facoltà a numero chiuso, a partire da medicina: per i circa diecimila posti annuali suddivisi nei vari atenei d’Italia, ogni anno si candidano circa 70mila persone. E tutte si portano sotto l’ombrellone i voluminosi e costosi tomi con gli esempi dei quiz (per inciso, il principale editore di questi libri, Alpha Test, fattura ogni anno quasi quindici milioni di euro, con questi testi).

Quasi tutti questi test contengono quesiti logici. In buona parte dei casi il decreto ministeriale li ritiene i più validi per la valutazione del candidato. Che tipo di abilità rivela questo genere di quesiti? E, soprattutto, perché queste abilità dovrebbero essere utili alla riuscita di chi viene selezionato in un certo campo professionale?

Ecco qualche esempio dai test di medicina degli anni passati.

“È assurdo non ritenere che è sbagliato non perdonare chi si è pentito di un errore”. Il significato della frase precedente è che:

a) È corretto che colui che perdona si penta.
b) Non è giusto che chi si pente di un errore venga perdonato.
c) Chi si pente di un errore commesso fa una cosa imperdonabile.
d) È giusto che sia perdonato chi si pente di un errore commesso.
e) È sbagliato perdonare chi ha commesso un errore.

Non è per niente semplice capire il valore di enunciati come “è assurdo non ritenere che è sbagliato non perdonare chi si è pentito di un errore”. Evidentemente non compaiono mai nel linguaggio naturale – se non appunto in test del genere – e d’altra parte hanno poco a che vedere perfino con gli esempi che si trovano, per esempio, nei primi capitoli di un manuale di logica quando si vuole dare una regola alla negazione.

Nel contesto di un manuale, l’obiettivo potrebbe essere quello di dimostrare il rapporto tra gli enunciati del linguaggio formale e quelli del linguaggio naturale corrispondente. Ma qui si assiste piuttosto a una deformazione del linguaggio ordinario – spesso parossistica se non caricaturale – priva di qualunque precisione formale: un frankenstein linguistico.

Tutto quello che c’è di interessante da capire o pensare sulla negazione si riduce a un mero conteggio per verificare se ce ne sono in numero pari o dispari. Questo serve per diventare un bravo medico? Questo vuol dire intelligenza?

Sequenze ambigue
Questo tipo di ambiguità la ritroviamo nella gran parte dei quesiti. Prendiamo per esempio uno dei generi più diffusi: il completamento di una successione. Dati pochi termini iniziali di una sequenza, si chiede al candidato di aggiungere il termine successivo individuando la regola che li produce.

Qui c’è fin da subito un problema generale: è chiaro che per ogni sequenza possibile esiste una regola che soddisfa quella sequenza; ma che regola si sta cercando? La più semplice? La più naturale? E soprattutto: c’è un modo per non rendere queste due nozioni –semplicità, naturalezza – vaghissime? Se ci pensiamo, quest’idea di semplicità, di naturalezza, di logica, non rischia di essere tipica soltanto di questo genere di esercizi?

Utilizzando l’alfabeto italiano, completare correttamente la seguente successione di lettere: E, A, U, Q, N.

a) D
b) H
c) T
d) S

La soluzione richiesta è H. E la regola è grossomodo questa: vai indietro di quattro passi nell’ordine alfabetico, poi vai indietro di tre passi, poi di quattro__, poi di tre e così via. E se invece fosse “T”? Ecco una regola che la soddisferebbe: trova l’unico completamento, tra quelli proposti, tale che la successione estesa sia l’anagramma di una parola di senso compiuto dell’italiano. E, A, U, Q, N, più T danno “QUANTE”.

Ciò che è importante qui non è che non ci sia un’unica soluzione, quanto il fatto che viene messa in discussione la concezione stessa che noi abbiamo di naturale o semplice. Chiunque conosca questo genere di test, sa per esempio che la successione deve poter essere teoricamente estendibile oltre i termini richiesti.

Sembra un test fatto solo per chi ha una certa familiarità su come vadano affrontati esercizi del genere. Il rischio è proprio che una delle principali, se non l’unica, abilità che questo genere di successioni è in grado di cogliere è l’abilità di sapere risolvere questo genere di successioni.

Questi quesiti, di vaga ispirazione enigmistica, sono ritenuti il miglior dispositivo per selezionare l’accesso a una miriade di percorsi professionali

Si può obiettare che la brevissima campionatura proposta è infelice ed esistono esempi migliori. Può darsi. E senz’altro alcune domande riusciranno meglio di altre. Ma qui il punto è piuttosto capire per quale ragione si ritenga che questi quesiti, di vaga ispirazione enigmistica (e che della logica come disciplina restituiscono una versione distorta ai limite della parodia), siano il miglior dispositivo per selezionare l’accesso a una miriade di percorsi professionali. L’ambizione, probabilmente, è quella di catturare un’ipotetica capacità di ragionamento in vitro, non mediata da reali contesti d’uso, siano linguistici o matematici.

È una pretesa smisurata e forse ottusa; in ogni caso è difficile credere che passi per l’apprendimento di una manciata di regolette irriflessive. Viceversa, analizzando il senso di questi esercizi ci si può perfino convincere che l’abilità di risolverli dipenda principalmente dalla disponibilità di tempo e risorse che l’esaminato può destinare ai libroni dei test, a eventuali ripetizioni, o addirittura ai corsi di preparazione appositi (un altro giro d’affari da milioni di euro).

Quello che sorprende è che questo tipo di preparazione (o di intelligenza?) pensata come logica enigmistica sembra un obiettivo educativo da raggiungere non solo per le selezioni di massa, ma anche una competenza per gli studenti tra le elementari e i licei.

La trappola Invalsi
Il discorso che abbiamo fatto sui quiz per il numero chiuso può essere facilmente trasposto sui test Invalsi.

La migliore riflessione proprio sugli aspetti critici e i limiti di questo tipo di valutazione, che cerca un’impossibile neutralità astratta, è forse quella che ha svolto qualche anno fa una maestra elementare, Adriana Presentini: con i suoi bambini di una classe di quarta ha cercato di aprire un dibattito filosofico sulle domande dei test Invalsi, e quello che è venuto fuori è stato molto più interessante di eventuali risposte giuste o sbagliate (il resoconto di questa esperienza si può leggere in un articolo intitolato I signori Invalsi).

Che senso ha allora l’introduzione dall’anno 2017-2018, come è previsto dalle ultime norme, di una verifica Invalsi contestuale all’esame di maturità? Si andrà ancora di più ad alimentare l’idea di una classificazione a punti della conoscenza, dell’intelligenza come una facoltà da solutore di enigmistica? Non si potrebbe invece immaginare che la scuola e l’università abbiano bisogno di altre capacità?

L’obiezione che verrebbe fatta rispetto alla valutazione e al numero chiuso, potrebbe essere come facciamo però a selezionare chi può accedere a una certa facoltà e chi no?

Per quanto riguarda l’università, abbiamo in mente due possibili conclusioni. Come in un test, può scegliere il lettore quella corretta:

a) ammesso che il numero chiuso sia inevitabile, allora si deve perlomeno riconoscere che i quesiti logici subiscono gli stessi limiti che caratterizzano gli altri quesiti, e con l’aggiunta di un’arbitrarietà difficilmente giustificabile;
b) e se invece, in un paese in cui la percentuale di laureati è la penultima dell’Unione europea, fosse lo stesso principio del numero chiuso a essere difettoso?

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