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La famosa invasione degli orsi in Sicilia è la grande impresa di Mattotti

La famosa invasione degli orsi in Sicilia. (Bim Distribuzione)

Con le voci di attori di rilievo come Toni Servillo, Antonio Albanese, Corrado Guzzanti, e la partecipazione straordinaria di Andrea Camilleri, arriva nelle sale, dopo essere stato presentato con successo a Cannes, un lungometraggio d’animazione che si rivela come uno dei film che esprime maggiore purezza e sentimento di tutto l’anno, per giunta destinato ai più piccoli.

La famosa invasione degli orsi in Sicilia, tratto dall’omonimo romanzo di Dino Buzzati – in parte prepubblicato nel 1945 a puntate sul Corriere dei Piccoli –, è un grande esempio di unione della fantasia con la profondità di sguardo, di viaggio nell’interiorità sotto forma di fiaba incantatoria che ci trascina verso un ritorno alle origini, a tutti i livelli. Un’opera tra le più innovative, coraggiose e artistiche uscite quest’anno sul grande schermo.


La sensazione del bambino di sentirsi sperduto mista a un sentimento di fascinazione – di “sperdimento”, per usare una parola fittizia che forse non stonerebbe in questo racconto – di fronte alla vastità degli spazi, alla loro immensità, è qui messa in scena in paesaggi maestosi e abbaglianti visivamente.

Ma la medesima sensazione la può avere, talvolta, anche un adulto, come nel caso di Leonzio, re degli orsi che ha perso suo figlio Tonio mentre giocava con lui in un corso d’acqua tra le immense cime dell’entroterra siciliano. Da quel momento il grande, forte e saggio orso non è più lui, è diventato fragile e si è perduto dentro alla malinconia, nell’inverno dell’anima, dimenticando i doveri verso la sua grande comunità. La notte è calata, l’oscurità del nero, o del male, ha portato via in un istante, come fosse un’entità liquida, il suo piccolo in quello che, un momento prima, era un arcobaleno di colori, i colori di una famiglia felice nella quotidianità, forse la felicità più grande che esista. Ma la felicità, di qualsiasi genere, ha sempre vita breve.

La sequenza dove Leonzio urla il nome di Tonio alle montagne che, imponenti quanto indifferenti, restituiscono solo l’eco, è tra le più belle viste al cinema

Non vogliamo svelare troppo della trama e soprattutto dei magici incantesimi poetici del film, ma in quella sequenza iniziale è enunciata la dialettica – mentre il prologo e prima ancora le straordinarie immagini in bianco e nero dei titoli di testa la tengono separata – alla quale è confrontato il film, la luce e l’ombra, il nitore e i chiaroscuri, una dialettica formale che è lo specchio metaforico del racconto e della lotta alla quale sono confrontati tutti i personaggi, marionette di carta all’apparenza, ma che racchiudono una forte connotazione simbolista.

L’arte di Mattotti, del resto, è impregnata di pittura simbolista. Sorprendentemente, non ritroviamo quei colori pastello che hanno reso celebre Mattotti, ma colori nitidi. La dimensione materica creata dal pastello lascia il posto a colori netti e a una linea del segno limpida.

La sequenza dove Leonzio urla il nome di Tonio alle montagne che, imponenti quanto indifferenti, restituiscono solo l’eco, è tra le più belle viste al cinema negli ultimi anni perché incanta benché sia quasi straziante, mentre le parole vibranti e liriche del narratore, quasi più poesia che narrazione, descrivono lo stato d’animo di Leonzio supportate dalle ottime musiche, accentuando così l’empatia dello spettatore verso di lui.

Tutto questo è raggiunto anche grazie a splendidi movimenti di macchina, che penetrano il vuoto degli spazi immensi delle montagne, all’uso raffinato del sonoro, che acuisce la percezione di una solitudine opprimente e spaesante, oltre a disegni sontuosi – dove è perfettamente riconoscibile lo stile di Mattotti – che restituiscono i paesaggi nella vastità degli spazi impregnati, nella tessitura visiva, di riferimenti tra gli altri alla pittura metafisica, così importante nella sua arte.

Ne è buon esempio La zona fatua – uno dei capolavori dell’autore – riedito in questi giorni dalle edizioni Logos che stanno riproponendo l’intera sua produzione di graphic novel, dando così modo al lettore di cogliere appieno l’ampia e fine rielaborazione di una parte importante della storia della pittura moderna, compiuta dall’autore nel suo percorso professionale, e da me in altra occasione analizzato.

Se il fondo è serio la modalità scelta per veicolarlo è quella di una fiaba giocherellona e colorata

Non si tema. Malgrado la presenza di questi elementi un po’ gravi il film incanta e diverte non poco, perché Mattotti – coadiuvato nella sceneggiatura da Jean-Luc Fromental, colto giornalista letterario, e Thomas Bidegain, sceneggiatore abituale di Jacques Audiard –, riesce a mantenere con sapienza equilibri delicatissimi di vario tipo. E d’altra parte Leonzio rinsavisce quando il vecchio orso gli suggerisce che Tonio è forse a valle, nella città degli umani sulla costa, governata da un narcisistico despota.

Parabola pacifista
E qui comincia un’avventura fatta di continue sorprese, colpi di scena, invenzioni visive, in un carosello coloratissimo e giocoso di invenzioni grafiche che nello spirito si apparentano alla miglior tradizione del cinema d’animazione italiano – di grande livello, anche se poco celebrato –, in particolare a quella degli anni quaranta e cinquanta, e alla nostra miglior illustrazione per ragazzi che deve a Mattotti un contributo importante, in particolare con l’indimenticabile Pinocchio.

Un mondo di burattini disegnati che esprimono di per sé la poesia intrinseca a certo cinema d’animazione e fumetto popolare del passato – ma che in piccola parte persiste ancora oggi – anche quando non facevano poesia come invece in questo film. Quando i soldatini del Granduca marciano uniti, Mattotti rende poesia quanto elegante coreografia grafica la pervasiva omologazione mentale intrinseca all’ideologia militarista e imperiale. E quando sono tragicamente travolti, non diciamo come, i soldatini diventano macchie di colore ma perfettamente delineate, vestigia della folle vanità imperialista. Ma il tutto è una festa per gli occhi, perché se il fondo è serio la modalità scelta per veicolarlo è quella di una fiaba giocherellona e colorata.

Parabola tra le altre cose pacifista, poiché, se per alcuni gli orsi simboleggiavano forse l’Unione Sovietica, è invece certo che nel 1945 la guerra era appena finita e la resistenza partigiana ancora fresca. Ma lo spettro potenziale della metafora è ampio e atemporale e proprio per questo si può pensare, vista la catena incessante di equivoci stupidi, ottusità e cattive informazioni e, inversamente, l’astuta risposta degli orsi, a come i francesi prima e gli americani poi si sono fatti mettere in ginocchio dalla guerriglia in quella che era Indocina, poi Vietnam. O ancora al destino dei sovietici contro i guerriglieri delle montagne dell’Afghanistan.

Innumerevoli volte si è portata insensatamente l’umanità al conflitto che, se non avesse implicazioni tragiche in termini di vite umane e distruzione, spesso somiglierebbe proprio alla farsa di questo film dove quella del mondo reale e quella del mondo di fantasia si raggiungono senza darlo a vedere.

Ritorno alle nuvole
Grande è anche il giocare sulla metamorfosi delle forme, su quello che l’apparenza nasconde, specchio del fatto che, progressivamente, qui tutti mutano dentro, in meglio o in peggio. È l’esperienza di vita, la durezza delle sue prove che li trasforma interiormente, grazie al confronto tra la luce e le ombre, quest’ultime onnipresenti ma volatili come i fantasmi che sono qui pura poesia del sogno infantile e si confondono nelle nuvole, quelle nuvole che sono un leitmotiv grafico-poetico ricorrente nell’opera di Mattotti.

Già una metamorfosi delle nuvole in esserini bianchi ed eterei, prossimi ai Moomin della svedese Tove Jansson, era stata al centro di Ghirlanda, recente graphic novel fantasista che Mattotti ha realizzato con Jerry Kramsky. D’altra parte, nulla di che stupirsi: “Mattotti torna sempre alle sue nuvole, come Monet alle sue ninfee”, scrisse diversi anni fa con bella formula Thierry Groensteen, importante critico e teorico del fumetto francofono.

Grazie a questa fondamentale e coraggiosa coproduzione italo-francese, che ci auguriamo il pubblico vorrà sostenere, Mattotti realizza un’opera profonda, diversa ma complementare al cinema di Miyazaki e Takahata, i due grandi autori giapponesi dello studio Ghibli, che lavorano sul mito e sull’arcaico, sulla fiaba e sui simboli, smarcandosi dal cinema d’animazione digitale stile Pixar che, se ha avuto grandi meriti, ora è ridotto a un cinema-giocattolo ripetitivo, a uno zuccherificio di plastica che ci spinge all’indigestione acritica di tutto quello che è ludico, senza più (re)inventare le forme.

Forse senza volerlo, Mattotti si ricollega al miglior Disney cinematografico, quello di film come Biancaneve o Bambi, dove si aveva il coraggio di fare poesia per tutti anche con l’inquietudine e la tristezza, o di rappresentare perfino la morte in sequenze di grande bellezza pittorica, anticipatrici del cinema di Miyazaki.

Se narra fin dall’inizio di un ritrovarsi – non solo come singoli ma in quanto comunità, non solo la propria interiorità ma l’identità culturale collettiva –, con questo viaggio cinematografico e pittorico, il lombardo Lorenzo Mattotti sbarca in una Sicilia qui risorta a terra mitica, mutandosi anche lui in cantastorie siciliano d’altri tempi per raccontare la grande guerra tra opposizioni formali, che, se in tutta la sua opera assurgono a simboli, qui si trasformano in una sorta di delicata e avvolgente sinfonia delle forme che disegnano il mondo e la vita. Lavorare su una rielaborazione dell’immaginario infantile per realizzare un’opera di poesia raffinatamente simbolista ma accessibile a tutti, ecco una vera grande impresa.

Lorenzo Mattotti ha disegnato la copertina del primo numero di Internazionale Kids.

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