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Periferie, carcere e canzoni: intervista a Ghali

Ghali. (Goigest)

Ghali è seduto nel cortile di un lussuoso hotel dietro piazza del Popolo, a Roma. Il tavolo è grande ma, quando si allungano, le sue gambe arrivano quasi dall’altra parte. È mattina ed è ancora un po’ assonnato perché la notte prima si è esibito al concerto del Primo maggio. Porta gli occhiali da sole e quando parla si tocca spesso i dreadlock. A tratti fa delle pause di riflessione. Non è facile capire se ha finito il discorso oppure no, si ha quasi paura di interromperlo. Ogni tanto si sistema l’impermeabile beige e rolla una sigaretta.

Quando parla dei suoi progetti, gli capita di usare il plurale. Dice “le canzoni che abbiamo”, non le “canzoni che ho”. E da questo si capisce che mette il suo lavoro alla pari di quello dei collaboratori. Ha 25 anni, è un artista contemporaneo, non pensa solo allo studio di registrazione, ma anche a come distribuire la sua musica e a come gestire la sua comunicazione. I social network, per esempio, li segue lui in prima persona. Perché in caso contrario gli sembrerebbe di “prendere per il culo i fan”. Del resto è grazie a YouTube e a Instagram che ha costruito la sua carriera, soprattutto all’inizio.

La musica di Ghali in questi anni è diventata il simbolo di tante cose: insieme a Sfera Ebbasta è considerato il nome di punta della trap italiana, un genere al quale lui non si sente di appartenere del tutto. Ma le sue canzoni affrontano anche temi di attualità come il razzismo. In Cara Italia forse il suo pezzo più famoso – canta: Quando mi dicon: ‘Vai a casa!’. Oh eh oh, rispondo: ‘Sono già qua’”. In altri, come nell’ultimo singolo I love you, racconta il carcere. Ma, come spiega lui, non ha alcuna intenzione di fare politica. Semplicemente vuole raccontare la sua storia, essere testimone del suo tempo. E vuole piacere a più persone possibile, dai ragazzi che vanno ai suoi concerti ai loro genitori.

Archiviato il concerto del Primo maggio, il rapper milanese di origini tunisine, cresciuto tra via Padova e il quartiere di Baggio, ha una serie di progetti che guardano oltre i confini italiani: quattro date in Europa (suonerà ai festival Wireless, Lollapalooza Paris, Pow Wow e Tomorrowland) e un nuovo disco, che dovrebbe uscire entro la fine dell’anno e sarà realizzato in parte negli Stati Uniti.


Sei tornato da poco dagli Stati Uniti, dove hai lavorato al nuovo disco. Com’è andata?
Siamo andati prima ad Atlanta e poi a Los Angeles. Siamo partiti dalle bozze di alcune canzoni alle quali stavo lavorando. Siamo stati in studio tutti i giorni per due settimane con alcuni produttori: Zaytoven, che ha lavorato con nomi storici della musica americana come Future, 21 Savage e Usher, ma anche Bobby Kritical, Bijan Amir, Kristofer Avedon e altri. Abbiamo ascoltato alcune basi fatte da loro e le abbiamo portate in Italia. Volevamo lavorarci qui, ma è probabile che nei prossimi mesi torneremo negli Stati Uniti, forse faremo un salto a New York. In Album, il mio primo disco, avevo collaborato solo con il produttore Charlie Charles, stavolta ho deciso di cambiare le carte in tavola. Stando al fianco di queste persone ho imparato anche nuovi metodi di lavoro.

Hai in testa anche collaborazioni con rapper e cantanti per il nuovo lavoro?
Ho già dei nomi in mente, ma al momento non li posso dire. Stavolta ci saranno ospiti sia stranieri sia italiani, alcuni inaspettati. In particolare tra gli italiani ci sono artisti emergenti che mi piacerebbe avere nel disco. Però è ancora tutto in divenire, chi lo sa, alla fine magari non ci sarà neanche un featuring.

Che impressione ti ha fatto Atlanta?
Non sono riuscito a vedere bene la città, ero sempre chiuso in studio. Non sono neanche andato in uno strip club! A Los Angeles invece c’ero già stato, è il mio posto preferito al mondo. Comunque non è la prima volta che vado negli Stati Uniti a registrare: l’anno scorso sono stato là per una settimana con il produttore Sick Luke (famoso per aver lavorato con la Dark Polo Gang). Con lui ho fatto cinque pezzi, anche se ora è uscito solo Zingarello.

Che rapporto hai con gli album? Si dice che ormai siano morti, ma a guardare i numeri su Spotify non sembrerebbe…
Quando ho cominciato a fare musica anche io pensavo che fossero una cosa superata. Io sono uscito da YouTube, facevo un singolo al mese con i video ed è partito tutto da lì. Ma non sei veramente un artista finché non fai l’album, perché ci costruisci attorno un immaginario, un tour e fai compagnia al tuo ascoltatore, lo fai entrare nel tuo mondo. È terapeutico.

Il tuo ultimo singolo, I love you, parla di carcere. Perché?
L’ho composto l’anno scorso a Milano. Sembra un pezzo estivo e ballerino, ma in realtà è una lettera d’amore a un amico immaginario che passa l’estate in prigione. Ho frequentato tanto il carcere in vita mia. Andavo a trovare mio padre a San Vittore quando ero piccolo. Ho conosciuto diversi ragazzi che sono a San Vittore oggi, con i quali sono ancora in contatto. Sono ragazzi come noi, che però hanno fatto degli sbagli. Nei mesi scorsi sono stato anche nei minorili di Bologna e di Acireale, e non mi sono sembrati per niente dei posti abbandonati. I ragazzi che stanno là hanno un bel rapporto con chi li segue.

In I love you canti: “C’è chi balla dentro a una galera dove è sempre mezzanotte”. Cosa vuol dire?
In carcere non esiste il tempo. Gli obiettivi della giornata sono diversi dai nostri, si è legati all’ora d’aria e ad altre cose difficili da immaginare per chi non le ha vissute. Quell’immagine secondo me rappresentava bene la vita di chi è dentro.


Ti sei esibito al Primo maggio e nelle tue canzoni parli spesso di razzismo. In un certo senso fai politica. In Cara Italia però canti: “Qual è la differenza tra sinistra e destra?”. Hai mai sentito il bisogno di schierarti in modo esplicito?
Io sono uno dei tanti ragazzi cresciuti in case dove la tv è più grande della libreria. A tavola non si è mai parlato di politica, con gli amici neanche. Credo molto in una politica più stretta, una cosa che succede tra me e te. Forse passerò per ignorante, ma ascoltando i politici al telegiornale non ho mai pensato che parlassero a me o ai miei amici. Io affronto dei temi raccontando la mia vita: San Vittore ne fa parte, le mie radici arabe ne fanno parte, ed è per questo che nel brano Wily Wily mescolo il tunisino, il marocchino e il francese con l’italiano. Io sono involontariamente politico. La politica non mi interessa tanto. È una cosa divisiva, io voglio parlare a tutti.

Faresti mai entrare una persona razzista a un tuo concerto?
Ai miei show c’è di tutto. Credo che i figli di alcune persone razziste costringano i genitori a venire. E che ne sai, magari qualcuno di loro dopo avermi visto dal vivo cambierà idea. Come può non cambiarla, dopo aver visto che non faccio niente di male? Perché dovrei essere diverso dagli altri? Non capisco.

Che impressione ti ha fatto la vittoria di Mahmood a Sanremo? Una parte del merito va data a Charlie Charles, che in passato è stato anche il tuo produttore.
Charlie è bravissimo. Quello che ha fatto in questi anni rimarrà nella storia. Sa bene com’è fatta una canzone e sa come farla funzionare. È bravo perché ti dà l’essenziale, lo faceva anche con i miei pezzi. E poi è curioso, aperto. Assorbe tutto dalle persone con cui lavora. Se tu senti Wily Wily sembra prodotta da uno che conosce a fondo il mondo arabo, invece lui viene da Settimo Milanese, un posto che sembra Smallville, non è praticamente mai uscito da lì.

È passato un po’ di tempo dalla tragedia di Corinaldo al concerto di Sfera Ebbasta. I mezzi d’informazione italiani non sono stati teneri con lui e l’hanno perfino accusato di essere un cattivo esempio per i giovani. Ti senti di dover dire qualcosa sulla vicenda?
In Italia si sente sempre il bisogno di dare la colpa a qualcuno, perché così fai notizia. Io spero che una cosa come quella di Corinaldo non succeda più, e credo che Sfera ci stia soffrendo ancora, pensando a quello che provano i genitori delle vittime. Si punta tanto il dito contro i testi dei rapper, ma se li analizzi vedi che non sono tanto diversi da quelli delle rockstar del passato. L’arte non va mai censurata.

Da sempre consideri il rap francese come un punto di riferimento. Perché?
Per me è fondamentale, così come la musica nordafricana. Ho cominciato a usare l’autotune ispirandomi al rapper Booba. Il rap italiano e quello francese sono simili, per motivi metrici, tematici, ma anche architettonici. La musica nasce nelle strade ed è plasmata dai palazzi. L’architetto Fabio Novembre un giorno mi ha letto una frase bellissima di Goethe che mi piace molto (prende il telefono, e dopo averla cercata per un po’, la legge ad alta voce): “La musica è l’architettura liquida e l’architettura è la musica congelata”. Quello che faccio io non lo chiamo trap, perché la trap arriva da un certo contesto urbano, da un certo stile di vita che non ha niente a che fare con il nostro. Mi fa strano che gli italiani si ispirino solo alla musica statunitense.


A proposito di fonti d’ispirazione, tua madre ricorre spesso nelle canzoni che scrivi.
Per forza, lei è stata una figura fondamentale nella mia crescita, un punto di riferimento. Mi accompagnava in studio, mi dava i soldi per registrare. Il primo pensiero quando ho raggiunto il successo è stato comprarle una casa a Baggio. Del resto è il mio quartiere, anche io vivo ancora lì.

Sei giovane, ma nelle tue canzoni c’è una certa nostalgia. In Ninna nanna per esempio hai citato la catena di videonoleggio Blockbuster, che in Italia non esiste più dal 2012. Come mai?
Quando ero piccolo vivevo in viale Padova, vicino a Loreto. Appena ho cominciato ad attraversare la strada facevo solo tre cose: andavo a comprare il pane, all’internet point e al Blockbuster. Lì prendevo a noleggio i videogiochi, ma c’erano anche i gelati americani tipo gli Häagen-Dazs. A volte entravo solo a guardare le copertine. Questa cosa della nostalgia mi è venuta un po’ dopo aver ascoltato Calcutta. Se non avessi scoperto lui non avrei mai messo in un pezzo rap un’immagine come quella del Blockbuster. Quella è una cosa che avrebbe fatto Calcutta.

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