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Jonson, 5 anni, vive con la sua famiglia in un location block, l’area in cui abitavano i minatori stranieri, ottobre del 2014. Dopo la chiusura della miniera all’inizio del 2000, nell’area si sono trasferite le famiglie del posto. (Vlad Sokhin, Panos/Luzphoto)
Una stazione di servizio a Nauru, ottobre del 2014. La benzina arriva su delle navi dall’Australia e molte stazioni sono gestite da imprenditori cinesi. (Vlad Sokhin, Panos/Luzphoto)
Un ristorante a Nauru, ottobre del 2014. Molti dei piccoli ristoranti dell’isola sono gestiti da imprenditori di Hong Kong. (Vlad Sokhin, Panos/Luzphoto)
Un cannone giapponese risalente alla seconda guerra mondiale, vicino a un chiosco, ottobre del 2014. (Vlad Sokhin, Panos/Luzphoto)
Le strutture abbandonate che appartenevano alla miniera di fosforo, ottobre del 2014. (Vlad Sokhin, Panos/Luzphoto)
Un’auto abbandonata lungo una strada, ottobre del 2014. (Vlad Sokhin, Panos/Luzphoto)
Uno stadio abbandonato, ottobre del 2014. (Vlad Sokhin, Panos/Luzphoto)
Una partita di calcio, lo sport nazionale di Nauru, ottobre del 2014. (Vlad Sokhin, Panos/Luzphoto)
Ragazzi giocano a pallavolo, ottobre del 2014. (Vlad Sokhin, Panos/Luzphoto)
Due richiedenti asilo fuori da un centro di accoglienza per famiglie con bambini, ottobre del 2014. (Vlad Sokhin, Panos/Luzphoto)

L’isola dei profughi

In pieno oceano Pacifico, l’isola-nazione di Nauru – con una superficie di 21 chilometri quadrati e una popolazione di diecimila abitanti – è la repubblica più piccola del mondo. Un tempo considerata ricca per le sue miniere di fosfato, esaurite le riserve ha provato a riciclarsi come paradiso fiscale. Finché non ha trovato un nuovo modo per rimpinguare le casse pubbliche: nel 2001 l’Australia ha finanziato la costruzione a Nauru di un centro di detenzione in cui rinchiudere i migranti illegali fermati in mare dalla marina australiana. In cambio, Canberra si è impegnata a versare al paese circa venti milioni di dollari australiani in aiuti allo sviluppo.

Il centro era inizialmente pensato per 800 persone, ma nel tempo ha accolto più di mille richiedenti asilo – tra cui anche famiglie – soprattutto iraniani, iracheni, afgani, pachistani e tamil dello Sri Lanka. Nel 2007 il governo australiano ha interrotto il programma di finanziamento, ma lo ha ripreso nel 2012 in seguito a una nuova ondata di arrivi di migranti.

Secondo Amnesty international, che insieme ad altre agenzie delle Nazioni Unite e ong si è vista rifiutare più volte il permesso di entrare nel campo, i centri di accoglienza non sono in grado di assicurare le condizioni minime di salute e di sanità mentale e che le condizioni di vita all’interno del centro di detenzione costituiscono “una catastrofe umanitaria”.

I migranti in attesa di una risposta alla loro richiesta d’asilo vivono ammassati in tende in vinile, che si allagano quando piove e si surriscaldano nelle giornate di sole. Sono frequenti i casi di suicidio, di autolesionismo e di gesti di protesta. I rifugiati che ottengono lo status restano a vivere a Nauru, ma sono spesso discriminati dalla popolazione locale. Numerose le denunce di abusi e violenze: l’ultima in ordine di tempo è quella di una donna somala di 23 anni che ha denunciato di essere rimasta incinta dopo aver subìto una violenza.

Ai migranti era stato vietato girare liberamente per l’isola, entrare nelle scuole, negli ospedali, nel porto e nell’aeroporto. Questa situazione è cambiata all’inizio di ottobre, quando il governo ha annunciato che tutte le domande di asilo saranno evase entro la metà del mese e che il centro di detenzione rimarrà aperto 24 ore su 24 e sette giorni su sette.

Le foto di Vlad Sokhin, scattate nell’ottobre del 2014, raccontano la vita degli abitanti di Nauru.

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