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Il jihad cerca casa in Africa

Un furgone in viaggio verso Mararaba, in Nigeria, una città in mano a Boko haram e riconquistata dall’esercito nel maggio del 2015. (Akintunde Akinleye, Reuters/Contrasto)

La regione costiera del Kenya si è trasformata da meta turistica a terra di nessuno nel giro di pochissimo tempo. Negli ultimi mesi gli unici stranieri sulla spiaggia sono stati i jihadisti somali. Hanno occupato moschee dove hanno insediato predicatori che fomentano l’odio e le bandiere nere. Centinaia di giovani del posto si stanno unendo a loro e Ali Roba, governatore della contea di Mandera, abitata in gran parte da cittadini di etnia somala, definisce la situazione “estremamente preoccupante”. Di questo passo la costa potrebbe finire per somigliare al nord della Nigeria. Un ambasciatore residente a Nairobi teme la “nascita di un Boko haram keniano”.

Dopo gli ultimi attentati in Tunisia, gli europei hanno cominciato a temere che gli estremisti islamici possano attaccarli anche dall’altra parte del Mediterraneo. Ma sembra più probabile che il supervirus jihadista si diriga a sud. Il Sahel, una fascia arida all’estremità meridionale del deserto del Sahara che si estende dall’oceano Atlantico al mar Rosso, ha già preso la febbre dall’Algeria e dalla Libia.

Un numero crescente di località nell’Africa subsahariana, in Camerun, Ciad, Nigeria e Niger, è ormai terra di nessuno. Il Mali settentrionale è interdetto agli stranieri (soprattutto agli occidentali) fin dalla rivolta appoggiata dagli islamisti nel 2012, anche se l’intervento militare francese nel 2013 ha impedito ai jihadisti di avanzare fino alla capitale del paese. Con i suoi ultimi attacchi Boko haram ha ucciso centinaia di persone in Nigeria e in Ciad, costringendo il presidente nigeriano Muhammadu Buhari a sostituire i vertici dell’esercito.

Sul versante orientale del continente, l’islam radicale ha varcato la linea dell’Equatore e si è diffuso fino in Tanzania. I jihadisti hanno attaccato leader e turisti cristiani con bombe artigianali, pistole e getti di acido. La Tanzania è diventata inoltre un luogo di transito per gli estremisti islamici europei. “Jihadi John”, il jihadista britannico del gruppo Stato islamico (Is) noto per aver decapitato degli ostaggi davanti a una telecamera, è passato per Dar es Salaam, la città più grande della Tanzania, prima di andare in Siria.

Sono più di una decina i paesi dell’Africa subsahariana ad avere problemi con il jihadismo interno: il Camerun, la Repubblica Centrafricana, il Ciad, l’Eritrea, l’Etiopia, il Kenya, il Mali, la Mauritania, il Niger, la Nigeria, la Somalia, il Sudan, la Tanzania e l’Uganda. In molti posti gli attacchi di stampo jihadista si verificano ogni giorno o ogni settimana. C’è grande disponibilità di armi, spesso lascito di guerre civili di stampo non religioso in cui sono morte decine di migliaia di persone.

L’eredità di Bin Laden

Il Sudan è un crocevia attraverso cui molti gruppi estremisti islamici raccolgono o si scambiano uomini, materiali e competenze. Un colpo di stato nel 1989 ha portato al potere un gruppo di generali alleati con islamisti di un’altra epoca che, due decenni più tardi, avrebbero dato ospitalità a Osama bin Laden. Da allora il regime ha maturato un sospetto crescente nei confronti dell’islamismo incontrollato, sebbene non disdegni di cooptarlo all’occorrenza. La principale università della capitale Khartum ha fatto da magnete per gli studenti radicali. Alcuni si sono spostati sui campi di battaglia a nord e a est, seguendo le tracce di Osama bin Laden.

I due principali brand del jihadismo violento, il gruppo Stato islamico e Al Qaeda, si contendono la fedeltà di vari gruppi jihadisti africani. Le connessioni tra i gruppi sono tuttavia molto più complesse delle mere dichiarazioni di fedeltà.

Paradossalmente, i legami transnazionali spesso nascono non quando gli estremisti sono forti, ma quando sono più deboli. Durante un’ondata repressiva contro Boko haram, nel 2009, molti leader del gruppo sono andati in Ciad, Sudan e Somalia. Da allora nei video di propaganda si sono sentite voci in arabo sudanese. Il principale costruttore di autobombe del gruppo è stato addestrato in Somalia. Le tattiche militari mobili imparate in Ciad (note come “guerra delle Toyota”) hanno trasformato il modus operandi di Boko haram. Quando il gruppo era in ascesa, lo scorso anno, ha rivolto lo sguardo oltre il confine nigeriano, verso est, reclutando dei camerunesi in momenti di magra.

Il jihadismo in Africa subsahariana molto probabilmente continuerà a diffondersi a partire da conflitti attualmente in corso che coinvolgono gruppi in Libia e in Nigeria; i loro appartenenti fuggiranno nella distesa di sabbia che ricopre gran parte dell’Africa al di sopra dell’Equatore, com’è successo dopo che le forze francesi hanno cercato di spazzare via gli estremisti islamici dal Mali del nord nel 2013.

I confini nel Sahel non hanno mai significato un gran che, e la politica è da tempo intrecciata al commercio. Gruppi jihadisti come Ansar al Sharia, il Movimento per l’unicità e il jihad in Africa occidentale (Mujao) e Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) sono cresciuti grazie alle reti di contrabbando. Sono in grado di percorrere enormi distanze seguendo antiche e misteriose rotte commerciali in mezzo al deserto. “La loro mappa non è quella che conosciamo noi”, ha affermato un funzionario dell’intelligence in Nigeria.

Un soldato di guardia dopo un attacco suicida dei jihadisti di Al Shabaab a Mogadiscio, contro una base di addestramento dei servizi segreti somali, il 22 giugno 2015.

Anche se i gruppi estremisti islamici sono appoggiati da élite piene di soldi, non potrebbero sopravvivere senza il sostegno popolare. Ciascuno di essi si nutre di noti elementi di malcontento locale. Dal Mali alla Nigeria, dal Kenya alla Tanzania, è sempre la stessa storia: gli estremisti emergono, al tempo stesso corteggiandole, da popolazioni musulmane emarginate, stanche di decenni di abbandono, discriminazioni e maltrattamenti da parte dei governi. I jihadisti riescono a sfruttare tensioni religiose preesistenti e si attaccano a comunità musulmane scontente.

Tra l’altro, i conflitti alimentati dai jihadisti provocano masse ancora più vaste di profughi, che sono vulnerabili alla radicalizzazione o possono covare il tipo di risentimento che la favorisce.

La protesta del continente

Sempre più spesso l’estremismo africano è guidato non solo dall’opportunità o dalla potenza di fuoco, ma dall’ideologia. La nascita di un grande califfato che vada da Mosul, nell’Iraq del nord, a Maiduguri, nella Nigeria nordorientale, non è imminente. Tuttavia quest’idea velenosa si è diffusa attraverso migliaia di chilometri. L’estremismo islamico è la nuova ideologia di protesta del continente.

In questa veste ha un potere unico. La politica africana tende a ruotare attorno a lealtà tribali ed etniche. Ma lascia vuoto uno spazio politico molto ampio. Un gruppo come Al Shabaab, in Somalia, può così posizionarsi “al di sopra della tribù”.

Solo una competizione politica reale potrebbe modificare questa dinamica. Tuttavia la maggior parte dei leader etnici e tribali non ha interesse a sovvertire il potere. I governi africani e occidentali devono così contrastare il jihadismo con la forza delle armi: la Francia ha schierato una forza di risposta rapida di tremila uomini in Ciad, con sei jet e 20 elicotteri militari; gli Stati Uniti hanno costruito basi per droni in tutto il continente.

Queste dimostrazioni di forza non basteranno da sole a eliminare la minaccia. In Somalia la lotta sostenuta dall’occidente contro i jihadisti ha fatto qualche progresso. Gli Shabaab hanno perso uomini e territori. Ma sono ancora attivi. Prima operavano solo in Somalia, adesso sono penetrati oltre il confine con il Kenya.

In questa impresa hanno trovato un alleato inatteso (e inconsapevole) nell’esercito governativo. In Kenya, come altrove, la brutalità dell’esercito è stato il miglior strumento di reclutamento degli estremisti. I soldati hanno rinchiuso e torturato migliaia di persone senza ragione. Nel paese tutti conoscono almeno una vittima. Negli ultimi due anni sulla costa keniana sono stati uccisi più di venti religiosi musulmani.

Tuttavia, più i governi si sentono minacciati, più spazio concedono ai loro militari. Questa dinamica non solo irrita le opposizioni, ma trasforma stati fragili in stati che si sgretolano.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è stato pubblicato sull’Economist.

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