×

Fornisci il consenso ai cookie

Internazionale usa i cookie per mostrare alcuni contenuti esterni e proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso, consulta questa pagina.

Il potere delle vignette

Chappatte, Der Spiegel, Germania

Il 27 gennaio il quotidiano danese Jyllands-Posten ha pubblicato una vignetta che raffigurava la bandiera cinese, dove le stelle gialle erano state sostituite dalle forme del virus Sars-cov-2. All’epoca la diffusione del nuovo coronavirus era praticamente limitata alla Cina, che aveva registrato 4.349 casi e 106 morti. Circa 44mila persone si trovavano in quarantena a Wuhan, la città considerata all’origine dell’epidemia, e nella provincia dello Hubei.

L’ambasciata della Cina in Danimarca ha immediatamente preteso le scuse ufficiali dal giornale, aggiungendo che la vignetta mancava di “solidarietà o empatia”. Lo Jyllands-Posten si è rifiutato di farlo, sostenendo che la vignetta non era irrispettosa verso i cinesi.

I politici danesi hanno difeso la libertà d’espressione del quotidiano. Altri quotidiani occidentali che erano stati rimproverati dalle autorità cinesi per il modo in cui stavano coprendo l’epidemia si sono difesi precisando che le loro critiche erano rivolte allo stato cinese, colpevole di aver inizialmente messo a tacere le notizie sulla malattia, non ai suoi cittadini (lo Jyllands-Posten ha una lunga storia di vignette che fanno discutere: nel 2005 si è attirato molte critiche per aver raffigurato il profeta Maometto come un terrorista e altri giornali che avevano ristampato le vignette, tra cui il francese Charlie Hebdo, sono stati bersaglio di attacchi).

Nel parlare del covid-19 i vignettisti si trovano davanti a una sfida particolare: come rendere qualcosa di impercettibile come un virus in un’unica immagine, dove non c’è quasi spazio per le sfumature o il contesto? Prima che la malattia si diffondesse fuori dalla Cina molti ricorrevano a immagini che si riferivano al luogo d’origine, reale o percepito. La copertina dell’Economist del 1 febbraio raffigurava il pianeta con indosso una mascherina dai colori della bandiera cinese. Alcuni disegnatori hanno usato i tratti asiatici come una sorta di scorciatoia visuale. Un vignettista del Sydney Morning Herald ha disegnato una persona arrabbiata con indosso una tuta protettiva che incombeva su un malato dalle sembianze asiatiche.

Immagini senza sfumature
In passato immagini del genere hanno avuto conseguenze devastanti. Nel 1894 la Cina meridionale fu colpita da un’epidemia di peste bubbonica. Sei anni dopo la malattia aveva raggiunto tutti i continenti attraverso le vie commerciali. Nel 1900 vari quotidiani in California pubblicarono vignette con cinesi americani che vivevano in luoghi sporchi e sovraffollati, o mangiavano topi. Questo ha perpetuato l’idea che fossero una minaccia per la salute pubblica, anche se non avevano contatti con la Cina. Quest’idea ha finito per influenzare i provvedimenti presi successivamente dallo stato, compreso l’isolamento delle Chinatown nelle città statunitensi (a Honolulu le autorità cominciarono a bruciare i rifiuti all’interno della zona della quarantena, causando un incendio che distrusse quattromila abitazioni).

Durante l’epidemia di Sars del 2003 alcuni quotidiani statunitensi pubblicarono vignette che stigmatizzavano i cinesi. Sulla Tribune Review di Pittsburgh, per esempio, uscì l’immagine satirica di un contenitore d’asporto di un ristorante cinese con scritto “Sars” e la didascalia “Pessimo cibo cinese”. I sentimenti antiasiatici erano molti diffusi, e le persone e le aziende d’origine asiatica erano discriminate. Analogamente molte persone d’origine asiatica hanno riferito episodi di razzismo all’inizio dell’epidemia di covid-19: secondo la Asian Americans advancing justice, un gruppo di attivisti di Washington, a febbraio questo tipo di violenze è aumentato vertiginosamente.

In parte la colpa è del presidente Donald Trump, che ha continuato a parlare del nuovo coronavirus definendolo il “virus cinese”, ma è probabile che abbia contribuito anche la circolazione di immagini denigranti, come una vignetta del disegnatore Monte Wolverton in cui si vedeva una massa di tentacoli erompere dalla Cina con la didascalia “Ancora un’altra pandemia”. L’immagine è stata venduta a diversi siti di notizie negli Stati Uniti e in altri paesi del mondo.

Man mano che il virus si diffonde, il tono delle vignette pubblicate sui giornali occidentali sta cambiando. Daryl Cagle, che gestisce un sito che distribuisce vignette da tutto il mondo, ha riferito al Washington Post che “nei primi giorni della pandemia c’erano molti più stereotipi sulla Cina”. Le vignette più recenti prendono di mira gli errori dei leader di ciascun paese, parlano di borse instabili o si concentrano sulle assurdità della nuova realtà che le persone si ritrovano a vivere. In una versione dalla Creazione di Adamo di Michelangelo sul quotidiano greco Efimerida Ton Syntakton si vedevano Dio e Adamo con la mascherina protendere i gomiti l’uno verso l’altro.

Diversi vignettisti hanno messo in evidenza le fatiche e i sacrifici degli operatori sanitari di fronte alla pandemia. Il premio Pulitzer Mike Luckovich, dell’Atlanta Journal-Constitution, ha ripensato la famosa immagine dei marines degli Stati Uniti che innalzano la bandiera su Iwo Jima con infermieri, medici e ricercatori al posto dei soldati. Invece di mettere gruppi di persone gli uni contro gli altri, queste immagini sottolineano la comune umanità e dignità.

Le vignette hanno molti punti di forza: sono veloci da realizzare e pubblicare, facili da consumare e condividere. Nei periodi di crisi i migliori vignettisti offrono un momento di leggerezza o incoraggiano la solidarietà invece di seminare discordia. Un esempio calzante e commovente l’ha offerto Graeme Bandeira sullo Yorkshire Post. Il disegno in bianco e nero ritrae un’anziana signora che cammina con un bastone e il cestino vuoto nella corsia deserta di un supermercato. Nella didascalia si legge: “Siate gentili”.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è uscito sul settimanale The Economist.

pubblicità